Tempi tolkieniani

Se, come si è detto, Hamas, oltre a essere il male assoluto, è anche come l’Isis, conviene integrare l’immaginario tolkieniano con qualche esempio fantasy che coinvolga l’aspetto religioso. Verrebbe subito alla mente il Salgari più affascinante.

di in: Captaplano

“Era una città di mattoni rossi o, meglio, di mattoni che sarebbero stati rossi, se fumo e cenere lo avessero consentito. Così come stavano le cose, era una città d’un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo. C’era un canale nero e c’era un fiume violaceo per le tinture maleodoranti che vi si riversavano; c’erano vasti agglomerati di edifici pieni di finestre che tintinnavano e tremavano tutto il giorno; a Coketown gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano con moto regolare e incessante come la testa di un elefante in preda a una follia malinconica. C’erano tante strade larghe, tutte uguali fra loro, e tante strade strette ancora più uguali fra loro; ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro, che entravano e uscivano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso scalpiccio sul selciato, per svolgere lo stesso lavoro; persone per le quali l’oggi era uguale all’ieri e al domani, e ogni anno era la replica di quello passato e di quello a venire”.

Prendiamo la città immaginata da Dickens sul modello di quelle della Rivoluzione industriale inglese, sprofondiamola sotto terra ed avremo Angband, “l’Inferno di Ferro” del Silmarillion tolkeniano e nido di Melkor:

“In quei giorni, le terre dell’estremo nord divennero tutte deserte; là, infatti, era stato scavato Utumno a grandissima profondità e le sue voragini traboccavano di fuochi e delle grandi schiere dei servi di Melkor”.

Melkor, come il Satana dantesco ma decisamente più attivo, si intana dentro la terra, lontano dalle luci dei Valar, covando il suo rancore di reietto e concretizzando la violenza repressa di rivincita e di dominio in tenebra e sterile inverno: 

“Melkor iniziò a scavare e a costruire una grande fortezza, sprofondata giù nella Terra, sotto montagne oscure dove i raggi di Illluin erano freddi e pallidi. Quella roccaforte fu chiamata Utumno; e, benché i Valar nulla ancora ne sapessero, la malvagità di Melkor e la perfida influenza del suo odio esalavano da essa, così che la Primavera di Arda ne fu guastata”. 

Dalla metafisica sembra che si passi ad un vero e proprio inquinamento ambientale, per cui Angband appare appunto una sterminata fabbrica con cancello e ciminiere, scarichi e scorie capaci di oscurare il cielo e sporcare la terra:

“Melkor scavò una grande galleria che sbucava a sud dei monti; e la chiuse con un enorme cancello. Ma al di sopra di questo e fino alla catena montana stipò i tonanti torrioni di Thangorodrim, fatti con la cenere e le scorie delle fornaci sotterranee oltre che con il molto materiale di scavo della galleria. Erano neri, tetri, altissimi; e fumo prorompeva dalle loro cime, fumo nero a insozzare il cielo del nord. Davanti alle porte di Angband, sozzume e desolazione dilagavano verso sud per miglia e miglia dell’ampia piana di Ard-galen”.

Il male nel sottosuolo come un vulcano ribolle pronto ad erompere, prima o poi, in superficie con forza distruttrice. La produzione industriale di metalli, e pure di servi che paiono a loro volta, come i lavoratori in Dickens, numerosissimi e intercambiabili pezzi sfornati dalle fucine infernali. Melkor combatte infatti una serie infinita di guerre ma i suoi servi restano sempre superiori per quantità in modo schiacciante; li anima con il proprio spirito malvagio come fossero automi di creta a cui è stata insufflata la vita. Quando vengono in superficie sono avvolti da quei fumi pestilenziali, che li celano per colpire a sorpresa e nel contempo  li difendono dalla luce loro nemica:

“Ora, gli Orchi che si moltiplicavano nella tenebra della terra crebbero in forza e in ferocia, e il loro scuro signore li colmò di brama di rovina e morte; ed essi sortirono dalle porte di Angband al riparo delle nuvole inviate da Morgoth e in silenzio penetrarono negli altopiani del nord”.

Nella fabbrica del signore oscuro lavorano i suoi servi autoprodotti ma anche i suoi nemici, come Turgon ricorda ad Eöl: “già da un pezzo ti troveresti a faticare ridotto in servaggio nelle voragini di Angband.”Il cattivo demiurgo odia dei, uomini, elfi; ed in particolare desidera avere questi ultimi alle sue dipendenze, per carpirne i segreti e pervertirne le arti: “Molti Noldor e Sindar essi catturarono e li condussero in Angband, onde farne schiavi, obbligandoli a mettere le proprie abilità e il proprio sapere al servizio di Morgoth.” Chi esce dalla città sotterranea, fuggito o lasciato andare, di solito non è più se stesso e, anche involontariamente, semina il male tra i suoi simili, come Húrin che inizia la rovina di Gondolin, ultimo reame elfico nascosto.

Angband viene più volte assediata e il suo sovrano, più volte sconfitto, si nasconde, come si è già letto, sempre più in profondità per non essere scovato e per ritemprarsi; sotto i monti abbiamo visto altresì un sistema di collegamenti fatto da una rete di gallerie (“E Morgoth restò invero sgomento, e calò nelle più remote profondità di Angband e ritirò i suoi servi, esalando gran fumo e scure nubi per nascondere la sua terra alla luce dell’Astro diurno.”). In ciò Melkor somiglia alla sua alleata e poi avversaria Ungoliant, che proprio dopo la lotta contro di lui “si sgomentò e volse in fuga, vomitando neri vapori per celarsi” (con tecnica di ritirata uguale a quella di offesa degli orchi), per rifugiarsi verso nord nella Valle detta della Morte Orrenda, “per via dell’orrore che essa vi generò. Perché altre sconce creature aracneiformi vi avevano avuto dimora fin dai giorni in cui era stata scavata Angband, ed essa  si accoppiò con loro e le divorò”. Chi sa quindi che gli orchi, come lupi e draghi, invece di appartenere al campo semantico della produzione industriale, non entrino in quello spontaneo e generativamente vorticoso degli insetti, o degli incubi (“ombre ed illusioni”) partoriti direttamente da Melkor. Certo la tela di ragno appare la metafora più calzante per l’intrico ragionato e pericoloso delle gallerie sotterranee. 

Hamas ha scavato tunnel per decine di chilometri lungo gran parte del territorio della striscia di Gaza. Pare che, come nei videogiochi, esistano della cosiddetta “Metro” diversi livelli di profondità; si pensa che quelli principali, necessari a proteggere i capi supremi, possano raggiungere i sessanta, settanta metri e siano provvisti di volte di cemento per resistere alla pressione, sistemi telefonici impossibili da intercettare, rotaie per spostare le merci ed infine i fondamentali sistemi di ventilazione per il ricambio dell’aria. Si stima inoltre che nel mondo di sotto alla sabbia “la ragnatela”, come la descrive la donna che è stata liberata, ospiti quarantamila combattenti.

Se, come si è detto, Hamas, oltre a essere il male assoluto, è anche come l’Isis, conviene integrare l’immaginario tolkieniano con qualche esempio fantasy che coinvolga l’aspetto religioso. Verrebbe subito alla mente il Salgari più affascinante, quello de I misteri della jungla nera, con il grande albero dei Sunderbunds bengalesi quale porta d’accesso ai sotterranei dove la leggendaria setta dei Thugs celebra i propri tenebrosi riti sacrificali in onore della sanguinaria dea Kalì; sfortunatamente manca ogni elemento proprio del genere. Meglio allora, secondo una strana consonanza, riferirsi al secondo episodio della saga di Le Guin TerramareLe tombe di Atuan, in cui Ged riesce a sottrarre ai templi sotterranei di antiche divinità dell’arcipelago di Kargad la giovane Arha. Rapita bambina dalla sua famiglia per sostituire la sacerdotessa morta nello stesso giorno della sua nascita, si assiste alla sua cerimonia di consacrazione agli dei che regnavano prima della nascita del mondo umano. Colei che è Nata Senza Nome, completamente vestita di nero, ascende da bambina le scale del trono, in un responsorio dello sprofondo che suona: “- Accettatela. Che la fanciulla sia inghiottita! – Altre voci, acute e aspre come trombe, replicarono: È stata inghiottita! È stata inghiottita!”

Eppure nella guerra che, soltanto un anno prima di quella tra Hamas e Israele, ha tenuto avvista per mesi l’attenzione mondiale, c’è stato un lungo episodio iniziale giocato su una opposta interpretazione dello stesso campo semantico centrato sul sottosuolo. Si tratta dell’asserragliamento da parte dei miliziani ucraini del battaglione Azov nell’enorme fabbrica di Azovstal a Mariupol, capace di redimerli dal loro filonazismo proprio grazie alla resistenza prima nell’area esterna e poi nelle viscere spente degli altiforni, di un Angband dei buoni.

I video mostravano le ciminiere, senza più pestilenziali pennacchi, trasformate in oscure torri stagliate sopra gli ammassi di rovine d’acciaio, e gli interni, morti e verdastri, dei cunicoli ferrigni, delle tubature serpentine e delle porte di metallo, infine delle cuccette dove vegliavano uomini con mitra in mano sotto fioche luci elettriche. Veniva in luce così, dopo la distruzione della città e delle altre fabbriche nei due mesi della primavera del 2022, l’ultima trincea incessantemente battuta dall’artiglieria russa ma capace di generare un’epica difensiva del sottosuolo.

Un autore che ha adottato il sottosuolo nell’accezione inglese di underground è senz’altro Thomas Pynchon.  Il suo primo romanzo, L’incanto del lotto 49, racconta, tra le molte altre cose, di una rete postale alternativa a quella dei governi e risalente indietro nei secoli; anche nel più corposo V del 1961 uno dei protagonisti, Benny Profane, nel capitolo 5 insegue un alligatore pezzato lungo i condotti delle fogne facendo strani incontri. Il racconto seminale di questo atteggiamento positivo, di combattentismo degli emarginati è però Terre basse: sorprendiamo il protagonista, sorprendiamo il protagonista, l’avvocato Dennis Flange, nel mezzo del pomeriggio mentre sulle scale di casa beve moscato insieme ad un suo amico netturbino. La moglie allora, con uno shaker da cocktail, gli grida dall’alto: “Tienili giù nella tavernetta, quelli spostati”. Flange, assiduo frequentatore di uno psicanalista e in via di scivolamento sul piano inclinato della vita, abita in una vecchia casa sulla scogliera, che ricorda romantiche magioni dai molti misteri domestici: “All’interno c’erano  nascondigli e passaggi segreti e stanze dalle strane angolature; e nella cantina, a cui si accedeva dalla tavernetta, innumerevoli gallerie, che come i tentacoli di una piovra spastica si contorcevano improvvisamente in passaggi senza sbocco, tunnel verso il mate, cisterne abbandonate e, in certi casi, cantine segrete”. “Flange aveva finito per sentirsi legato a questo posto da un cordone ombelicale in tessuto di licheni e falaschi, carici e ginestre; lo chiamava il suo ventre con vista panoramica”. Tuttavia la moglie lo espelle da quel grembo protettivo e già piuttosto sprofondato; così con l’amico netturbino ed un ex-commilitone della marina, cercano rifugio in un altro mondo buio e chiuso, ma ben meno prestigioso: “La discarica era pressoché quadrata, con i lati lunghi mezzo miglio, affondata quindici metri sotto le strade di un esteso complesso residenziale che la circondavano”.

La descrizione dell’arrivo presso il guardiano che li ospiterà, attraverso cunicoli di immondizia, sembra richiamare, in una parodia ribaltata di valore, proprio le fiabe e il fantasy: “La gola correva per un centinaio di metri ripida e tortuosa, e infine sbucava su una valletta completamente piena di vecchi pneumatici di automobili, di camion, di trattori e di aerei; al centro, su una piccola radura si ergeva la baracca di Bolingbroke. […] L’inceneritore torreggiava sopra di loro con i comignoli alti e neri contro gli ultimi bagliori del cielo”. In questa Angband puzzolente e disfatta, una giovane zingara di minuscola statura, che s’innamora del protagonista sulla base di una nebulosa profezia annunciante l’arrivo di un “Anglo”, gli rivela il passato eversivo del luogo, continuato nel presente con più quieta ma non meno caparbie intenzioni: “negli anni Trenta un gruppo terroristico i Figli dell’apocalisse rossa aveva collegato l’intera discarica con una rete di gallerie e di stanze per prepararsi alla rivoluzione. Ma poi i Federali li avevano messi tutti al fresco, e così un anno dopo, o giù di lì, ci si erano trasferiti gli zingari. […] lei gli parò della prese d’aria, degli scarichi, delle tubature e della linea elettrica, fatta arrivare fin lì senza che la Long Island Lighting, l’azienda elettrica ne avesse mai sospettato l’esistenza”. Dopodiché di notte lo conduce attraverso “Il frigorifero era senza fondo”, che pare l’armadio per accedere a Narnia, giù giù alla stanza dove si ricovera in compagnia della topolina Hyacinth. Insomma, come scrive Costigliola in Thomas Pynchon e Umberto Eco. Lo scrittore invisibile e lo scrittore ipervisibile “è dal basso che provengono le pulsioni vitali. La presenza ricorrente della figura del tunnel e la sua esplorazione non è solamente l’archetipo mitico della discesa agli inferi e il suo correlativo topos letterario, ma è anche la risposta vitale al desiderio di morte della società contemporanea, l’occasione per un fruttuoso incontro con l’Altro, la ricomposizione dei contatti e della comunicazione umana”.     

La narrativa tolkieniana ha contemplato la guerriglia di resistenza nel capitolo 18 del Silmarilion, che racconta dei dodici uomini superstiti, guidati da Barahir, dopo la Dagor Bragollach, ovvero la quarta rovinosa battaglia contro gli eserciti di Morgoth. Questi sono detti “fuorilegge senza futuro” e si accampano, liberi e nomadi, “su un nudo altopiano e le lande petrose della regione”. Gli orchi, sguinzagliati sulle loro tracce come fossero “bestie selvagge”, non riescono ad acciuffarli; così, proprio come avviene nelle leggende dei partigiani che si sono “dati al bosco”, la “fama delle loro gesta correva in lungo e in largo”. Dunque Sauron, luogotenente di Morgot che proprio allora fa la sua comparsa in primo piano ed è già lo stregone ossessionato dal controllo dalla Torre, puntuale punto di riferimento delle spie, poi identificato ne Il Signore degli anelli con il suo occhio, come un efficiente graduato delle SS dovrà di conseguenza costituire un gruppo di controguerriglia, formato da una elite di lupi mannari, per distruggere i ribelli.     

Anche Túrin, superstite degli scontri con il pesante blindato Glaurung, drago sputafuoco, si aggregherà a dei banditi, trovando ricovero nella grotta del nano Mîm. I nani sono effettivamente un popolo di grandi scavatori senza finalità di dominio come per l’oscuro signore; tuttavia le città, nascoste e difensive, scavate per conto degli elfi, come Nargothrond (la grande fortezza sotterranea sul fiume Narog) o Menegroth (ovvero le Mille Caverne), finiranno poi per soccombere a causa di tradimenti o gesti orgogliosi nati nell’ombra. Infatti il buio delle grotte (si pensi al Gollum ne Lo Hobbit), sebbene ricetto di reietti, resta dentro la sfera del negativo. Ed ecco che Mîm “se ne stava accoccolato con suo figlio Ibun nell’ombra più fitta della sua dimora, senza rivolgere la parola a nessuno”, maturando la delazione: condurrà di notte al nascondiglio gli orchi, che sterminano il gruppo e catturano l’eroe. L’opposizione manichea tra luce e ombra si conferma centrale nel mondo del fantasy e nei nostri tempi tolkieniani.