La GIPSI/ 3

Avevamo già detto della tradizione letteraria che mette in luce la nevrosi della prole in famiglia. A fronte di un atteggiamento Genitoriale (“io sono ok, tu non sei ok”) piuttosto indebolito dei propri genitori, ma pur intrinseco al ristagnare della GIPSI, questa mostra una postura di Bambino (“io non sono ok, tu sei ok”) alquanto aggressiva.

di in: Captaplano

La GIPSI è frequentatrice di bagni, autorimesse e ufficetti distaccati dal corpo abitativo. La famiglia risulta un sistema di spazi intagliati a mosaico. Immaginando di formare con i vani di casa una scacchiera, la GIPSI  si muoverà alla ricerca del vuoto. Preferite, in tal senso, l’elusività della mossa del cavallo e le rapide e trasversali discese dell’alfiere. Molteplici, una volta raggiunto il territorio libero, gli arrocchi, con corazza musicale. Il luogo dell’appuntamento comunitario, stabilito da rigide e rispettate scansioni temporali, la cucina. Lì il tempo della socialità e del lavoro, del sostentamento organico; altrove, dove si può, la durata interiore, la flanella dell’inutile, la temporalità lasca che va verso la trasparenza, del sogno che sdrucisce i confini. Bar sotto la pioggia e il tempo ben prima di Starbucks.

La famiglia si configura dunque come un palcoscenico dove mettere in scena la propria assenza. Tanto più la famiglia è apparentemente contigua alla GIPSI, per livello di studi, passione politica e apertura d’orizzonti, tanto più esse s’accoccolano nelle proprie pieghe e cavità con reciproca soddisfazione. Cessati i lamenti adolescenziali per la mancanza di rapporti e di comunicazione profonda, la distanza generazionale si sintonizza efficacemente nelle geometrie della casa. L’unica differenza tra genitori e figli sta nella lettera G della GIPSI. Ma questa rimodella in realtà tutto l’acronimo in una diversa antropologia di debole opposizione. Per esemplificare in maniera un poco grossolana, se i genitori sono impolitici la GIPSI accentua l’impegno (magari puramente verbale), se i genitori, viceversa, risentono di antiche lotte, la GIPSI sfuma d’ironia l’impegno; se i genitori restano angustamente provinciali la GIPSI s’apre a inedite panoramiche internazionali, se al contrario i genitori viaggiano molto la GIPSI non uscirà dalle mura, in ostinato monolinguismo. Inoltre, come detto, la purezza etnica del nocciolo della GIPSI (inteso come il centro dei cerchi concentrici dov’è caduto il sasso nell’acqua) è costituito da anacronistici studi umanistici, fatto che distanzia il suo percorso esistenziale da quello di qualsiasi genitore laureato in facoltà diverse. Ed è altrettanto certo che se i genitori avessero la medesima formazione (cosa che di solito non è, a favore di più solidi sbocchi professionali), allora in comune si darà solo il pezzo di carta, non la costellazione degli autori di riferimento, in arte e pensiero, che anzi si approfondisce così e scava un abisso.

La GIPSI, giova ripeterlo, marca la propria distanza di generazione non con la polemica o lo scontro, ma con la sottrazione del contatto (ritenzione non pissing), a cominciare appunto dallo spazio. Mentre paradossalmente più vitale e dialettico, seppur ugualmente autistico, si mostra il collegamento con genitori dall’antropologia più tradizionale e distante. Allontanandosi sotto ogni aspetto si avvicinano allora fino al corpo a corpo in una stanza buia. La ricerca di spazi propri diventa quindi per la GIPSI più drammatica e sofferta, fino al sogno proibito dell’uscita di casa. Che cozza con le dure leggi dell’economia e pure con una certa masochistica inerzia. Da un lato i giovani intellettuali non tenterebbero mai la fortuna nel mondo senza qualche forma di basilare certezza, dall’altro non amano lavoretti sottopagati, part-time ritenuti umilianti o qualsiasi ripiego di galleggiamento. Ammantano poi molto spesso la loro lunga sosta in famiglia e nella casa con la missione pedagogica e redentrice nei confronti dei genitori, di cui agognano una finale Canossa sul letto di morte. La malafede non si presenta, però, come potrebbe apparire superficialmente, rispetto a una condizione tutto sommato privilegiata da cui si fatica a staccarsi, perché questo genera reale, a volte infernale, sofferenza, ma piuttosto rispetto a un rapporto con i genitori, di pedagogia rovesciata, che s’è fatto “gioco”. Ovvero, per dirla con l’AT, scena sclerotizzata in ruoli fissi.

Avevamo già detto della tradizione letteraria che mette in luce la nevrosi della prole in famiglia. A fronte di un atteggiamento Genitoriale (“io sono ok, tu non sei ok”) piuttosto indebolito dei propri genitori, ma pur intrinseco al ristagnare della GIPSI, questa mostra una postura di Bambino (“io non sono ok, tu sei ok”) alquanto aggressiva. Ciò potrebbe essere la traduzione della biografia di migliaia di scrittori, artisti, musicisti, commediografi e cineasti, che sono dovuti sfuggire alle aspettative della famiglia borghese. –  E la GIPSI pasticcia di nascosto con l’arte (Essenza), la parola (Albi), la filosofia (Andrea). – Un tema ben attestato, quello dei figli degeneri, nel romanzo e nella poesia della prima metà dell’Ottocento (Flaubert, Baudelaire), che trova nuovo carburante proprio negli affondi della psicologia e soprattutto della psicoanalisi. Il Bambino diviene moneta corrente, addirittura un cliché, con il teatro e il romanzo realista di fine Ottocento e del primo Novecento; il suo manifesto ancora pienamente lacerante La lettera al padre di Kafka. Eppure se, abbiamo detto, l’inetto Zeno viene schiaffeggiato dal padre morente, Joyce vendica l’amico Svevo, e Stephan Dedalus rifiuta alla madre di pregare sul suo catafalco, dandole il colpo di grazia si dice.

A fronte di un atteggiarsi filiale passivo e abbattuto, e pure sordamente querulo e rivendicativo, da abulici e falliti resistenti, stanno le mille ribellioni bohémiens o maledette che operano con violenza il salutare tradimento junghiano, necessario per bucare il sogno del Genitore, vera bolla carceraria, verso la propria individualità. L’inventore cinematografico di questo giovane, a livello popolare, prima del sofisticato eroe truffautiano de I cento colpi, è il James Dean di Gioventù bruciata, quando piange di rabbia per la tirannia della madre e l’acquiescenza del padre, si divincola e prende la corsa. In quel breve monologo, che anticipa la contestazione dei decenni Sessanta e Settanta del Novecento, la postura del Genitore verrà assunta dalle nuove generazioni che additeranno poi abitudini, sessualità, gusti e principi dei “matusa” come scandalosamente “non ok”. Così il ruolo di Genitore diventa contendibile tra padri e figli, fino alla GIPSI, che si riempie gli occhi di musica e cinema e letteratura ribelle, ma che ride fino alle lacrime alle smanie di Dean e di tutti i suoi epigoni.

Telefono Albi, telefono per te, TELEFONOOOO!

Dove vai?

Vado di là.

Dove sei, in camera?

No.

Potresti evitare di disordinare tutte le stanze; trovo sempre qualcosa di tuo dappertutto.

È come i topi che smerdano ovunque riescano ad entrare.

Io sono la Visione: attraverso i muri.

Prendere il Palazzo d’Inverno? Errore tattico: subito al posto dello Zar un Comitato Centrale.

Si affaccia alla finestra, corre giù per le scale ad aprirti la porta, ti prende sottobraccio verso un corridoio: il re dei corridoi.

Vieni, andiamo a studiare dentro lo specchio.

La madre, quando una volta, di passaggio, buttò l’occhio sulle foto che Essenza si rigirava tra le mani, ritagliava e incollava, disse che il tipo aveva i capelli unti e sembrava un barbone. Al netto dell’arrabbiatura e della liquidazione che rappresentavano l’abituale reazione GIPSI ai giudizi estetici dei genitori, le parole della madre riuscivano sempre a restare dentro a Essenza. Dopo non so quanto tempo disse, a se stessa però, che i capelli non erano unti, erano polverosi. La maglietta tarlata, i jeans strappati erano il segno di chi usciva da un crollo.

Aveva vent’anni nel 1989 e i Nirvana avevano esordito nel 1989 con Bleach: questo è un fatto.

Aveva vent’anni e almeno da due leggeva furiosamente e furiosamente discuteva di letteratura con la Banda: nel pantheon e nella hit c’erano Tonio Kröger di Thomas Mann, ritratto di giovane fuori dal ballo, Sartre l’esplicatore, con La nausea, Bukoski, il minor demone negativo. Scritture che non c’entravano per nulla l’una con l’altra, se non per un puro quanto bieco nichilismo, con cui si cercava di definire se stessi e l’orribile realtà. Si parlava spesso di Magris allora e dal recupero de Il mito asbugico: la Banda aveva tirato fuori tutti gli autori che, per dirla con Roth, avevano inteso la Grande Guerra come fine di un mondo; Trakl in particolare, con le sue ferite purpuree e violacee. La scuola aveva offerto a tutti quanti volessero ascoltare, e ormai da qualche anno, Leopardi e Montale, qualche precoce o stagionata cugina Francesco Guccini già nei primi anni Ottanta: così ben equipaggiati si varcavano i vent’anni.

Aveva vent’anni e quelle letture, dunque, e non aveva bisogno di Nevermind per capire, né tanto meno di indossare camicie a scacchi, mezzi guanti o converse All Star; però per comodità con la Banda, salutandosi, e più tardi testando e infettando qualche nuova conoscenza, oppure la mattina, il pomeriggio o la sera davanti allo specchio, si diceva: “Hello, hello, hello, how law?”

Le canzoni dei Nirvana generalmente cominciavano piano e poi sbarellavano. Magari non era una caratteristica così innovativa, però di certo era una loro peculiarità. Come lo sbattere contro un ordine costrittivo, come un crollo nervoso da cui traboccare fuori: stasi e accelerazione, le caratteristiche vissute dalla GIPSI attorno al 1989. L’uomo polveroso e stracciato, che canta il suo disagio, si muove tra una caduta e un crollo, quello del Muro di Berlino e delle Torri gemelli; chiuso tra due parentesi che sono come due tenaglie di enfasi e di lutto, sempre di bombardamento retorico mediale, la GIPSI di quel decennio nasceva e anagraficamente moriva in quanto tale. Intanto Essenza ha finito il collage di Kurt e decide di portarlo in garage, il suo studio di pittrice.

Andrea sale le scale, si apre la porta, un uomo abbruttito lancia il suo insulto e richiude. Andrea tempesta la porta, suo padre scende dal piano e lo strattona di sopra.

– Perché ci devi rispondere? –

– Non vedo perché deliziarmi al basso della sua ignoranza. –

– Tanto studiare per non trattare neanche con la gente. –

– Mica mi sono laureato in buone maniere del Rinascimento io. –

– Non usare quel tono lì con me, neh. E neanche quelle parole. –

– Perché se no. –

– Té spaco la testa. –