Presiden arsitek/ 56

L’idea vede mi è venuta ricordandomi di un puntaspilli che aveva mia nonna. Le cose dei nonni sono sempre un po’ spaventose, sono le prime cose che un bambino ricorda nei o dei propri sogni, non lo sapeva? Ci faccia caso. Lo stesso per la vita, ci faccia caso, ogni volta che le capita qualcosa di bizzarro vedrà che in un modo o nell’altro sarà legato a un qualche oggetto che tenevano in casa i suoi nonni.

di in: Presiden arsitek

«…una gioja triste e feroce di conoscere il suo nemico…»

(A. Manzoni, Fermo e Lucia)

Tante cose si capiscono infine in un letto di ospedale.

Quando il cuore gli dava tregua, Miloš riusciva a raccogliere quel tanto di forze per riprendere a leggere dal quaderno che aveva sottratto all’architetto nel giorno, nell’infinito giorno in cui nello spazio di due ore aveva consumato più di vent’anni della sua vita arroventandosi i nervi nel ripullulare ininterrotto delle scatole di latta, nel giorno in cui era entrato di nascosto nell’appartamento dell’architetto seguendo gli operai che trasportavano la prima di quelle scatole.

Sottratto, poi, non era certo la parola. Erano innumerevoli i passi dai quali risultava in modo chiarissimo che l’architetto aveva lasciato a bella posta il quaderno proprio per lui, per Miloš, perché lo leggesse a ulteriore e, morto ormai l’architetto, inappellabile supplizio.

“Una volta entrati nel macchinario non esiste ritorno, una volta entrati non si può fare altro che avanzare ossia, a questo punto l’avrà credo capito anche lei, “avanzare”, così, per modo di dire. Il tempo in cui il macchinario ti trasporta è infernalmente e irreparabilmente diverso da quello da cui sei partito. Dimentica tutte le stronzate sci-fi sulla possibilità di modificare i destini, di ripararli; ogni viaggio verso un altro tempo è un viaggio verso un peggio disordine, verso un nuovo rione di Schwarzschwarz: già, proprio letteralmente un nuovo rione, l’avrebbe mai detto? Ed è perciò consigliabile intraprenderlo solo nel caso si tratti di una fuga… Anche se, lo confesso, a volte mi chiedo se non esista un culmine di disordine, la fuga di tutte le fughe oltre la quale incontrare una nuova rinascita, una nuova Waltzwaltz…”

«Ac per hoc factum est, ut, cum tot tantaeque gentes per tenarum orbem diuersis ritibus moribusque uiuentes multiplici linguarum armorum uestium sint uarietate distinctae, non tamen amplius quam duo quaedam genera humanae societatis existerent, quas ciuitates duas secundum scripturas nostras merito appellare possemus.»

(Agostinus, De civitate Dei)

Posto in una zona in cui sboccano tre distinte vallate, il crocevia sotterraneo noto come Steinnachtspinne (“Ragno della Pietra Notturna”) costituisce un gioiello sepolto di quella che potremmo chiamare l’ingegneria istintiva o semiistintiva dei primordi, l’ingegneria mescidata di allucinazione di chi vede nel calcolo, se calcolo poi vi sia, nulla più che un’appiccicosa polla di resina colata da una liana strappata.

Scavato al puro scopo di far convergere nel rilievo centrale di Jucafilo le tre vie di comunicazione che tagliando tre valli trigemine collegano tra loro Venezia, Jakarta e l’Oceano, il fulcro roccioso dell’ipsilon megalopolitana austroamazzonica è il risultato di un piccolo miracolo geologico, inserendosi non solo nell’intersezione delle tre vallate quanto anche nell’esatto punto geostatico di un intricato cocktail minerario che ai tempi aveva costituito uno di quegli insolvibili rompicapi la cui soluzione innesca un rovescia- e rinnova- mento della concezione del pianeta, se non (più psichicamente) del mondo. Pochi metri più in qua o in là nella notte impenetrabile del minuscolo gruppetto montuoso, notte impenetrabile e infida nelle proprie imprevedibili stratificazioni, come sformate farciture di una torta nuziale scivolata giù dal tavolone, ripiegate su se stesse e una dentro l’altra a somma confusione del geologo, sorpresa dell’ingegnere, rassegnazione dell’operaio, pochi metri più in qua o in là, e addio.

Una targhetta di cui ormai nessuno sa più nulla ricorda la morte di un tal Decor sotto le macerie di un’esplosione inaspettatamente estesa e violenta (la carica, posizionata sopra un durissimo strato di diorite ne aveva liberato uno di arenaria più morbido e friabile, finito là sotto come in un arrotolamento notturno di coperte e lenzuola in cui soffocare o slogarsi una gamba, e per di più circonfuso, l’infingardo morbidone, di una sottile pellicola, chiamiamola così, di grisù, filtrata da una sotto- o sopra- o circo- stante glassatura – chiamiamola anche lei così – carbonifera – una non ancor combusta ma combustibile scorreggia sottocoperta, via, tanto qui nessuno è geologo. O forse sì?

Steinnachtspinne, ragno della notte fossile! Come i gangli nervosi che si dice dislocassero parte della coscienza motoria dei dinosauri lungo la schiena – più vasta si fa la città della carne, più spessa germoglia la muffa neuronica della coscienza ovvero di una qualsiasi coscienza, non per forza cioè la tua di te tu dinosauro, quasi la coscienza fosse uno strappo inevitabile all’eccessivo estendersi e distendersi della carne, la crepa luminosa di un fulmine nella tenebra, un grumo varicoso – fiamme di coscienza prillano dalle carni dei torturati e di chi sotto i ferri del chirurgo vede la propria carne e la pelle distendersi come un tendone da circo, e allora la coscienza o l’insorgere di una paracoscienza non sarebbe altro che il rendersi necessario, all’estendersi ovvero distendersi della tela cioè del tendone, di un nuovo palo portante, magari per metterci sotto le gabbie degli elefanti: la coscienza come mero manico di scopa che tiene in piedi un corpo, e se il corpo diventa troppo grande sorgeranno spontaneamente nuovi manici, come nella disneyana casa di Goofy o come in una interna concretizzazione della eziandio disneyana sequenza del Sorcier: un’epidemia di coscienze, un tumore di innumeri reduplicantesi psiche. E così accade anche alle città, e al trivio ctonio che unisce Venezia e Jakarta e quell’altro famoso mare che––

Steinnachtspinne! L’anestesia nacque anche per evitare questo incontrollato fiorire: per quanto labili, questi fuochi fatui noetici potevano indurre – questo il mai del tutto comprovato timore –– ma i timori peggiori, chi li vorrebbe mai comprovare? Scongiurarli, bisogna, sgonfiarne il testicolo dell’entelechia – una nebulosa di microimpulsi psichici che in particolari e rarissime condizioni cosiddette “paracarnee” dell’atmosfera avrebbero potuto attecchire, come diciamo dei semi potrebbero mettere radici in una tempesta di sabbia e brevemente germogliare, e sembrerà la più idiota delle possibilità ma è d’altro canto impossibile entrare in una tempesta di sabbia e controllare se da qualche parte non stia fiorendo qualcosa, quindi chi può dirlo? O, per fare un altro esempio, mattatoi da cui un continuo fiotto vaporeo di particole di sangue si diffonde nell’atmosfera ed ecco che sanguina che ti sanguina chissà che il chicco di psichico frumento non possa morirvi e produrre molto frutto, ma anche uno solo di frutto è sufficiente per innescare la catastrofe.

Ma poi che i fiori nascano e crescano pure dove vogliono: non però le psichi, no, non in quelle nebulose sanguinanti, per quanto ipotetiche possano essere (nebulose azteche si sollevano sotto il sole nero dell’altare sacrificale…).

“Troppe seccature burocratiche, troppe pratiche, per quanto snellite e dematerializzate. E poi stiamo per archiviare definitivamente l’uomo stesso, dematerializzandone le trippe online – la vecchia ossessione per la linea – d’ora in poi “non sono in linea” avrà un significato più radicale, sarà un non sum, videor ergo sum, che poi sarebbe videor ergo sitis, o… sete poi di che, mi chiedo io…” Blatera a vuoto il violinista di Miloš, circondato dai bambini che appena l’hanno visto attraversare il cortile basso del pio Istituto di s. Satiro gli si sono accalcati intorno chiedendogli di suonare anche se lui non sopporta suonare così in cortile perché i bambini che gli fanno il girotondo intorno alzano la polvere e gli rovinano il violino… Ma lasciamolo dove sta, il violinista.

Eccoci invece, noi, nel cuore dello Steinnachtspinne, una rotonda semisotterranea dall’apparenza insignificante in cui perpetuamente convergono le linee di traffico tra le tre valli, l’aspetto di cuore passivo e esoscheletrico che hanno tutti i corpi architettonici per un motivo o per l’altro riusciti.

Arriviamo nel bel mezzo di quello che sembra un incidente: e addio grigie spiagge di Jakarta, immemori zolle d’oceano inarcate al sole… ma venite, passeggiamo un po’ in questa polta di sabbia, i piedi sprofondano quasi fino alla caviglia sommovendo conchiglie e altri ossicini, e minuscoli insetti brulicano trasparenti dal fango nero, malfatti come ogni creatura indifferente al Diluvio, così diceva sempre don Giorgio Giorgio durante le istruttive ma alquanto rischiose passeggiate scolastiche sul bordo dell’oceano.

A quanto pare un camion (grande rimorchio bianco) è non si sa come rimasto bloccato nella rotonda, rotonda le cui dimensioni sono in effetti ridicolmente inadeguate al flusso di traffico – d’altro canto un ampliamento del suo raggio provocherebbe senz’altro il collasso del corpo immateriale dello Steinnachtspinne. Il rimorchio del camion è gravemente compromesso da una lunga crepa longitudinale i cui bordi taglienti hanno qualcosa di navale, da disastro cinematografico. È dal comportamento del camionista che finalmente io e il mio violinista (che – lo fa per innervosirmi – tiene il violino quasi a mo’ di ukulele, pizzicandone lievemente i nervi felini) capiamo che non si tratta di un incidente automobilistico comune. L’uomo alla guida del camion sembra irragionevolmente ansioso di togliere il camion da lì, e all’avvicinarsi di un automobilista sceso da una delle macchine rimaste bloccate accelera, riuscendo solo ad aggravare le condizioni del rimorchio, ormai quasi spezzato in due.

Il mio violinista si allunga un po’ per vedere meglio, pizzicando rari atomi dell’Harfenquartett. Si direbbe che il camionista stia cercando di strappare in due il rimorchio che al momento lo tiene incastrato di sbieco all’imboccatura della rotonda. Come chi cercasse di strapparsi un arto irrimediabilmente bloccato.

Il camionista, realizziamo alla buon’ora uscendo finalmente dal nostro violinistico torpore, è spaventato dagli uomini (ce ne sono altri) che stanno convergendo a piedi verso la motrice. Indossano tutti una specie di tuta bianca con cappuccio che dà loro un’aria un po’ hip-hop, non fosse che tengono in mano dei fucili avveniristici la cui canna si sviluppa in modo abnorme verso il basso dando all’intero corpo dell’arma l’aspetto di una corta assicella nera tenuta sotto braccio dai guerriglieri o terroristi.

“Forse un qualche caricatore di nuova concezione” ci spiega un ottusissimo giornalista (in certi particolari contesti, e segnatamente quelli umani, non capita affatto che sia il migliore a sopravvivere… nei contesti più complessi chi vince la lotta per l’esistenza non è necessariamente l’esemplare più utile alla specie, anzi), mostrandoci poi come lui stesso si sia fatto installare nella cassa toracica un “portaoggetti” del tutto simile al meccanismo che secondo lui costituisce il caricatore dell’arma dei terroristi, con la differenza che lui si è sottoposto all’intervento solo per poter tenere a portata di mano e ascoltare i propri vecchi CD. Un pezzo di cretino, insomma, l’uso civile di un dispositivo del genere è mostruosamente insulso, farsi invadere il corpo in quel modo solo per poter ascoltare dei vecchi CD (dolce tepore allo stomaco quando il tenue attrito del disco metallico induce nel macchinario un diffuso calore, scalda le viscere come un bicchierino di porto in poltrona davanti al caminetto mentre fuori infuria l’inverno etc.). Il reporter stesso, forse indovinando il mio disprezzo, nel raccontare arrossisce con un imbarazzo femmineo che lo rende quasi bello, “simile alla mamma, secondo me”, mi bisbiglierà all’orecchio il mio violinista.

Quanto più nobile, ancorché inumana (ma ciò che è inumano non è anche ipso facto nobile?), la modificazione chirurgica degli arti per trasformarli in armi da fuoco o in caricatori di tali armi (la meccanica di tali nuovi dispositivi cibernetici ci interessa solo fino ad un certo punto)! Puh! Il sacrificio del guerriero continua a essere rispettato, quello per il piacere riesce invece sempre ridicolo. Dopo aver creato un mezzo cerchio i terroristi sparano senza pietà sulle automobili bloccate; davanti a noi c’è uno stretto passaggio che potrebbe condurci alla terza zampa dello Steinnachtspinne, quella che imbocca la stretta valle di confine che digrada fino ai canali di Jakarta. C’è solo un ultimo terrorista da superare, e poi saremo liberi di tornare a pizzicare spettri di canzonette hawaiane.

«È piccolo dono anche il cuore di un uomo da nulla.»

(G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi)

“Più probabilmente al fondo di tutte queste fughe non c’è che un tremolare di insetto spiaccicato che non vuole morire, sezione di anguilla o di serpente che si contorce, tremolio di lancette che non avanzano né retrocedono…”

«E non se sbatte cò de serpe mozzo / Come fa lo meo core spessamente»

(G. Guinizzelli)

“…lancette che non avanzano né retrocedono…”

Quante volte Miloš aveva già riletto quella frase? Quante volte era fuggito attraverso il corridoio di latta incandescente dei macchinari dell’architetto che inarrestabilmente vomitavano ad ogni viaggio copie di copie di sé? Era poi sicuro che quel quaderno fosse dell’architetto? E se fosse stato suo, invece, se fosse lui stesso, da un viaggio precedente di cui non ricordava nulla, se fosse stato lui stesso a nascondere quel diario dietro il pannello con l’antica stampa indiana dell’architetto? Se fosse ormai giunto al fondo melmoso e materico di quella stratificazione di fughe, una poltiglia di latta fusa da biancicare inutilmente in cerca di un’ombra di quel tremore che gli scuoteva il cuore ad ogni viaggio?

«Bella fera e gentil mi punse il seno, / E poi fuggio da me ratta lontano, / Vago lassando il cor del suo veneno»

(G. Della Casa)

Ah, il tenue prurito come puntura di ragno che ogni viaggio lasciava sulla cuticola esterna del cuore…

“Di viaggio in viaggio, cioè, la materia non resta stabile, ma vaporizza e si fa più tremante e spettrale, come un suono armonico rispetto alla nota reale, o come un canone in infinita augmentationem, non mi stancherò mai di–– vede, il significato reale di simili composizioni è squisitamente mentale, l’ascolto è riservato a orecchie che non hanno bisogno né di tempo né del suono per ascoltare, orecchie che esistono prima ancora di me e di lei, capisce l’infernale profondità del giochetto? Invece di precipitare nel pozzo di latta, cercare di voltarsi in avanti, e spingere lo sguardo al di là del sipario del reale, ma dubito che ci stia capendo mai qualcosa, perciò torniamo in trincea, non stia troppo a pensare all’augmentationem

“Lo snodarsi nel tempo rende ridicola la tensione verso l’eterno, e così è anche per il mio macchinario… questa variabilità della materia nel corso del viaggio è insomma una scoperta il cui significato è ancora lungi dall’essere compreso… potrebbe trattarsi semplicemente di una sintonizzazione del corpo del viaggiatore con il nuovo spazio circostante, chi può dirlo? Con quali strumenti si potrebbe mai misurare qualcosa del genere? E nessun viaggiatore, dopo il primo viaggio, compie la scelta più saggia, che sarebbe quella di non fare nulla e restare nel mondo degradato in cui è stato gettato: il viaggio non fa che generare un altro viaggio e così all’infinito, senza contare la dipendenza cui può portare, la speciale velenosissima dipendenza che ci dà ciò che non procura nessun piacere effettivo se non quello di un’azione abnorme sul nostro corpo… confesserà anche lei come del resto noi tutti che quei perfettamente inutili viaggi con cui si è irrevocabilmente sfilacciato la fibra cardiaca erano più per sentire ancora una volta la punta delle dita contro il bordo del cuore, che non per raggiungere qualunque luogo o momento volesse raggiungere… per molti tossicodipendenti il solo pensiero dell’ago basta a procurare un tremore di desiderio…

Ogni cosa indicibilmente frammentata come se la realtà fosse stata sottoposta al taglio della matrice di un puzzle. Augmentata e rarefatta fino a dissolversi… la trasparenza parziale del tutto, ma dico pensi solo leggere variazioni insinuate nelle diverse voci dei canoni del Musikalisches Opfer, dilatazioni di dilatazioni di dilatazioni che si propagano idealmente di voce in voce fino a innescare una metamorfosi… necessaria perché la sempre più complessa armonia si mantenga… o perché si produca infine, somma dopo somma dopo somma, augmentationem dopo augmentationem dopo augmentationem, un denso ondivago oceano grigio, come in un gioco newtoniano dei suoni… fino al silenzio, fino alla comprensione che il canone esisteva da sempre, o che non è mai esistito se non come brusio indistinto in una stanza vuota…

«Und welcher Geiger hat uns in der Hand?»

(R.M. Rilke)

“Ma come ripeto chi può dirlo? Forse nel luogo da cui sono venuto prima del mio primo viaggio avrebbero saputo trovare la risposta? Forse è solo il mio cervello che inventa queste domande e queste teorie all’unico scopo di farmi entrare solo un’altra volta nella macchina, di farmi fare solo un altro viaggio? Perché in ogni caso ormai che senso ha farsi queste domande? Una volta cominciata l’esecuzione, il musicista non può esitare, non può che andare avanti.

Che peso hanno poi, si vorrà sapere le “esistenze” di chi “non” ha compiuto il viaggio? Altra domanda oziosa, poiché tutti vengono trascinati nel vortice del viaggio, ossia sono già lì ad attenderci come una mera modulazione di coloro che erano intorno a noi prima che entrassimo nel macchinario. Non si torna indietro. Un nuovo viaggio non è che una nuova frammentazione, il puzzle di un puzzle di un puzzle, talmente che forse l’unica soluzione è procedere fino alla definitiva atomizzazione della realtà. Esiste cioè nel mondo un livello di grandezza non ulteriormente divisibile? È quell’ordine di grandezza ciò che rimane dell’idea di Dio? Una divisione all’infinito… Quanti viaggi prima del tuo sono già stati fatti? E si sarà ben accorto che zitti zitti al culmine dell’augmentationem ci ritroviamo nel cuore stesso della diminutionem, ed è qui che lei dovrebbe finalmente raggiungere quella pace di morte che ogni viaggiatore purosangue porta con sé dovunque il macchinario lo faccia precipitare. Né puoi modificare nulla, poiché il passato in cui il macchinario ti getta è, come quello ricostruito dai tuoi ricordi, più sfilacciato di quello che in effetti hai vissuto e sul quale sapresti intervenire, ma questo in cui capiti e ricapiti e ricapiti, basta solo sfiorarlo e patatràc, del resto sa fin troppo bene di cosa parlo, è una cosa che ormai è nella sua carne… è il noto fenomeno del raveling… esiste un filo talmente sottile da non essere sfilacciabile? Quel filo è Dio. Raveling… le piace poi Ravel? Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”

«und ward min hertz rech geches verwanlet … Und in dem liecht und in den fröden do sach ich und enpfand das min gaist ufgenomen ward von dem hertzen, und ward gefürt ze dem mund hoch in den luft … und ward mir da gegeben das ich min sei lutterlich und aigenlicher sach mit gaistlicher gesicht … Und do ich ietz in der besten und obresten fröd was, do begund sich min sel wider nider lassen, als Got wolt, und kam über den lib, da er vor dem bet lag als ain toder lichnam…»

(Sophia von Klingnau)

Bastava chiudere gli occhi per ritrovarsi altrove. Le stanze degli ospiti si raggiungevano passando per una corta e stretta scala di legno: la scala era accessoriata di varie scanalature e mensole stracolme di libri, foglietti, aggeggi di vario tipo. A vederla la si sarebbe detta la sezione di un interno di yacht, e tempo prima era anche passata una rivista di arredamento per farne delle fotografie. Ora era ingombra di ciarpame, e i gradini di mezzo erano ostruiti da un giocattolo, uno squalo di gomma gonfiabile grosso più o meno come un gatto… Dalla finestra che dava sulla piazza si poteva vedere una panchina, e due figure sedute vicine, una scacchiera tra loro e nella neve due file di orme, l’una che veniva da una scuola vicina, l’altra da una libreria, e terminavano ai piedi dei due scacchisti. Miloš non era mai stato lì. Sentì che qualcosa di liquido gli usciva di bocca, e provò a chiamare l’infermiera, la voce soffocata dal sangue.

“E più vai nel piccino più il cavallo, come dire, torna selvatico e furioso… non hai che da rimpicciolire il box, e subito anche il più placido degli animali comincerà a scalciare, tornerà ai primordi, alla sorgente, là dove è possibile imboccare una nuova traiettoria… Con le particelle non è poi molto diverso, sa? Non devi fare altro che costruire un box sufficientemente piccolo e quelle cominceranno, come dire, il loro cha cha cha, e niente rigenera quanto un cha cha cha, mi segue? Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!

“No ma seriamente. È strano come nessuno si sia reso conto che la macchina del tempo, una volta traversato il confine che separa i romanzi dalla realtà, non può esistere che come atrocissimo strumento di tortura, di tremendo incancrenitore di destini. Direi che è persino buffo, anzi. Buffo come nessuno si sia reso conto che l’insorgenza di una macchina del tempo non può che coincidere infine con la tortura e il supplizio (società aliene che la usano come noi la sedia elettrica, e che guardano al cappio come al più fantascientifico e impossibile dei paradossi, giusto per darle un’idea casomai volesse buttarsi sulla fantascienza e smetterla una buona volta di fantasticare sputando sangue contro la finestra). Un supplizio il cui gioco è la mutilazione. Chi viaggia nel tempo ne viene per sempre mutilato, e così il mondo disarticolato in cui si ritrova a vivere e che del mondo in realtà non ha più nulla – poiché sottrai al mondo un solo atomo, e non sarà più mondo – , una serie di istanti dannata a dondolare con moto perpetuo e insieme inane, un girotondo di mutilati che soffrono di un continuo dolore dell’arto fantasma e che un violinista costringe a ballare e ballare nella polvere di un cortile. Come il mutilato sente dolore all’arto che non ha più, così il “mondo” in cui il viaggiatore viene fatto precipitare e che con disperata ostinazione persiste a chiamare il suo “passato” o il suo “futuro”, pullula di zone vacue che si contorcono per la sofferenza di fatti mutilati. La sofferenza più grande che possa darsi: quella del non essere. Può il serpente rientrare nella pelle che ha appena abbandonato? Il viaggio nel tempo non può esistere, sempre poi che possa esistere, che come strumento di tortura. Il risultato di un viaggio, casomai niente del genere fosse mai possibile, non può che essere la mutilazione.”

Come poteva aver scritto della finestra e del sangue, mesi e forse anni prima (tanto vecchie apparivano le pagine del diario) che Miloš entrasse in ospedale? Che il presidente fosse lì, in ospedale, travestito magari da infermiera o da suora come in un brutto film comico, saltando avanti e indietro da una macchina all’altra, cancellando e ricancellando le pagine del diario che Miloš una volta dopo l’altra trovava e ritrovava e ritrovava sfogliandole sempre, sempre più sfilacciate, sempre più stracciato e trasparente il suo cuore, come promesso dal suo carnefice?

“…precondizione necessaria al viaggio essendo un allentarsi e quasi un dipanarsi (mai però definitivo!) dei nodi di cause che aggrovigliano, non importa qui quanto illusoriamente, i fatti della vita, di quella almeno, se non i fatti del mondo almeno i fatti tuoi. E del resto non esiste viaggio nel tempo se non per chi è vivo: per questo la macchina, sempre che macchina si dia, in quanto morta non può che dissolvere durante il viaggio, come una tenue pellicola di sudore profumato uscendo dalla doccia in estate. Si sarà insomma ormai bell’e capito che per molti il viaggio non è che una pratica interiore di dilatazione del tempo attraverso la slogatura dei nessi causali: così fisici come estetici: è questa infine la grande lezione di una manciata di battute dei vari Schubert e prima di lui Beethoven e prima ancora le grida nelle strade di Londra e di Parigi meticolosamente madrigalizzate da… oh be’: non la forma: non la forma bensì il suo inevitabile franare, il porsi in equilibrio tra morte e vita, in fondo dài diciamocelo la forma non è che lo stridore che risulta dallo sfregamento tra ciò che è vivo e ciò che è morto, è, se si vuole, una cosa molto perversa, starei per dire feticistica e necrofiliaca, il farsi della vita, in quanto vita, più morta della morte stessa. Giusto o no? Col che veniamo alla latta, quel che potremmo paragonare, per le sue qualità psichiche e, laddove reali, magiche, alla pietra filosofale degli alchimisti.”

Gracias os hago, ¡oh inmensos y piadosos cielos!, de que me habéis traído a morir adonde vuestra luz vea mi muerte

(M. de Cervantes, Persiles)

Come un vento deserto che sfiata dal mascherone morto dell’architetto, un vomito di luce che prosciuga il sangue d’ogni cosa finalmente riducendo tutto a un’uniforme sabbia senza parole né canti se non quello del vento e del sole.

el abismo que a otros abismos llamase

(ibidem)

“Che gli stati con cui la materia ci si presenta non siano che una conseguenza della nostra velocità reciproca? Rispetto ad un’automobile in corsa ignara di stare correndo, un albero è un proiettile… E se il sole fosse per noi tale solo in conseguenza del nostro moto rispetto ad esso? Se le differenze tra gli elementi e tra ogni cosa non fossero altro che una conseguenza di mere differenze di velocità? Sarebbe sufficiente raggiungere una certa velocità o una certa sincronia perché certi corpi diventassero a noi semplici raggi di energia, vibrazioni di fondo… L’universo che vediamo è una totalità ingannevole fornitaci da quella che potremmo chiamare una semplice sincronizzazione… Se solo potessimo impedire ai nostri strumenti di misurazione di spostarsi alla velocità impressa loro dal nostro sistema celeste, le costellazioni che conosciamo dileguerebbero nella rapina del movimento, e le tenebre apparenti alzerebbero il loro sipario su di un nuovo Zodiaco.”

«…il docile guardare ai passi del mio torturatore»

(A.M. Ortese, Il porto di Toledo)

“La maggiore autoconsapevolezza del viaggiatore usa rendere enormemente più goffi e rallentati tutti i suoi movimenti: in specie quelli psichici. Già l’istinto umano è bastevolmente e bestialmente soffocato per i non viaggiatori: ora la consapevolezza della fisica presenza del futuro, il peso concreto del futuro che il viaggiatore sente davanti a sé, come per un effetto bilanciante con il peso del passato dietro di sé determina uno stallo, e tende quasi a paralizzare il viaggiatore come un gatto o un cervo abbagliati da fari notturni. Sono due muscoli antagonisti, il passato e il futuro, e se uno esiste al pari dell’altro come minimo ti viene il colpo della strega. La dimenticanza delle vite passate è in realtà opportuna all’anima per non pietrificarsi: non è la memoria il cuore della psicosi platonica, ma l’oblio… Il ricordo delle vite precedenti non può essere un ricordo della stessa natura di poniamo il ricordare quello che si faceva da adolescenti; investito da un ricordo siffatto, l’illuminato rimbecillirebbe all’istante (e chissà che tanti alienati non siano mistici inciampati giusto un passetto prima della santità): il ricordo delle vite precedenti deve per forza affacciarsi all’anima sotto forma di comprensione (la subitanea comprensione di una verità che sino allora ci era rimasta nascosta ha infatti da un mero punto di vista percettivo la stessa qualità del riaffiorare di un ricordo sepolto – tutta la fanfara platonica, come ogni pensiero antico, nasce da un’esperienza estremamente concreta e quotidiana, banale, tutta la grandezza degli antichi sta nel rendere ciò che è banale indimenticabile). E perciò sono assai frequenti incidenti, spesso mortali, che nella vita preitinierante erano stati evitati per dei casi e dei passi che solo ritornandovi si rivelano quanti altri mai imponderabili, irripetibili. Camion ribaltati o mezzo distrutti, proverbiali tegole sulla testa, ossa rotte e chi più ne ha… Al moltiplicarsi dei viaggi la consapevolezza si intensifica fino all’ottundimento, callificando ovvero – lei capisce fin troppo bene cosa sto dicendo – intumorendo. La crescita ha sempre un limite, cosa credeva? Il limite della carne e della materia. La torre di Babele può raggiungere Dio solo in spirito: questo è il demone segreto di ogni vera architettura sacra: la parte culminante, il coronamento dell’opera deve restare immateriale, pena la distruzione dell’opera stessa e il caos nelle lingue.

“E a furia di viaggi dopo viaggi ci si ritrova in un mondo sempre più tremebondo, ci si ritrova talmente assottigliati da riuscire a infilarsi sotto la porta dei sogni e lì rimanere, come un’immagine proiettata sul terreno, intangibile e per sempre calpestata.”

E quante volte ripensando a quel loro primo (o secondo? ah!…) incontro rivedeva l’architetto nudo immerso nel vapore, come se lo scompartimento del treno fosse nello stesso tempo un bagno turco. I suoi abiti, persino, gli pareva di ricordarli leggermente umidi, come i suoi capelli, le sue dita momentaneamente smagrite dal vapore, tanto che quasi perdevano gli anelli, i calzini che gli erano scesi lungo le caviglie, i piedi che ballavano nelle scarpe, tutto l’architetto traballava nei suoi ricordi come i suoi occhi bianchi di bambola messicana dondolavano nelle orbite.

«Du solt bitten umb din vergessen súnd und umb din ungesaiten súnd und umb din unerkantten súnd und umb die súnd die du nit ze worten bringen kanst»

(Jützi Schulthasin)

Il profumo di fragola dei suoi occhi. Il profumo dei suoi occhi. Era come se i suoi occhi avessero lasciato un profumo appiccicaticcio su quello che aveva guardato tanto a lungo.

«Ah, perché l’odio mai tanto innamora / i sensi nostri, e ’l core…»

(V. Alfieri, in sogno)

MILOŠ: Né riesco mai a ricordare se la prima volta che incontrai l’architetto (qualunque cosa voglia o non voglia dire “prima volta” quando si parla dell’architetto) lui avesse in mano un sigaro o meno. Come se fosse importante, ma lo stesso non ci riesco. Sono certissimo di non aver notato niente nei primissimi attimi in cui mi si rivolse, dei quali ricordo praticamente soltanto il sorriso seminascosto dalla barba e gli occhi che rotolavano tra le orbite, il paesaggio che sfrecciava attraverso la trasparenza del suo riflesso nel finestrino del treno in corsa verso Jakarta, e sono altrettanto certo di aver notato un piccolo, un ultimo particolare proprio nel momento del nostro primo commiato, ma non sono certo che quel particolare fosse un sigaro, non so se mi è rimasto in mente un sigaro soltanto per via della carica di presidente, perché a un presidente, che sia presidente di una azienda, di una fabbrica o di una repubblica centroamericana (i soli veri presidenti sono centroamericani), si mette sempre tra le mani un grosso sigaro e tre vecchi telefoni sulla scrivania che suonano contemporaneamente e gli scivolano dalle mani sudate per la sauna e sono sempre più danneggiati dall’umidità, tutti quelli che telefonano all’architetto lo sanno, un peculiare disturbo della linea che è come un gorgoglio tracheale, da casa di cura, e il biglietto che mi sono ritrovato in mano dopo essermi svegliato alla mia stazione, il biglietto da visita i cui bordi taglienti negavano una volta per tutte che l’incontro con l’architetto fosse stato soltanto un sogno, il biglietto diceva proprio, «Presidente», senza specificare di cosa fosse presidente l’architetto, come se su un biglietto uno scrivesse «Amante» senza altra specificazione, ma non è possibile amare e basta, essere presidenti e basta, ci vuole qualcosa di cui essere amanti o presidenti, sono cose che non si possono fare da soli, ed è forse per questo che ora mi viene in mente il sigaro, mentre in realtà quello che ho notato al momento di salutarlo poteva essere qualcos’altro, un braccialetto, per esempio, o forse già il suo dito mignolo, anche se sarebbe strano, dato che è stato solo durante il secondo incontro, quando se l’è svitato, che sono rimasto–– ma sto anticipando (o sto ricordando?) troppe cose, e ne ho già confuse parecchie, per cui diciamo che aveva in mano un sigaro, che l’ultima cosa che ho notato era il sigaro, il sigaro da presidente, non ne avevo forse anche sentito il profumo durante tutta la nostra conversazione sul treno, e non è forse vero che alla sorpresa per il sigaro era connessa anche una specie di sollievo o di comprensione retroattiva di aver effettivamente sentito per tutta la conversazione con il presidente un certo strano profumo, e di averlo identificato solo ora, alla fine del colloquio, dopo aver visto il sigaro, il più ovvio degli ammennicoli di un presidente? Eppure, che l’architetto fosse presidente l’avevo capito solo dopo essermi risvegliato, nello scompartimento nuovamente vuoto, e quindi di nuovo, l’odore di sigaro e il sigaro stesso non erano forse stati materializzati dalla mia memoria per sostituire qualcos’altro che l’architetto aveva tenuto in mano per tutto il tempo della nostra conversazione, e che io ho dimenticato? Sì, è stato solo quando mi sono ritrovato il biglietto tra le mani, dopo che lui se n’era andato, che ho saputo che l’architetto era un presidente (né sapevo nemmeno fosse un architetto a dire la verità, che fosse un architetto me l’ha detto dopo, così almeno mi sembra, al nostro secondo incontro, anche se al nostro secondo incontro l’ho visto solo di sfuggita, a Venezia, ma forse quello non è stato realmente il secondo incontro, è stata solo l’occasione in cui ho deciso che lo avrei reincontrato, devo aver pensato qualcosa come che mi potevo trovare in una favola, l’ho rivisto e non l’ho riconosciuto, ho pensato, come succede nelle favole in cui la volta giusta è sempre la terza, mai la prima e meno che mai la seconda, sempre la terza, e così ora anch’io devo incontrarlo una terza volta e quella sarà la volta buona, ma la cosa strana, oltre al fatto che la prima volte che l’ho incontrato non mi ha detto né che era presidente né che era architetto, la cosa strana è che la volta buona è stata la quarta). Senza contare che quando mi ero addormentato, o almeno così mi sembra di ricordare, e del resto lo confermerebbe il fatto che lui fosse diretto a Jakarta, e di questo sono assolutamente certo, dato che le prime parole che mi ha detto sono state “Anche lei scende a Jakarta?”, ma se è così quando mi sono svegliato l’architetto non poteva essersene andato, ma allora perché quando mi sono risvegliato, ben prima di Jakarta, mi sono ritrovato solo, con nient’altro che il biglietto dell’architetto in mano, con la sensazione che da un momento all’altro, se soltanto avessi mosso un pochino di più le mani o aperto meglio gli occhi abbandonandomi definitivamente alla realtà, quel biglietto sarebbe sparito come un ultimo lacerto di sogno? La spiegazione che in seguito l’architetto mi avrebbe dato di quello che in effetti era successo e del perché io mi fossi ritrovato solo con quel biglietto tra le mani non fa che rendere il quadro ancora più confuso, se possibile, ma di nuovo sto anticipando troppe cose, come fanno i pazzi. La gravità di un disturbo nervoso è direttamente proporzionale al numero di anticipazioni tronche che una persona intercala nel suo discorso. Non credo che il fatto di rendermene conto possa essere un sintomo di guarigione. Sembra piuttosto parte del supplizio. L’architetto non faceva che infarcire il suo discorso di spiegazioni e chiarimenti riguardo tutto quello che mi succedeva, qualsiasi cosa mi capitasse, fosse anche un moscerino in un occhio, era stata calcolata e decisa da lui centinaia di anni avanti da quel momento, o millenni prima della comparsa stessa dell’essere umano sulla Terra, e questo nonché non avermi mai aiutato è anzi uno dei motivi per cui oggi vorrei poterlo uccidere, vorrei averlo potuto uccidere. Occhi di pagliaccio sfarinato.

«Ad un galantuomo il quale badi a sè e stia ne’ suoi panni, non accadono mai brutti incontri.»

(A. Manzoni, I promessi sposi 1827)

E così, avete notato? Ora le due file di orme nella neve non fanno più capo a Gianni Sherwood seduto sulla panchina ma a due giocatori di scacchi seduti su quella stessa panchina alla fine di quelle stesse due file di orme – ma! ma! come possono essere le stesse? Già come può una sonata di Mozart che sentiamo alla radio essere la stessa sonata che Mozart ha scritto, eseguito, e che milioni di altre persone prima di quella dentro la radio hanno eseguito? Come fanno quei puntini neri, che sono sempre gli stessi, a finire ogni volta tra dita differenti?

E così infine due file di orme fanno capo a due uomini seduti molto vicini, e sembra quasi che uno dei due si stia confidando con l’altro ma, chi si avvicinasse ai due creando così una terza fila di orme, vedrebbe il pallore di una lama che stretta nella mano dell’uno sparisce nel petto dell’altro all’altezza del cuore. “Non è altro che il tuo piacere a muovere il coltello… non serve a nulla la mia morte, a che ti serve avermi trovato, domani la mia carne tornerà a strisciare su questa terra, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi! Già lo sta facendo… Sei disgustoso.”

E così uno dei due giocatori di scacchi, già lo sappiamo, ucciderà l’altro. E una delle due file di orme è anche quella dell’assassino di Gianni Sherwood.

Wir können nicht um unsre Ecke sehn: es ist eine hoffnungslose Neugierde, wissen zu wollen, was es noch für andre Arten Intellekt und Perspektive geben könnte: zum Beispiel, ob irgend welche Wesen die Zeit zurück oder abwechselnd vorwärts und rückwärts empfinden können (womit eine andre Richtung des Lebens und ein andrer Begriff von Ursache und Wirkung gegeben wäre)

(F. Nietzsche)

“Elementi corticali come il precuneo o il solco intraparietale utilizzano il corpo come unità di misura nello spazio, nel tempo, e nel contesto sociale, e sono probabilmente centrali nell’integrazione tra corpo e il macchinario. Si è trattato di attuare una serie di regolazioni, inizialmente su modellini non più grandi di una scatoletta di caramelle: regolai la tensione in modo che la corrente non potesse scorrere: gli elettroni dunque continuavano a vagare nel campo magnetico, e questo era quello che avrei voluto anche per il viaggiatore. Nel primo prototipo l’anodo aveva la forma di un cilindro cavo come una lattina da bibite: “fondo” e “coperchio” della lattina, una volta staccati, diventavano il catodo. In pratica si trattava di un contenitore chiuso le cui pareti non erano fatte di metallo ma costituite dall’energia dei campi elettrici e magnetici in interazione e sincronizzazione costante con quello del viaggiatore. La prima struttura di questo tipo intrappolava un singolo viaggiatore e permetteva di misurarne le proprietà magnetiche. Possiamo paragonare il viaggiatore a una di stazione radiotrasmittente che emetteva onde elettromagnetiche sulle quali il viaggiatore stesso, tramite la manopola collegata al cuore, riusciva a sintonizzarsi come se stesse manovrando un radioricevitore. E, misurando con estrema precisione le frequenze delle onde radio, dopo un anno di esperimenti e di sacrifici (letteralmente: non sa quanti viaggiatori sono–– ma non parliamo di corda in casa dell’impiccato) riuscii finalmente a misurare il campo magnetico indotto dal moto del viaggiatore e dal suo spostamento paratemporale con la precisione di uno su dieci milioni. Con la giusta accuratezza di misurazione si vedrà come la fuga del viaggiatore nelle profondità della latta del macchinatrio dia origine a un certo “disturbo”, trasformando il vuoto risultante in una sorta di alveare contenente un pulviscolo di quelle che non posso fare a meno di supporre siano antiparticelle in frenetica attività. Peraltro a precisione della manopola cardiaca era tale da essere influenzata, come mi resi conto, dagli effetti gravitazionali del moto della Luna.  L’attrazione esercitata dalla Luna influisce anche sulla latta del macchinario, deformandola sia pur in modo quasi (ma mai del tutto) trascurabile.”

«…l’espace creusé d’abîmes qui va de l’antichambre au petit salon»

(M. Proust)

T–––Š B––––K: Mi raggomitolavo nelle coperte come una cavalletta fasciata dal ragno e paralizzata dal ragno, senza dolore, in perfetta paralisi, ora ridotta a un frutto che non deve far altro che attendere di essere divorato, sognavo nugoli di api che mi colpivano ovunque, come una grandine di pon pon importuna, ma senza il dolore delle punture. Volevo ottenere un anestetico come quello del ragno. Sembrava quasi che gli insetti intrappolati fossero caduti apposta nella tela per farsi addormentare come in paradiso, e molti anni dopo, quando lessi la parola “trasumanare” pensai subito alla cavalletta avvolta nella tela e fui sicuro di avere capito il Paradiso, Beatrice, Dio, tutto. Ero certo che farsi mangiare in quel modo fosse una forma di estasi, il metodo più esatto per ottenere un distacco chirurgico e garantito dell’anima dal corpo. Mi togli un pezzetto ma sono sempre io, me ne togli un altro e sono sempre io, e un altro e poi un altro e un altro e così via finché non c’è più niente da mangiare ma sono sempre io come una grandine di pon pon invisibili in frenetica attività. Se avessi trovato un anestetico simile, sarei stato come il ragno e avrei potuto salvare tutti. O se uno l’aveva già trovato, avrebbe potuto salvare me.

Nel frattempo i pazienti continuavano ad arrivare nel mio studio, era un continuo, ed io ogni volta…:

“Bene. Mi è sufficiente una prima superficiale analisi per rendermi conto che lei è nella cosiddetta età della mascella, un periodo della vita estremamente importante per lo sviluppo della struttura ossea. Ora vorrei che lei provasse a sistemarsi tra le sporgenze e le sinuosità di quel palo metrico laggiù. No, decida lei, non c’è una regola. Non si tratta di una prova attitudinale o di un esame, assuma la prima posizione che le viene in mente, senza pensarci tanto su, ecco, così, vede, questo palo è stato disegnato appositamente perché ogni persona potesse trovare senza la minima difficoltà la posizione adatta, e se mi permette vedo che lei, dunque, sì, sì, davvero molto interessante, in tutti i miei anni di professione… non la disturba se la tocco, vero? Del resto come avrà lei stessa modo di vedere questo è niente… sì, molto interessante davvero… A livello delle anche io vedo un distacco di almeno quattro gradi, vede l’indicatore? Chiarissimo… Davvero… Singolare…, ora se permette giro un poco questo perno, in modo da entrare… spero non le dia troppo fastidio, ecco, se crede stringa pure coi denti quella linguetta lassù, non si faccia scrupolo, è un macchinario molto resistente… Quella, quella linguetta lì, vede? così simile a una doppia ancia di fagotto, non abbia paura, stringa pure i denti con forza, è caucciù, sa? bene, davvero molto bene, che piacere lavorare con una persona così ricettiva, un caso così interessante… ecco, ora è quasi entrato del tutto, non resta che girare di nuovo e… naturalmente le vere ance di fagotto sono di legno, anche se so di un fagottista che era diventato molto abile a ricavarle da cannucce di plastica tagliate longitudinalmente, anche se immagino il suono fosse meno espressivo, il legno è tutt’altra cosa dalla plastica… Ecco. Fatto. Come vede il funzionamento del palo metrico non è troppo differente da quello dei vecchi regoli calcolatori, se li ricorda? oggi sembrerebbero più che altro oggetti da stregone, oggi più che mai lo stregone è quello che sa davvero manipolare un oggetto, noi siamo solo degli esecutori ma non conosciamo le cause…”

VALMARANA: Di Brušek ho capito che non ama nessuno. Non vuole bene a nessuno, forse soltanto alle sue cavie torturate. Il suo solo amore è torturare per sapere. Torturava il suo cane. L’ho visto. Una volta lo prese per la collottola, come uno che ha bisogno di un pezzo di carta per prendere un appunto e non trovando altro strappa la pagina bianca di un libro. Lo sistemò sul ripiano di legno, gli legò le zampe e lavorò con lui per il resto del pomeriggio. Il cane emetteva guaiti e guardava il padrone chiedendo ottusamente il perché di quella punizione così dolorosa e straziante, senza dubitare mai per nessun motivo che fosse giusta, dicevano non ho capito per cosa mi punisci, ma ti prometto che non lo farò più, non lo farò più, non lo farò più. I lamenti del cane volevano solo il perché senza dubitare che lo strazio fosse giusto.

Per un po’ di tempo ho creduto che l’unica cosa che avrebbe potuto turbarlo è l’assenza di cavie, poi mi sono accorto di una cosa. Dentro di me, man mano che proseguivo nel mio servizio per lui, sentivo all’opera le sue farfalle infette, la costruzione interiore di un laboratorio come il suo nelle campagne di Praga. A volte sentivo persino il profumo del legno bruciato della stufa. Sempre più spesso mi sorprendevo a invitare persone amate dentro il laboratorio, a convincerle a sdraiarsi sul ripiano, a rassicurarle mentre le legavo mani e piedi. Mi divertiva vedere il momento in cui la loro espressione cambiava. Era davvero imbarazzantissimo, sì, imbarazzantissimo, lavorare con una persona che fino al giorno prima è stata tua amica, ah diciamocelo pure, niente di peggio, eppure cosa volete che vi dica, come ad esempio il giorno che quel vecchio ubriacone di un Sommariva… (pausa) Ora, se non contiamo il mio maggiordomo, che vale per zero, sono del tutto solo, sono solo con un servo e scatole su scatole di esemplari. Ma non perdiamo tempo, sentiamolo direttamente dalla sua viva voce.

(Traffica un po’ con un vecchio mangianastri impolveratissimo, poi riesce ad accenderlo e si sente la voce registrata di Brušek)

VOCE REGISTRATA DI BRUŠEK: L’idea vede mi è venuta ricordandomi di un puntaspilli che aveva mia nonna. Le cose dei nonni sono sempre un po’ spaventose, sono le prime cose che un bambino ricorda nei o dei propri sogni, non lo sapeva? Ci faccia caso. Lo stesso per la vita, ci faccia caso, ogni volta che le capita qualcosa di bizzarro vedrà che in un modo o nell’altro sarà legato a un qualche oggetto che tenevano in casa i suoi nonni. La prima cosa che io ho sognato sono le donne senza occhi di Modigliani, e Modigliani è stato il primo pittore che ho imparato a riconoscere. La prima volta che ho visto un suo quadro è stato da mia nonna, era una cartolina e io ho confuso le cose, ho pensato che prima fosse venuto il sogno e poi il quadro anzi la fotografia dato che mio padre che non è mai stato in grado di spiegare niente, men che meno a un bambino, mi aveva detto che quella era una fotografia e senz’altro era vero che si trattava di una fotografia, ma io non ero arrivato a capire che si trattava della fotografia di un quadro e così avevo creduto che quella fosse effettivamente la fotografia di qualcuno ovvero qualcosa, e dato che nella realtà non avevo mai visto colori come quelli e occhi senza occhi come quelli, avevo pensato che in qualche modo qualcuno doveva essere riuscito a fotografare un sogno. E volevo sapere chi aveva fatto quel disegno scusi un attimo.

(Lunga pausa; rumore di passi che si allontanano; stoviglie)

VOCE REGISTRATA DI BRUŠEK: E mio padre mi ha detto non è un disegno è una fotografia e io non ho capito perché non capivo mai quello che mi spiegava mio padre, e anche quella volta ho pensato che qualcuno avesse scattato una fotografia a una persona del sogno, pensavo che le persone dei sogni (a parte quelle che conoscevo) fossero per tutti le stesse, per tutti le donne senza occhi di Modigliani (o forse era stata la macchina fotografica a cancellare gli occhi di quella donna? In quasi tutte le fotografie di quand’ero bambino mi tengo gli occhi coperti perché la macchina fotografica non me li possa strappare e io finisca intrappolato in un sogno), anche se non sapevo nemmeno che Modigliani fosse esistito e non potevo capire in nessun modo che quello non era un disegno ma la fotografia di un disegno, se era una foto era una foto, non avrei mai potuto capire che potesse essere tutt’e due così come è difficile capire che il nostro papà è stato anche lui un figlio proprio come noi, la fotografia di un disegno proprio come noi (ed ecco spiegato perché sogniamo per prime le cose dei nonni, cioè per farle diventare oggetti senza occhi che spariscono quando ci svegliamo), così sono andato a dormire con la macchina fotografica per fotografare un sogno, e quelli sono stati i miei esordi nella fotografia. Passavo le ore a fissare quelle chiazze amorfe cercando una donna senza occhi, e a volte mi sembrava di vederne davvero una, molto molto piccola, e dietro di lei altre persone, ma forse a quel punto mi ero già addormentato. Ad ogni modo l’idea mi è venuta da un puntaspilli a forma di cuore che aveva mia nonna. Era piacevole premere contro il cuore con uno spillo e sentire la superficie cedere, e vedere l’ago sparire al suo interno come in un liquido, li piantavo fino alla capocchia. Gli aghi in un cuore vero vengono risucchiati all’interno dalle contrazioni muscolari, è tutta una questione di anestetizzante al momento giusto, di vasodilatazione indotta in modo da impedire che gli aghi si mettano di traverso come quando ti si pianta una lisca in gola e la devi vomitare, chiedo scusa, comunque non siamo a tavola, ma è stato a seguito di alcuni diciamo incidenti nelle prime fasi di studio del fenomeno che sono giunto a teorizzare il vomito cardiaco…

(sfumando)

filios eius interficiam in morte, et scient omnes ecclesiae quia

ego sum scrutans renes et corda

(Apocalisse 2,23)

[continua l’11 gennaio]