Un presente bisestile

«Allora, avete capito tutti. Attenzione quando si mette il braccio attorno al collo di una donna, perché potreste tirarle gli orecchini: poi sono dolori».

1.

Aveva passato troppo tempo ad aspettare, tutto qui. E questo aveva portato con sé, come uno strascico ingombrante, la fatica di una forza spesa male, inseguendo traguardi inconsistenti. Così ora cercava di limitare tutte le conversazioni di cortesia, affrettando il passo davanti a chi voleva fermarla per scambiare due parole come se fosse in ritardo sui propri impegni, evitando di intrattenersi persino con i familiari. Aveva da fare, aveva sempre da fare. In effetti, a suo modo di vedere era in ritardo, specie su ciò che le stava più a cuore: quel che era rimasto della sua vita. D’altra parte, come mi aveva detto Luca senza dilungarsi troppo, nove anni in una relazione clandestina con un imprenditore più o meno felicemente sposato (ma perennemente sul punto di cambiare), erano tanti. E l’imprenditore era poi morto in un incidente d’auto insieme alla moglie. D’un tratto, si era sentita messa a tacere. Non che avesse abolito i ricordi, anche se sulle prime, dopo la tragedia, era stata tentata di farlo ma, come capita spesso alle storie clandestine – per lo più volutamente prive di riscontri materiali – ora quei tanti pomeriggi si potevano confondere con una fantasticheria vissuta in modo indecifrabile. E quella finzione era stata forse la parte migliore della sua vita.

Dopo un paio di mesi aveva ripreso a uscire; faceva lunghe passeggiate in montagna che imputava alla necessità di ricominciare a muoversi e che non mancava mai di presentare come la risposta a un’imposizione medica. Nelle più rare occasioni pubbliche si era sistemata vicina a un collega di lavoro o a qualche nome noto conosciuto in ambito economico. Poi, con iniziale cautela, aveva preso a frequentare i posti dove si ritrovavano i divorziati. Il Manara Dance Club, ad esempio.

Davanti alla necessità di parlare di sé, la menzogna con la quale aveva sostituito la verità non le si discostava poi così tanto: lasciava intendere di essere uscita da una lunga relazione che si era interrotta di colpo e certo non per volontà sua. Non si sentiva in animo di condividere ciò che era accaduto e così la riservatezza che tutti le riconoscevano – che sembrava avere avuto in dote – si era addirittura accresciuta. Ma la prudenza la aveva a tal punto indotta a servirsene che ora non era in grado di padroneggiarla, tanto che il peso che così a lungo si era caricata sulle spalle ora era diventato qualcosa di cui era difficile sgravarsi. Parlare ora sarebbe stato solo rimpiangere ciò che non era più o non poteva più essere.

Aveva quindi preferito andare regolarmente dall’estetista, vestirsi in modo elegante, e soprattutto frequentare qualcuno: molti, a dire il vero; occasionalmente, più di uno alla volta. Con attenzione scrupolosa, in una sorta di divertissement controllato: serate eleganti, pernottamenti in alberghi discreti e poco chiassosi. Ogni tanto il pensiero della sua lunga relazione aveva la meglio, cogliendola di soprassalto; nelle ore che seguivano cercava di ripercorrere qualche itinerario clandestino e felice. Proprio una di queste impressioni l’aveva portata a prenotare da sola la stanza in un albergo in cui tre anni prima, col suo compagno segreto, aveva passato qualche notte felice (Luca non era stato preciso).

2.

            Un venerdì sera, verso la fine di maggio, Luca si era messo in testa di fare chiusura al Manara Dance Club per tentare l’approccio con una più grande di lui. In quel periodo mi diceva di sentirsi portato per le avventure, che in certi casi – specie con le mogli separate – portavano con sé qualche pericolo, perché c’era sempre chi sperava in un riavvicinamento. Così si era tirato a lucido e si era presentato senza preavviso, sulla spinta di un’intuizione che a suo dire aveva avvertito infallibile. L’occasione, però, non era delle migliori: la sala principale era occupata da una festa aziendale di compleanno mentre sull’altra, o al bar, nella penombra, i gruppi erano già di fatto divisi fra chi si conosceva e i pochi che erano passati di lì per caso. Fra questi, c’era poco da stare allegri. Del resto, di fronte a uno sviluppo della serata che non prometteva nulla, i frequentatori e soprattutto le frequentatrici abituali avevano deciso di saltare il giro e di fermarsi altrove: erano rimasti quelli che non avevano alternative. Sei tavolini coi divanetti erano vuoti. Così si era seduto al bar con un cinquantenne in completo elegante, spento dall’alcol, un certo Nico che parlava della sua carriera scolastica. Ma tutto sommato – mi aveva detto – non gli era dispiaciuto, o meglio, era rimasto così sorpreso dal suo abbaglio che si era fatto una risata e si era messo nella disposizione d’animo pronta a raccogliere qualsiasi cosa quel locale avesse da offrirgli. L’intuizione, a quel punto, sarebbe stata verificata fino in fondo. Per questo aveva ascoltato con partecipazione i racconti dei fallimenti amorosi di Nico in quarta ragioneria (ricambiato, va detto, da una gratitudine sovrumana).

E in effetti, dopo un po’ qualcosa era cambiato. Uno dei due gruppi, che troppo presto aveva considerato autonomo, cominciò a sfaldarsi: un paio di coppie uscirono dirette a un traguardo più confortevole per il fine serata. Restarono solo due uomini sulla sessantina, una giovane che sembrava avere a che fare con uno di loro e, seduta con il drink in mano, sotto un faretto arancione, Roberta, che a un certo punto cominciò a guardare verso di lui.

Visto che di solito liquidava in fretta quelli che non le piacevano, non aveva mai speso attenzioni particolari nei suoi riguardi. A Luca la cosa era sempre dispiaciuta; perciò, nella disposizione d’animo di quella serata, d’un tratto si era sentito propenso ad ascoltare le sue ragioni, ad assecondarla, pronto a seguirla fino a dove lei e il suo abito nero avrebbero deciso di condurlo. Ogni risultato, anche il più insignificante, avrebbe potuto essere registrato in attivo. A lui sarebbe bastato. Del resto, la condizione di Nico non era solo grave, ma soprattutto ingiusta: era senza speranza. Per vari motivi, o più semplicemente per una serie di circostanze sfortunate che si sommavano a una scarsa propensione al dialogo, nel corso del tempo le occasioni che aveva avuto a disposizione erano state pochissime: tutte si erano concluse con un fallimento. Lo salutò, dunque, con la scusa di aver notato qualcuno che doveva salutare.

E si sedette con lei, elegante, ma un po’ su di giri per colpa dell’alcol: questa era già una notizia. L’altra, ma non poteva sorprendere fino in fondo, è che era vestita benissimo, con un finto completo da uomo che la esaltava: una camicia bianca di seta incredibilmente luminosa. Perché sì, mi disse poi Luca, questo lo avevamo sempre saputo e lo sapeva anche lei: quando voleva non passava inosservata.

Fingendosi stupito di trovarla in quel locale, tentò un approccio per così dire involontario. E lei rispose in piena confidenza, seduta sul divano con le braccia sullo schienale, come una star davanti a un giovane giornalista praticante. In effetti, aveva già in testa l’argomento di cui voleva parlare, forse suggerito da una serata che aveva preso il via in maniera non promettente. Anzi, prese a parlare come proseguendo un pensiero che stava seguendo in silenzio:

«Il quartiere lo frequento sempre meno. Del resto, se ci pensi, dalle nostre parti tutto lì sembra succedere in una stanzetta dove, mancando la forza per provare a far qualcosa di nuovo, tutti si dicono che bisogna accontentarsi di quello che capita ogni giorno». Andava a ruota libera. Rispetto al solito era irrefrenabile. Luca si voltò indietro: Nico, dal banco, gli fece un cenno di approvazione.

 «Riboni respira un’aria diversa, un’apertura che qui non si è mai vista, non perché sia un dirigente di fama, ma appunto perché qui non si riesce neanche a pensare con un’apertura d’idee come la sua. E questo gli costerà caro: gliel’ho detto, finirà per farsi travolgere da chi non vede le cose perché non è in grado di vederle. Deve capire che per la gente di qui il massimo è Transit, che di fatto è e resta un meccanico. Lo stimano onesto: per carità, lo sarà pure – anche se conosciamo i maneggi che mette in moto per i suoi interessi – ma appunto il modo in cui si muove, la mancanza di prospettive più ampie, la ristrettezza di idee con la quale celebra i suoi successi, evitando di ricondurre ogni risultato a un quadro più generale e a una prospettiva di crescita, sono elementi che andrebbero analizzati non in positivo, come invece fanno quasi tutti, ma in negativo, per capire le ragioni per le quali non si riuscirà mai a fare un salto di qualità e i piccoli passi resteranno, appunto, quello che sono, passi avanti che al massimo ti spostano di un metro. Ma qui si vuole tutto a misura d’uomo. E invece sai come andrà a finire? Che le dinamiche che hanno una dimensione più ampia si prenderanno tutto, cancellando anche le tracce di questi piccoli successi, perché ormai la scala locale, quella del piccolo è bello, funziona solo se è connessa con una rete commerciale aperta, potenzialmente globale. L’industria che funziona non è la grande industria, sempre più in crisi, ma la piccola media impresa dinamica, che si muove in questo modo. Ho avuto tante di quelle possibilità di vedere conferme a tutto questo, che non ti dico. Qui dovrebbero farsene una ragione, ma non lo faranno. Pensano ancora che frequentare tre anni di scuole professionali significhi studiare».

Ordinarono.

Davanti a un altro drink, Luca si non si aspettava che si mettesse a fargli una lezione di economia. Ma aveva deciso di farla parlare, la incoraggiava: voleva che virasse sulle sue vicende private.

«Senti, la cosa più scema che mi è capitata di recente è questa. Stavo andando a comprare un biglietto del treno quando, in coda, chi ti incontro? Non ti dico il nome, è un mio ex-compagno di studio che si era fatto frate e che poi era uscito per amore di una di Perugia; mi pare si chiamasse Patrizia. Ora, qualche anno dopo è stato piantato anche da lei, ma non è più tornato in convento. Si è messo a fare l’operaio. Andiamo a prendere un caffè e lui mi fa tutta una serie di discorsi sul proletariato: ‘O, ma stai ancora qui a dirmi queste cazzate?’ Mi avesse parlato di San Paolo, avrei potuto capire, ma sembrava davvero precipitato in un altro tempo. ‘Ma non ti sei accorto che quel tipo di operai non ci sono più? E che anche gli altri, intesi in quel senso, sono sempre di meno, che i nuovi operai sono gli impiegati? Davvero dopo tutto quello che hai studiato non hai trovato di meglio da fare che lavorare in catena di montaggio?’ Fa la faccia un po’ scura, poi si mette a ridere, e allora gli faccio: ‘Ah, lo fai per una scelta, per una sorta di esercizio spirituale, per stare vicino agli umili?’ Mi assicura di no. Anzi, mi dice che vorrebbe cambiare lavoro.

 Io mi chiedo come uno possa ridursi in quelle condizioni. Convinto che il mondo non solo non vada avanti, ma vada addirittura indietro. Dice che vorrebbe darsi all’agricoltura. ‘Ecco, già questo mi sembra meglio. C’è tutto un movimento intorno al territorio, alle questioni del ritorno alla terra, che promette bene’. Lo incoraggio, gli do anche un paio di informazioni utili sui servizi provinciali, sulle misure del Piano di sviluppo rurale e lui prende nota, mi sembra in ripresa. Dice che vorrebbe lasciare la competizione sociale, che non l’ha mai sopportata: spingere al massimo per ottenere cosa? Più soldi? Per farne cosa? Preferisce ritornare alla terra che, a sentire lui, ti detta le regole e i ritmi di vita. ‘Regole e ritmi li detti tu’, gli dico, ‘perché se la coltivi come passatempo puoi metterci quanto vuoi, ma un contadino di professione non può stare a osservare i fili d’erba in controluce’.

Mi dice che sono un po’ cinica, ma vedo che si sta facendo più cordiale. In sintesi, finisco la serata a casa sua. Non è neanche stato così male ma mi chiedo che vita faccia. Dice che cerca una donna che sappia condividere con lui i suoi ideali: ‘I tuoi, vorrai dire’, gli faccio, ‘ma dove la trovi una così?’. Però come esperienza non la rinnego. È un tipo intelligente, ha letto tanto: mi chiedo come possa essere così incapace di leggere la realtà di oggi».

Secondo Luca le cose non sono finite come sperava perché lei lo conosceva già bene. Aveva una reputazione da difendere, soprattutto cercava di evitare che si diffondesse un’opinione scontata. Così alla fine aveva sorriso stirando le labbra fino a renderle incredibilmente sottili, senza scoprire i denti. Poi lo aveva baciato: «Va bene così,» gli aveva detto, prima di salutarlo.

3.

Organizzare un cineforum nel 1995 presentava qualche difficoltà inedita. Per quanto gli strumenti tecnici fossero migliorati rendendo la faccenda molto più rapida di quanto non fosse vent’anni prima, le norme di riferimento erano rimaste quelle per il noleggio delle pellicole: sebbene le videocassette fossero ovunque – nei negozi di noleggio si trovava davvero di tutto – come riportato sulla loro custodia erano riservate esclusivamente alla proiezione privata (in teoria non si sarebbero potute utilizzare neanche nelle hall degli alberghi). Tuttavia, con i teatri in disarmo e le macchine da proiezione sempre più difficili da reperire, in periferia ricorrere alle cassette si era rivelato indispensabile: e così proiettori di medie dimensioni, generosamente messi a disposizione dall’amministrazione comunale, e uno schermo di tre metri per due consentivano una fruizione del film forse non paragonabile a quella del cinema ma, in una sala pubblica da cento persone, insospettabilmente efficace. I costi, poi, anche volendo fare le cose per bene, erano irrisori.

Circa un mese dopo aver raccolto le confidenze di Luca, al Circolo Stevenson Luna avevamo in programma di proiettare La sposa in nero di Truffaut. Pochi minuti prima dell’inizio, nella penombra delle ultime file, entrò anche Roberta, vestita in modo più dimesso del solito: indossava addirittura un pile rosso fragola. Non era fra i soci. Entrò con due universitari trentini che mi sembrava la accompagnassero, ma che invece si allontanarono subito, cercando i primi posti. Poco dopo arrivò un uomo robusto, maturo, in abito più elegante della media, che non avevo mai visto e che le si sedette accanto. Dato che la parte amministrativa della serata competeva a me, cominciai a dubitare che non fosse un ispettore inviato dalla SIAE a controllare se i permessi per la proiezione fossero in regola. Come detto, non lo erano mai: non potevano esserlo. Quella riservata ai soci poteva definirsi a pieno titolo una proiezione privata? La segretaria dell’ufficio provinciale della SIAE, sorridendo, non aveva preso una posizione precisa, ma mi aveva consigliato di pagare. E io avevo pagato; ma non mi sentivo al sicuro. E quei quattro o cinque come Roberta, che non erano soci, compreso l’uomo? Avrei dovuto cacciarli? L’uomo non si muoveva. Girando appena la testa scambiava a bassa voce qualche parola con lei.

Mi alzai dalla prima fila per presentare il film. L’avevo scelto dopo averlo visto in tv a tarda ora e lo avevo imposto agli amici. Non era veramente un giallo, né un revenge movie, per quanto ne condividesse la trama. Era percorso da un’inquietudine che mi piaceva: così mi piaceva il suo approccio diretto, estraneo alle norme dei generi; in effetti, non era spettacolare. Le immagini, lasciando fuori campo la realtà più molteplice e concreta, erano stilizzate. È un film astratto e duro in cui la morte assume i contorni dell’ossessione vendicativa della sposa e sembra perciò indifferente, disumana.

A occhio, mi sembrava ci fossero quaranta persone: non vedevano l’ora che il film iniziasse. Saverio mi faceva segno di stringere. L’uomo accanto a Roberta mi ascoltava annuendo enigmaticamente con brevi cenni di capo. Lei invece sempre cortese, ma con gli occhi grigi impenetrabili e il sorriso a bocca chiusa sempre più sottile, che correva ormai da un orecchio all’altro in una maschera fra l’approvazione e lo scherno.

 Decisi di tagliar corto.

Al termine della proiezione, mentre qualcuno già si alzava per andarsene in fretta dalla sala, Luca disse ad alta voce una cosa che gli sembrava il commento migliore del film:

«Allora, avete capito tutti. Attenzione quando si mette il braccio attorno al collo di una donna, perché potreste tirarle gli orecchini: poi sono dolori».

Qualcuno rise.

Mentre il suo accompagnatore si risistemava, l’unica a replicare fu Roberta, in tono assertivo:

«Credo che chiunque sappia fare attenzione agli orecchini, ma tu non hai mai messo il braccio al collo di una donna, vero?»

Chino sul suo zaino, Luca fece forza su di sé per dominarsi; dai gesti con cui risistemava i libri, la portata della reazione si sarebbe potuta registrare eccessiva. Dunque la sera del Manara, o in un’altra sera, qualcosa doveva pur essere successo, se lei si era presa la briga di umiliarlo. Non era nuova a quel genere di uscite, ma questa sembrava generata dalla necessità di riservarsi l’ultima parola in fatto di relazioni, il che, vista la sua situazione, non mancava di un lato grottesco. Come mi era accaduto di osservare anche in altre circostanze, sotto le sue espressioni composte si coglieva un malessere più ampio; la modestia nascondeva un nodo di desideri esigenti, come l’esperienza di Luca sembrava confermare. Nella sua conversazione, mi sbalordiva che dopo tanti argomenti elaborati a bassa voce con apparente serenità, il tono conclusivo suonasse immancabilmente malevolo, tanto che le osservazioni più semplici assumevano l’eco del sarcasmo o meglio ancora di un insulto in sordina. Mentre l’episodio sembrava spegnersi, e anche Roberta e il suo accompagnatore erano ormai in strada, Luca ne uscì con un’altra delle sue, gridando:

 «Ricorda cara che il presente è bisestile!»

Ne avremmo riso per mesi.

In sala eravamo rimasti in tre, ma fece il suo effetto.

Da episodi come questo cominciavo a capire che quella stagione stava finendo.