Eredità

“Man hands on misery to man”, scriveva Philip Larkin. Quasi sempre una simile eredità si arricchisce di doni inaspettati, che però, come in questo racconto di Marchesini, non si capisce mai bene se liberino il dolore dalla vergogna e dallo scandalo o se lo acuiscano ancora di più.

di in: Antologia

Il pomeriggio che ha iniziato sul serio a fare il trasloco, Marco si è accorto che voleva lasciare quasi tutto in quella casa. Questo sentimento, almeno così gli sembrava, dipendeva dalla sua solita velleità di ricominciare da zero. Guardava i mobili, gli arnesi della cucina, gli scaffali imbarcati sotto il peso di troppi libri, e le cose cominciavano a sembrargli delle rovine untuose da cui fuggire il prima possibile. All’inizio aveva diviso con cura gli oggetti. Ma dopo aver riempito due o tre sacchi ha cominciato a gettare padelle, libri e carpette insieme alla rinfusa, con una velocità che presto è diventata furia. Quando gli capitava così era come accecato: avrebbe firmato qualunque diabolico contratto, si sarebbe sottoposto agli sprechi più insensati pur di sbarazzarsi al più presto della roba a cui doveva trovare un posto. Del resto non era per questo che stava traslocando – per sbarazzarsi di tutto ciò che aveva a che fare con quella casa, ma col conforto di sapere che la memoria della sua presenza lì non sarebbe andata del tutto persa?

Per fortuna ha saputo fermarsi. Si è messo a respirare lentamente, si è guardato intorno. Bisognava essere ragionevoli. Ha fatto qualche passo avanti e indietro tra le stanze. Lo specchio lungo in camera da letto poteva lasciarlo. Ma il letto no, l’accordo era di portarlo via. E anche il salotto andava svuotato. Conveniva a lui per primo. Nella casa nuova c’era un corridoio perfetto per le billy, che nonostante tutto reggevano ancora. In ogni caso doveva smontarle, e farle trovare imballate all’amico che il giorno dopo lo avrebbe aiutato con il camion. Anche i libri, che da molto tempo non erano più nell’ordine in cui li aveva sistemati entrando in via San Felice, gli davano un’idea di sporco. Tutte le storie che non erano all’inizio gliela davano (nello scaffale più alto si erano accumulati parecchi quaderni appena iniziati: sulla prima pagina aveva scritto con una grafia elegante, che già alla terza si era sfilacciata). Ma i libri gli servivano, anche quei brutti albi che coronavano le billy. Erano il suo lavoro: doveva impacchettarli bene per poterli avere subito a disposizione nel nuovo appartamento. Istintivamente le sue mani si sono posate sullo scaffale dove aveva allineato quelli scritti da lui, per i quali aveva predisposto una scatola a parte. Ne ha accarezzato i dorsi, e ha seguito con l’indice il contorno della copertina dell’unico messo di piatto. Si è accorto di avere l’acquolina in bocca. Ha lasciato ricadere il braccio e ha controllato l’ora: le tre. Doveva andare a recuperare un po’ di cartoni, prima che sparissero. Ha disceso con lentezza la grande scala di marmo, pensando che era una delle ultime volte in cui si trovava di fronte a quel finestrone liberty. E stranamente, mentre rifletteva su quanto era miracoloso che fosse rimasto intatto per più di un secolo, gli è venuta l’idea di tirarci un sasso.

Fuori lo ha accolto il sole torpido di un giugno che sembrava già agosto, e che infilandosi tra i portici arrivava a scottare le soglie dei negozi. Tra due colonne, davanti al bar Sanders, c’era una pila di cartoni quasi intatti. Li ha presi, ha fatto un cenno di saluto con la testa. Il barista cinese, che sapeva del trasloco, ha annuito più volte e gli ha sorriso, mimando iperbolicamente il gesto di chi allontana da sé qualcosa. Più in là, davanti al Conad, era rimasto qualche cartone schiacciato su un carrello. Due o tre erano bucati. Ne ha preso uno bianco, enorme, ed è tornato su. Si sentiva il corpo tutto intorpidito, le braccia pesantissime. Di solito in questi casi procedeva con una pigrizia ridicola. Così aveva fatto i giorni precedenti: spostava un mobile in mezzo alla stanza, infilava in una scatola il tostapane, e dentro di sé valorizzava quel minimo sforzo fino a giustificare una giornata di dormiveglia e indugi. Ma adesso non poteva più aspettare: entro la sera successiva l’appartamento doveva essere vuoto, questi erano i patti.

Sospirando si è avvicinato alla billy di fianco alla porta del soggiorno, e ha cominciato a svuotarne gli scaffali. Disponeva via via i libri nei cartoni, che rattoppava con lunghi pezzi di uno scotch troppo stretto. Li metteva un po’ secondo un ordine e un po’ a caso. È andato avanti più o meno un quarto d’ora, poi si è stancato e si è seduto per terra a gambe incrociate. Ha attirato a sé la scatola dove aveva messo i suoi albi, e ha preso quello che aveva incastrato sul bordo per poterlo avere sottomano fino all’ultimo. Era appena uscito, ma l’idea risaliva a un passato remoto. Se l’è messo in grembo, cominciando a sfogliarlo come se non lo conoscesse. Dopo un po’, e un po’ che ultimamente diminuiva in modo preoccupante, non sopportava più la fatica di guardare le cose attorno o di pensare, e tornava a specchiarsi in sé stesso. Un mese prima, durante un laboratorio in una scuola elementare, mentre una psicologa parlava di autismo si era chiesto se non avesse alcune delle caratteristiche che stava descrivendo, e si era quasi divertito a reinterpretare certi episodi della sua vita in quella chiave. Ora soffermandosi sulle sue figure si riposava proprio come i bambini che si fanno raccontare sempre la stessa storia. Guardava l’immagine della rabbia che usciva dal corpo del piccolo protagonista come un mostro rosso, e nella pagina dopo lo vedeva cominciare con lei una danza. Rovesciava quella nube enorme, sfruttando il suo slancio in una mossa judo, e poi la rimetteva in piedi, la rimpiccioliva, la reimpastava. E nel frattempo non smetteva di parlare con la Rabbia, bestia sconcertata che cambiava colore e forma e che presto non sapeva più contro cosa scagliarsi. Sfogliando l’albo, Marco godeva di sé stesso in un modo che gli era incomprensibile; e alzando gli occhi sul salotto semisgombro si sentiva così sperduto che subito, come ipnotizzato, tornava a rifugiarsi nelle pagine ancora fresche che gli appiccicavano le mani.

Per smettere ha dovuto chiudere il libro con un gesto brusco. Si è alzato, ha fatto una smorfia di fatica come se recitarla lo aiutasse a non provarla, e si è messo a scalzare gli scaffali dalla billy. Li ha allineati in fondo al soggiorno, sotto la finestra. Dalla strada, intanto, salivano i primi rumori della pizzeria che apriva. Gli ricordavano sempre quelli di un lungomare, come arrivano all’orecchio quando si sta stesi al buio di un albergo nel tardo pomeriggio. Forse era anche per quella sensazione che aveva scelto di rimanere così a lungo in San Felice?

Ora la billy era nuda. Marco ha avuto la tentazione di fermarsi, poi ha resistito. È andato a prendere la scala, è salito in cima. Ma è ridisceso subito: prima doveva frugare nella cassetta degli attrezzi, e trovare quello giusto per togliere le viti che la fissavano in alto al muro. Ha fatto tutto con la stessa smorfia eccessiva, quindi si è messo davanti alla parete con le mani sui fianchi. Aveva il fiatone. Ha aspettato che il respiro tornasse normale, ha abbracciato la libreria, e ha cominciato a trascinarla verso il centro della sala.

È allora che ha visto l’ombra del graffio sul muro. Malgrado il torpore, ha avuto subito chiarissimo di cosa si trattava. Dieci anni prima ha imbiancato tutto lui alla buona. Doveva essere per questo che il graffio era riemerso. Dieci più venti facevano trent’anni. Suo zio non aveva fatto tinteggiare la casa per chissà quanto tempo. E nell’ultimo periodo aveva lasciato che diventasse un vero e proprio deposito di sporcizia.

Quando ci era tornato con Chiara, dopo la lettura del testamento, Marco aveva cercato subito il segno con gli occhi. Molti anni prima si era abituato a concentrarsi sulla sua forma come ora si concentrava sui suoi libri. Mentre stava accucciato sul letto, lì in quel salotto che allora era la camera dello zio, nella sbrecciatura dell’intonaco cercava la conferma che le cose potevano cambiare – che poteva agire. Anche se poi non faceva niente, era quel segno che lo aiutava a resistere.

Da quando l’aveva lasciato sul muro, lo zio si era fatto più cauto. Era successo in un pomeriggio senza luce, in ogni senso. A scuola aveva sbagliato un compito di grammatica, paralizzato dal modo in cui la ragazzina che gli piaceva confabulava con gli altri, guardandolo ostentatamente e ridacchiando; e una volta arrivato in via San Felice non era riuscito a convincere lo zio a tirare fuori i colori. Provava un senso di perdita totale, che il suo piccolo spirito era incapace di sopportare. E perdita significava sporcizia – la vita che si copriva di muffa e andava a male come le cose lasciate troppo in frigo. Per questo forse mangiava così tanto: non sopportava di saperle dietro lo sportello, le immaginava decomporsi secondo dopo secondo. Era un bambino grasso, e suo zio glielo ripeteva spesso mentre lo spogliava per imporgli il sonnellino. “Ecco il ciccione” diceva passandogli la mano sottile e troppo bianca sulle cosce. Lo aveva fatto anche allora, prima di stendersi accanto a lui. Ma quel pomeriggio, appena lo zio aveva cominciato ad avvicinare la mano al suo fianco, facendo finta di muoversi in dormiveglia o di sistemargli le coperte, per la prima volta Marco era scattato su. Forse lo aveva fatto infuriare il tentativo ormai così patetico di fingere. Ma probabilmente non sarebbe scattato, se non avesse provato un senso di perdita così totale: se aveva perso tutto, infatti, cosa poteva mai temere?

Aveva ruotato il corpo mettendo i piedi fuori dal letto, facendo forza sul muro per sgusciare via. Il movimento era stato efficace ma goffo: la lampada a stelo, urtata dal suo malleolo, aveva grattato per un tratto la parete. E anziché rimetterla a posto, preso da un misto di panico e rabbia, lui l’aveva agitata peggiorando lo sgorbio e staccando un pezzetto di intonaco. Lo zio si era alzato dal letto furibondo; ma incrociando i suoi occhi aveva subito cambiato tono. “Vestiti se non dormi” gli aveva detto seccamente, come chi vuole cambiare argomento in fretta. “Lascia stare lì, fa lo stesso. Vai di là che sistemo io, è ora di disegnare”. Ed era andato in sala a preparare i fogli coi pastelli e le chine.

Quel giorno, mantenendo la maschera della dignità offesa, era stato un insegnante severo. Nel dargli istruzioni metteva tutta la concentrata intensità che gli era stata negata in camera da letto. Ma Marco era all’altezza di quella severità. Sentiva che delle lezioni poteva fare una barricata contro le altre intenzioni dello zio. Quindi ci metteva tutto l’impegno, che a mano a mano che si allentava la tensione si prolungava in un estro gratuito: così diventava giorno dopo giorno un disegnatore. Spesso entrava in San Felice con una domanda pronta sul lavoro di illustratore, per tirare le cose in lungo e ridurre al minimo il tempo da passare a letto. A volte funzionava. Ma di solito suo zio rispondeva svogliato, con l’occhio alla camera. “Dopo, dopo”, diceva spingendolo. “Ora bisogna riposarsi”. La pennichella era il momento da cui sperava di più, in cui le regole per il nipote nascondevano perfettamente la sua voluttà. Le enunciava con una precisione quasi addolorata; ma non riusciva a nascondere il compiacimento, l’impazienza che saliva dal timbro stridulo. “Sei coperto bene?”. Iniziava sempre così. E lo tastava tutto, cominciando a massaggiargli i piedi mentre cercava invano di nascondere la sua frenesia ridicola dietro l’espressione aggrottata da medico che fa una visita.

Tutto era cominciato quando lo avevano iscritto alla quinta delle Maestre Pie. Suo padre per lavoro aveva avuto a che fare con la direttrice, e si era convinto che in quel periodo, essendo così grasso e introverso, Marco si sarebbe sentito più protetto in un posto del genere. Solo che era lontano e collegato male con gli autobus, e spesso né lui né sua madre potevano venirlo a prendere in orario. Allora lei aveva pensato che in quei casi il figlio avrebbe potuto percorrere da solo la breve strada che separava la scuola dalla casa del fratello. Lì avrebbe potuto mangiare e fare i compiti con lo zio, aspettando che venissero a prelevarlo. In realtà allo zio avevano chiesto la disponibilità molto vagamente, e lui vagamente l’aveva data. Così il primo giorno che era capitato in via San Felice, dopo avere chiamato invano da una cabina e scampanellato tre volte ripetendo il proprio nome, Marco aveva interrotto una scena intima. Questo naturalmente l’aveva capito molto tempo dopo. Lì per lì aveva solo visto suo zio in vestaglia (abito per lui esotico, dato che in casa non si usava) e una signora che faceva un sorriso sforzato mentre veniva ad accarezzargli i capelli. Già allora, però, quella coccola gli era sembrata interessata: una mossa per spostarsi verso la porta. Perché intanto suo zio andava avanti e indietro come un portiere in attesa del tiro, e sembrava volerle sbarrare l’uscita. La signora aveva i capelli neri cortissimi, era quasi senza seno e molto bella, con qualcosa di malizioso nello sguardo. Aveva in mano un mandarino, di cui mordeva uno spicchio lasciandone metà fuori dalla bocca. Marco l’avrebbe rivista molti anni dopo alla Fiera del Libro per ragazzi, quasi uguale, solo con il caschetto bianco. Nel frattempo aveva scoperto che era Olivia Barca, una delle più popolari scrittrici italiane per bambini, di cui anche lui aveva letto un libro regalatogli dai genitori per Natale. Nel frattempo aveva anche capito che quel giorno Olivia cercava un modo per lasciare suo zio, e che lui era stato una scusa perfetta e un perfetto scudo. Soprattutto, senza saperlo, aveva fatto di Marco un ostaggio da gettare in pasto all’amante in cambio della sua fuga.

“Va bene, allora vattene. Vai via. E tu…” aveva detto infatti lo zio brusco – ma a quel “tu” lo aveva guardato, e intanto che cercava le parole il suo sguardo pieno di rabbia repressa si era come addolcito: aveva manifestato prima perplessità, poi stupore, quindi una specie di curiosità melliflua, mentre i solchi del viso troppo magro, confusi con quella barba leggera e come sporca, si spianavano rapidamente. “…Tu saluta questa signora” aveva proseguito dopo quel lungo attimo. “A proposito, mi dicono che sei un disegnatore. Lo è anche lui, sai?”. Ma la donna non aveva abboccato a quell’ultima esca. Si era limitata a carezzare il mento a Marco, gli aveva detto che aveva gli occhi del colore dello zio ma più belli, gli aveva premuto sulle labbra uno spicchio di mandarino e si era infilata il trench appoggiato sulla sedia. Allora lo zio era parso rassegnarsi, e ostentando di ignorarne il saluto era tornato a gettargli addosso quello sguardo curioso. “Adesso ti preparo qualcosa, altro che mandarini” aveva detto. “Cosa mangi di solito a merenda?”.

Da allora c’erano state molte altre merende. Probabilmente lo zio aveva chiesto ai suoi di non fare i salti mortali per prelevarlo da scuola o da casa sua: se ne sarebbe occupato lui fino a sera. A volte lo veniva perfino a prendere all’entrata del grande palazzo neoromanico delle Maestre Pie, e anche alla piccola succursale di via Ca’ Selvatica. Oppure lo aspettava in San Felice, ma con impazienza crescente, tanto che appena Marco compariva sulla rampa gli chiedeva stizzito perché aveva tardato tanto e se si era fermato da qualche parte, cominciando a torturarlo con un interrogatorio a lui incomprensibile.

Ma a volte la stizza non era vera. Nascondeva la volontà precisa di sgridarlo, di indebolirlo per renderlo più docile ai suoi ordini. E debole, del resto, in quel periodo lo era già. Si era sviluppato prima dei compagni, e aveva l’aspetto di un adolescente imprigionato in una pinguedine infantile, l’occhio velato da una tristezza di bestia mansueta che non sa quale sia il suo posto nel mondo. Aveva lineamenti ancora indefiniti, che a seconda della situazione e della luce potevano apparire quasi graziosi o ridicolmente brutti. Si sentiva ingombrante, ripugnante. Per questo ridevano la ragazzina e gli altri, in quei giorni. O forse no, ma lui lo credeva. E da quando aveva iniziato a passare i pomeriggi dallo zio gli sembrava che ridessero di più, che il loro riso crescesse insieme alla sua vergogna fino a screpolargli la pelle. Quando i suoi gli chiedevano come andava in San Felice, Marco diceva sempre “bene”, rispondendo a monosillabi; ma una volta che sua madre lo aveva guardato in modo più penetrante aveva tirato fuori in fretta un disegno, e da lì in poi la conversazione si era indirizzata sulla fortuna di avere un maestro così tre o quattro volte a settimana “senza spendere i soldi di un corso”, come diceva suo padre.

A Marco non dava tanto fastidio che lo zio lo toccasse; piuttosto, non sopportava il fatto che pretendesse qualcosa. Lo umiliava sentire il suo sguardo addosso ovunque. Lo soffocava la richiesta continua, quel fiato di tabacco che poteva arrivare in ogni momento da ogni parte. Sentiva che sotto quella pressione il suo corpo si rattrappiva, le cosce grasse si piegavano a proteggere il ventre, e le ginocchia si toccavano in una postura femminea. E più si rattrappiva più gli passava la voglia di muoversi, appunto perché si vergognava di quella postura. Così, in un circolo vizioso, gli passava la voglia di fare qualunque cosa, anche fuori dalle stanze di via San Felice. Gli sembrava che tutti si aspettassero da lui qualcosa che non sapeva fare. E in effetti aveva cominciato a diventare ottuso – a sbagliare i teoremi e i temi, oltre ai tiri in porta. Solo di disegnare aveva voglia, sia con lo zio che da solo. Capitava, è vero, che lo zio mischiasse le carte e usasse il disegno machiavellicamente: ad esempio che lo seguisse nel bagno dicendogli di lasciare la porta aperta mentre gli faceva uno schizzo, e magari s’interrompesse per provare a pulirlo, o che gli insegnasse la storia dell’illustrazione sfogliando con lui dei libri mentre lo accarezzava. Ma bastavano quei libri a farlo sentire forte: appena apparivano, trovava l’energia necessaria a sgusciare via dalle sue mani; e subito, prima che lo zio lo riafferrasse, si rifugiava nel cerchio incantato della scrivania, prendeva una matita e cominciava a copiare sul foglio un omino di Tofano o un paesaggio di Roberto Innocenti. E lo zio smetteva di dargli fastidio, come se lì riconoscesse un limite.  

Così erano andate avanti le cose per mesi. Poi era finito l’anno alle Maestre Pie. Erano venute le vacanze, e anziché proseguire dalle suore Marco era stato iscritto a una scuola media pubblica vicino casa. C’era stata una discussione tra i suoi, a questo proposito. Lui si trovava nel soggiorno, e le loro voci gli arrivavano dalla cucina. Mentre sua madre insisteva per la scuola pubblica, Marco sentiva rimbombare lo stesso dibattito dentro di sé. Fino a poche settimane prima sarebbe stato sicuro di voler andare via. Ma da un po’ di tempo era diverso. Quando arrivava in via San Felice, spesso trovava lo zio annoiato. Con un’occhiata di disgusto gli diceva “guàrdati, che schifo di ciccione”, con una brutalità fredda lo toccava e bagnava, e poi andava via sbattendo la porta, senza degnare i disegni di uno sguardo. La verità era che Marco avrebbe voluto un ultimo pomeriggio in cui affrontare il vecchio corpo a corpo, riuscire a spuntarla, lasciare sul tavolo dello zio un carboncino perfetto e poi sparire per sempre.

Invece non c’era stato nessun addio. Da allora, semplicemente, aveva rivisto lo zio di rado e solo con i genitori. Ci andavano ogni tanto, dopo un gelato in centro la domenica, e gli sembrava che i suoi occhi infossati vagassero tra lui e sua madre con un’espressione di delusione e allarme insieme. Poi erano finite anche le passeggiate in famiglia. Marco era diventato un ragazzo magro e atletico. In centro andava da solo, e non passava quasi mai da via San Felice. Anni dopo aveva saputo che lo zio era malato. Più volte sua madre gli aveva proposto di fargli visita, ma Marco si diceva sempre impegnato. Ci era andato verso la fine. Era al terzo anno di accademia, e aveva appena stampato il suo primo albo. Ricordava lo stupore nel vedere quel vecchio perfettamente rasato, la pelle tirata e quasi trasparente della faccia che sembrava quella di un arto pronto per la sala operatoria, e sotto, come in un collage, il ventre gonfio con il sacchetto dell’urina al fianco. Quando si era accorto che Marco teneva in mano un pacchetto aveva alzato lo sguardo dalla sedia a rotelle con avidità improvvisa, ma aprendolo e vedendo il libro si era subito spento. Mentre lo sfogliava a testa bassa, Marco aveva visto il suo corpo sussultare. Allora si era girato verso il muro, pensando fosse una risata, e per non sentirla era andato alla finestra. Stavano legando i lucchetti ai tavoli della pizzeria. Era rimasto un po’ lì, a immaginare i gesti del cameriere incastonati in una sequenza di vignette, poi era tornato al centro della stanza, ma sempre evitando di incrociare il viso del moribondo. E così aveva raggiunto la porta, salutandolo per l’ultima volta senza guardarlo.

L’albo era l’unico che non aveva più aperto, e l’unico che mancava dalla scatola. Non ne aveva più neanche una copia. Continuava a vedere quel sussulto, ogni volta che ci pensava, e si chiedeva perché era stato tanto stupido da non verificare se fosse per davvero una risata. In fondo sapeva che l’albo era buono; eppure da quel giorno aveva avuto paura di scoprire che si trattava di un’imitazione goffa dello stile di suo zio. A niente era valso un biglietto di complimenti di Olivia, che aveva trovato quel libro per caso tra le proposte dei giovani illustratori in Fiera, senza sapere che lui era il nipote del suo vecchio amante. Marco l’aveva cercata solo qualche anno più tardi, quando ormai nell’ambiente era abbastanza conosciuto. Olivia era una di quelle donne a cui i segni del tempo non tolgono niente della carica erotica, perché questa carica dipende da un misto di lineamenti, carattere e movenze che resta misteriosamente uguale sotto la ragnatela delle rughe e le deformazioni della carne. Riaccompagnandola dopo una cena alla Fiera, Marco era stato quasi certo di poterla avere. Poi si era accorto che lei se n’era accorta, e che anziché esserne lusingata la cosa sembrava rattristarla. Allora aveva capito che sulla sua faccia si leggeva la sicurezza volgare di potersela fare perché era vecchia. Ma c’era dell’altro. Poco prima Chiara era passata a quella cena a portargli un mazzo di chiavi, e ora lui si accorgeva che col suo corpo androgino, col suo modo di muoversi dando l’impressione di avvicinarsi e allontanarsi insieme dall’interlocutore come in una spirale, la sua ragazza somigliava molto all’illustratrice, sembrava quasi sua figlia; e sentiva che entrambi, lui e Olivia, mentre camminavano verso l’appartamento di lei ci stavano pensando. Tutto si era tristemente chiarito senza bisogno di parlare. Così dopo un breve saluto Marco era tornato a casa in fretta, tremando nella sera calda di aprile, e avvertendo in mezzo al corpo il sesso come una cosa morta, ripugnante. Risentiva la risata di lei a tavola, e gli sembrava che gli si infilasse nelle pieghe della pelle. Chiara aveva a volte un modo di ridere molto simile – e così potente, così capace di ferirlo che il suo ricordo non era meno efficace della sua presenza.

Anche in quel salotto semisgombro, infatti, Marco provava ora la stessa sensazione di gelo al basso ventre. Si è riseduto per terra sul marmo padovano, perché almeno il freddo si estendesse a tutto il corpo, e ha frugato nella scatola più vicina, quella che poteva raggiungere limitandosi ad allungare il braccio. Era la scatola dove aveva messo gli album di foto. Nell’ultimo c’erano quelle di Chiara a vent’anni. Del 2003, del 2005… foto novecentesche, ancora, di prima dell’epoca smartphone. Stampate da lui. E in fondo alla scatola, ecco la sorpresa che le aveva preparato: l’orecchino che aveva ritrovato la sera prima dopo aver spostato il divano. L’aveva cercato a lungo, Chiara. Era sempre frettolosa nel toglierli, e di solito lo faceva con un gesto automatico, senza accorgersene, dopo averli torturati un po’. Lo faceva spesso, quando era arrabbiata o sovrappensiero: si stringeva le orecchie, se li passava e ripassava tra le mani, si allontanava brusca lasciandoli su una mensola o un cuscino.

Lo faceva soprattutto negli ultimi tempi, subito prima di andarsene. Marco la ricordava così, con la testa piegata e la mano sul lobo, al ritorno da una festa nella casa di amici che sembravano soddisfatti della loro vita insieme. Intanto lui, appena entrato nell’appartamento di via San Felice, tornava a barricarsi in salotto dietro i suoi disegni. Lei allora cercava un pretesto per litigare; poi però faceva marcia indietro, reprimeva la rabbia, provava a sedurlo sorridendo. Ma più i suoi tentativi diventavano apertamente machiavellici e indifesi, più lui sentiva montare a sua volta la rabbia per quella richiesta. E il corpo gli si gelava. In quel periodo, davanti alla sua prima vera fidanzata, pensava dipendesse dal loro rapporto. Poi aveva scoperto che gli succedeva quasi sempre, dopo le prime settimane di fusione fisica dell’innamoramento; e per ritrovare quella fusione c’era un solo modo: iniettare nella relazione una dose sempre maggiore di violenza. Allo sguardo implorante della compagna poteva riavvicinarsi unicamente con il sadismo; e in ogni caso, dopo quel ritorno effimero di fiamma andava tutto comunque a rotoli.

Ma non sempre alla stessa maniera. Era andata diversamente con Daria, di cui ha sistemato le poche cose rimaste lì in un sacchetto, allineato con altri sei o sette sul piano della cucina. Quei sacchetti contenevano i pochi effetti personali delle altre donne passate negli anni in San Felice. Ora le relazioni che aveva avuto dopo Chiara gli sembravano tutte casuali, una serie di equivoci su cui aveva insistito fino allo squallore. E Daria era stata il culmine di quella confusione.

Si è alzato, ha aperto il suo sacchetto, ha tirato fuori le kickers. Le ha alzate in aria, tenendole con due dita infilate nei buchi, e le ha annusate cercando un odore che non fosse di cuoio. Le scarpe con gli occhi, le chiamava lei. Due settimane prima si era rifatta viva scrivendogli su WhatsApp che le rivoleva indietro. Marco sapeva che non le interessava davvero riprendersele: glielo aveva scritto solo per ristabilire un contatto. Si è giustificata dicendo che non voleva che lui facesse con quelle scarpe “come con la sottoveste di Alice”. Alludeva alla sottoveste di seta bordò che Alice aveva dimenticato da lui una delle poche notti che avevano passato assieme, a distanza di anni l’una dall’altra. A Daria piaceva molto, e se ne era appropriata. Ma addosso a lei non sembrava più elegante: era come se una bambina (una bambina alta, cresciuta troppo in fretta, però col volto sfuggente di settimina) si fosse messa il vestito della madre. Perché era rimasto tanto tempo con lei, malgrado avessero così poco da dirsi? Ma non erano le parole a legarli, e a causargli una vertigine fisica appena tentava di troncare il rapporto. Il fatto è che Daria incarnava una manifestazione iperbolica della sua ansia, anzi del suo masochismo. Aveva creduto di poterla avere per una notte, ma quella notte si era sentito colpevole. Peggio: il suo desiderio gli era sembrato inconfessabile, dopo un corteggiamento da cui era chiaro che lei stava cercando di sistemarsi. Così aveva cominciato ad assumere il ruolo improbabile dell’innamorato; e quando pochi mesi prima, con molta fatica, era riuscito ad allontanarla, si era lasciato devastare dai suoi ricatti da stalker, come se la sua possibilità di sopravvivere fosse legata all’immagine di sé che Daria si sarebbe portata dietro. Perciò accettava che lo trattasse non come un fidanzato ma come un padre arrendevole e perverso. Daria aveva intuito che Marco si sarebbe lasciato trascinare in quel gioco al massacro potenzialmente illimitato, che sarebbe stato disposto a farsi distruggere pur di difendere una finta nobiltà e non ammettere che si era sbagliato – ovvero che aveva giocato subito la posta del grande amore, promettendo un’accoglienza illimitata, solo per eccitarsi ed eccitarla. Forse persino la vendita della casa era un atto dimostrativo, pensava adesso, un’autoamputazione destinata a dimostrarle che lei sul serio aveva segnato e chiuso un’epoca come un grande amore. Così Marco le aveva risposto che certo, avrebbe spedito le kickers. Ma lei, come si aspettava, aveva ribattuto che sarebbe venuta a prendersele. E a quel punto aveva dovuto dirle del trasloco, che prevedibilmente Daria aveva subito riferito a sé: “traslocando? Stai traslocando?! Ma cosa dici? Da quella casa… da quella casa che ho cercato di domare in ogni modo, che doveva essere la nostra casa… E ora tu, tu…”.

Era strano: ogni messaggio di lei suonava falso, eppure conteneva in sé una verità inconfutabile. Era il suo dramma – il loro dramma. Tutto era incongruo nella loro storia, dalla futilità dell’inizio alla fine morbosa. Ma in mezzo, in quel decorso, stava la verità della loro dipendenza reciproca, del loro istinto di usare l’altro per non ricadere nel nulla. A Marco Daria sembrava una sua caricatura. In lei aveva cercato di salvare e cancellare sé stesso, ciò che di sé stesso lo straziava. Solo che Daria non aveva i suoi pudori: la sua psicologia da drogata era purissima, la sua volontà di aggrapparsi a qualunque cosa pur di essere riconosciuta dal mondo non conosceva ostacoli. Così gli aveva raccontato la storia di quella vicina che da piccola la masturbava: presto, con fretta nauseante, come ci si rende importanti da bambini.  

L’aveva portata a casa dopo un incontro in un caffè seguito a poche chiacchiere su Messenger, dove Daria l’aveva contattato parlando di amici comuni. Era un periodo in cui lui era particolarmente insicuro: non scopava da parecchio tempo, e le ultime volte aveva avuto qualche défaillance. Temeva di fare brutta figura; e sentendo crescere un’erezione, mentre salivano la scala di via San Felice, aveva pensato che l’unico modo per mantenerla era essere subito brutale. Perciò dopo aver aperto la porta di casa aveva saltato tutti i passaggi, e aveva afferrato Daria trascinandola sul pavimento. “Perché hai voluto fare così?”. C’era qualcosa di allarmante nel suo sguardo, mentre poco dopo pronunciava queste parole tirandosi su le mutandine; e Marco aveva quasi avuto paura che volesse accusarlo di stupro. Le volte successive lei aveva pianto spesso dopo l’amore. O lo aveva fatto già alla prima? Comunque quel pianto sembrava venire da una disperazione senza fondo. In quei momenti il suo viso, che poteva sembrare sia attraente che equino, incompiuto a trent’anni come quello di un’adolescente, gli provocava una specie di compassione pure senza fondo. Ma altrettanto spesso, dopo essersi rannicchiata per un po’ in un angolo, Daria si sentiva stranamente euforica; allora diventava tirannica, e lui le immolava tutto. Compreso il lavoro. La sua compagna, sospesa nel limbo tra l’università e un futuro ignoto, non ce l’aveva ancora, e ne era gelosa di una furba gelosia contadina. Mettersi alla scrivania con Daria intorno era impossibile, lo disturbava nei modi più sottili: così era costretto a lavorare quando lei dormiva. E durante il giorno, se non girava per casa strillando, riusciva a torturarlo con la sua sola presenza fisica. Sembrava un emblema della Vanità del Tempo: passava ore a guardare sul cellulare siti di vestiti e villaggi vacanze, scalciando ogni tanto coi piedi, di solito con la sottoveste di Alice addosso.

Ma era poi di Alice? No, gli veniva in mente adesso, non era di Alice. Un giorno si era ricordato di avere sbagliato l’attribuzione. Passavano così tante femmine da lì, nel periodo dopo Chiara e prima di Daria. Insegnanti con cui faceva laboratori, studentesse, donne con l’aria patetica di ragazzine conosciute su Facebook, dove lo taggavano mentre leggevano un suo libro al figlio. E lui era confuso. Ma non lo era sempre stato, in fondo? Non aveva gettato su tutto un alone di confusione proprio perché era indistinguibile dal desiderio?

Era di Claudia, sì, se lo era ricordato dopo molto tempo. Una volta era entrato in camera mentre Daria s’infilava la sottoveste, dandogli le spalle, e quando si era voltata aveva avuto un attimo di sorpresa, perché il suo cervello si aspettava Claudia. Avrebbe quasi voluto scagionare Alice; ma sarebbe sembrata una vanteria gratuita, e già Daria lo sfotteva per tutti gli oggetti e i nomi che aleggiavano su quella casa.

Per due o tre anni non era riuscito a fermarsi. Un rapporto dopo l’altro. E adesso gli sembrava di ricordare che in quel periodo anche un’altra donna fosse stata scossa da un singhiozzo interminabile, di là in camera, girata contro la tenda marrone che proteggeva la grata. Chi era? A chi apparteneva, quel corpo tremante che rivedeva come dietro un vetro opaco, e che gli si avvinghiava chiedendo di sparire dopo aver mendicato i colpi?

Antonella, ecco chi era. Sì, doveva essere lei. Come ha fatto a dimenticare tutto così in fretta? Dopo i primi scambi in chat lui le aveva proposto un incontro in terreno neutro, ma lei aveva ribattuto che preferiva “andare a casa delle persone”. In San Felice, concluso un rapido giro di perlustrazione, era entrata dritta in camera e l’aveva tirato dentro. Poi gli si era buttata addosso, caricando con la testa contro il suo petto, quasi per impedirgli di guardarla. Lo aveva masturbato a lungo, quella volta, spiandolo con un’espressione imbarazzante, da etologa curiosa, e rifiutandosi di farsi toccare, anzi impedendogli persino di toccare sé stesso. Quando finalmente era riuscito a stringerla, si era accorto che bastava una piccola pressione perché Antonella cadesse in uno stato convulsivo; e aveva poi scoperto che accettava di piegarsi ai suoi desideri solo se lui la schiacciava giù con violenza. Allora si arrendeva quasi con giubilo, si metteva carponi come una cagna e lo leccava. “Sono un’isterica, una strega” diceva di sé. “In un’altra epoca mi avrebbero bruciata”. Tutto per lei passava dal suo corpo galvanico: solo con quello capiva le cose. A volte per strada, davanti a un passante, o ascoltando un banalissimo aneddoto, iniziava a tremare come una medium – come se vedesse svolgersi davanti agli occhi un destino. “I nostri genitori muoiono di vecchiaia” gli aveva detto una notte mentre lui le parlava della sua infanzia. “Ma noi invece no, vero? Noi moriremo di morte violenta”. E aveva pianto dello stesso pianto inconsolabile di Daria. Poi era andata a fumare una sigaretta alla finestra. Quella notte avevano parlato a lungo, distanti. “Dovevo immaginarmi che eri così” gli aveva detto, e lui aveva capito che intendeva a letto. “E tu?” aveva aggiunto poi. “Avevi immaginato che ero così?”.

C’era qualcosa in Antonella, forse quel suo controllo rabdomantico, che mentre lei sfogliava i suoi albi lo aveva indotto a confessarsi. E lei aveva ricambiato dicendogli che dal giorno del suo settimo compleanno non festeggiava più gli anni. Lui aveva aperto la bocca, allora; però l’aveva subito richiusa, perché sapeva che come nel sesso, anche lì non avrebbero contato le sue richieste: doveva aspettare che fosse lei a decidere se e come lasciargli intravedere il filo della storia.

Ma a raccontargli esplicitamente per prima una storia è stata Alice. Quell’uomo da cui la mandavano ogni giorno alle scuole elementari. Un parente, non aveva voluto dire quale. Quella volta che era corsa a casa, dopo, e per la fretta di fuggire il più lontano possibile da lui era caduta sbattendo lo sterno sui gradini dell’ingresso, davanti a suo padre che dal rumore aveva creduto che si fosse spaccata qualcosa.

Erano lì, sul divano. Lei parlava, parlava senza interruzioni, continuando a mettere le mani nelle fessure tra i cuscini. E anche quella volta Marco aveva avuto l’impressione sgradevole che nel raccontare una storia vera la sua amante mostrasse una specie di fierezza che la costringeva a modulare un tono non suo, in qualche modo falso. Poi, per quanto casuali sembrassero gli incontri, le storie si erano moltiplicate. A un certo punto, nella penombra di via San Felice, vedeva sempre una donna mezza svestita che apriva la bocca; e una variante della storia, come lei era una variante della stessa ombra femminile, le saliva alle labbra dal fondo dell’infanzia.

Chiara era l’unica che non avesse una storia da raccontare. Mentre ricordava, Marco ha ripreso in mano l’album e lo ha riaperto sulle foto della loro prima vacanza insieme. Lei con i capelli crespi al vento tra le grotte di Matera. Lei nell’acqua blu dello Ionio, con la testa rovesciata indietro a scrollarsi le gocce, a ridere, a farsi penetrare dal sole. Cosa sarebbe successo se fosse rimasta con lui, se lui non ne avesse fatto una sorella che era incapace di toccare?

Ha sfogliato ancora l’album a caso, e si è trovato davanti a una foto di Chiara che guardava nel vuoto, sul divano, un po’ come un Hopper. È stato quello sguardo a ricordarglielo. Un giorno, poco dopo essere entrati in San Felice, si erano buttati sul divano nuovo a fare l’amore, ridendo perché i loro corpi sudati s’incollavano alla finta pelle. Poi avevano dormito un po’. Al risveglio Marco si era ritrovato zuppo e pieno di angoscia. Non capiva da dove venisse, sapeva solo che non poteva sopportarla. Allora si era girato verso di lei, e con un gesto brusco l’aveva rovesciata. Con le dita le aveva allargato il culo, e pesandole sopra per impedirle di sfuggirgli l’aveva sodomizzata. Chiara si era agitata qualche secondo, ma poi era rimasta ferma: il corpo si era mosso solo sotto i suoi colpi, sbattendo a tratti contro il bordo del bracciolo. Marco era venuto presto, e si era calmato. Ma appena si era voltato a guardarla, aveva visto quegli occhi fissi nel vuoto. Per farli sparire aveva provato a carezzarle il viso. Lei non si sottraeva ma continuava a non muoversi, e lo sguardo non cambiava. “Cosa c’è?” le aveva chiesto alla fine per essere rassicurato, assolto. “Niente di particolare” aveva risposto, ed era sgusciata via per andare a lavarsi.

Non era successo niente di speciale, dopo. O forse sì. Non era stato poche settimane più tardi che lui aveva cominciato a essere nauseato dal corpo di Chiara? Non era stato allora che lei aveva cominciato a chiedergli con uno sguardo implorante ciò che per orgoglio non avrebbe saputo chiedere a parole? Una notte si era perfino messa in piedi accanto allo specchio, e per la prima volta aveva scostato esibizionisticamente i bordi dell’ano in un invito che lui, umiliandola, non aveva raccolto.

Adesso questo pensiero lo eccitava. Ha aperto il frigo, ha preso il cartone col succo di mela, ha cercato un bicchiere nel sacchetto e l’ha riempito. Poi si è steso sul fresco del marmo, si è stirato e ha iniziato a masturbarsi.

Poco dopo si è addormentato. Lo ha svegliato il campanello: le cinque e mezzo. È andato al citofono, e in bagno a sciacquarsi. Era appena uscito quando si è ritrovato davanti Chiara.

“Scusa” ha detto. “Sono un po’ indietro”.

Lei ha sorriso.

“Non preoccuparti, me lo immaginavo. Se vuoi ti do una mano, mi sono presa un permesso dal lavoro apposta”.

“Grazie”.

“E di che? Lo sai che l’ho promesso a Peppe che entriamo domani. E poi te lo devo, senza di te saremmo ancora in giro per agenzie. Sessanta metri a questo prezzo non li avremmo mai trovati in centro”.

Hanno continuato a parlare, mettendo gli ultimi libri nei cartoni. A un certo punto Chiara si è avvicinata al graffio.

“Peppe imbianca lui?”

“No, viene un nostro amico”.

Ha passato la mano sul graffio, senza guardarlo, poi è tornata a chinarsi su una scatola. Adesso era vicinissima, e Marco si chiedeva se sentisse l’odore dello sperma. Si stava eccitando di nuovo.

“Ah, mi dimenticavo, guarda cosa ho trovato” ha detto cercando di calmarsi, e dalla scatola degli album ha estratto l’orecchino.

“L’orecchino con l’elefante! Mamma quanto l’ho cercato, dov’era?”.

“Sotto il divano”.

Si sono guardati per un attimo, e hanno ricominciato a sistemare i libri.

“Sei sicuro di trasferirti a Santa Viola?”.

“Sarà un ritorno, lo sai che ci sono cresciuto”.

“Ma non eri da solo. Anche se sì, lo so, non dire niente, lo so meglio di te che sei fatto per stare da solo. Ma anche no. E sì. E no. E…”.

“E tu?”.

“E io cosa? Naaa, non attacca. A che ora viene il camion domattina?”.

“Verso le sette. Nel primo pomeriggio avremo finito di sicuro”.

“Anche qui abbiamo finito. Andiamo di là? Ti do una mano a smontare il letto”.

Hanno sollevato il materasso, lo hanno appoggiato al muro, poi hanno cominciato a svitare la cornice.

“Quante botte agli stinchi con questa” ha riso Chiara. “Prendi di là”.

Hanno provato a staccare un pezzo, ma non funzionava.

“Ah no ho capito, gira dall’altra parte”.

Marco ha esitato, irritato da quel tono d’ordine che conosceva troppo bene. Chiara non sapeva smontare il letto più di lui, ma doveva sempre ostentare sicurezza e disporre per gli altri. Chissà se lo faceva anche con Peppe. Le due o tre volte che ha visto suo marito gli è sembrato uno capace di arginarla, anche solo perché era così placidamente contento del suo modo di essere che disinnescava in partenza la competizione. Come faceva Chiara a sfogare la sua seduttività con lui? O appariva così serena perché aveva abbandonato quella seduttività come un inganno? Ma era possibile, se soltanto quell’inganno spingeva i tipi come loro ad alzarsi al mattino?

Alla fine per smontare il letto c’era voluto un quarto d’ora buono. Chiara voleva attaccare subito l’armadio, ma lui l’ha convinta ad aspettare. Sono tornati in salotto, hanno bevuto il succo rimasto sul ripiano della cucina con un bicchiere solo.

“Ho un déjà vu”.

“Eh, ma dieci anni fa non c’era proprio niente”.

“Però la luce era la stessa. Sempre giugno, un gran caldo. Ti ricordi che ci siamo addormentati sul pavimento?”.

“Cosa c’è lì dentro?” ha detto Chiara indicando una scatola.

Era quella dove Marco aveva messo i libri dello zio. Si è chinata, ne ha sfogliato qualcuno. Cosa si ricordava dei suoi racconti? Forse le aveva detto quasi tutto; e il peggio è che lo aveva fatto, una sera d’inverno, per giustificare la depressione in cui stava scivolando, e la sua insofferenza a vivere insieme. Anche lui, con una nota falsa e patetica, si era giocato la sua storia vera.

“Avete già deciso come arredare?” le ha chiesto, vedendola indugiare su un albo in cui il bambino gli somigliava un po’ troppo.

Chiara l’ha richiuso con un rumore di porta sbattuta, e si è tirata su.

“Prima di tutto torneremo a cambiare l’ordine delle stanze: dove c’è la camera da letto faremo un salotto, e qui in salotto la nostra camera” ha detto allegra. Poi si è stirata, ha sorriso alla finestra aperta da cui venivano i rumori dei lucchetti, e si è buttata a pancia in giù sul divano.