Cene eleganti

Bisognerebbe investire un po’ più di tempo in aspetti centrali del vivere comune, allenare i sensi, tramortiti da troppi stimoli grossolani.

1.

Cosa resta dei complessi rituali con cui un tempo si veniva invitati a cena? In apparenza, quasi niente; ormai è tutto più informale. A ben vedere, però, e senza perdersi in sottigliezze eccessive, la risposta a questa domanda dipende dalla selettività del contesto in cui si è accolti. Non appena si comincia a percepire che l’ambiente conta, infatti, ricominciano subito a contare anche i dettagli: le note sui colori e sull’arredo, la tovaglia, perfino l’argenteria, di solito denigrata. Le osservazioni francamente ridicole sul rispetto del bon ton nel corso di una cena fra amici a base di salumi – i meravigliosi prodotti tipici locali – lo sembrano un po’ meno quando la padrona di casa, in piedi, illustra il menu con inedita solennità: non perché l’eleganza faccia sempre la differenza, bensì perché, secondo una verità universalmente riconosciuta, rivestire la forza di eleganza si rivela sempre una mossa vincente.

 Carlo aveva risposto senza esitazione; con Giovanni i rapporti erano ottimi, almeno quanto l’andamento dell’azienda di cui si occupava da poco più di tre mesi, una spin off universitaria nel settore del legno. Sandra l’aveva presa in modo diverso.

 «Senti, ci mangio insieme ogni giorno, dov’è il problema?»

 «Il problema è che non sei a casa sua, e che non cucina sua moglie».

 «Beh, lui dice che a Silvia piace cucinare, quindi?»

 «Quindi questa volta sarai a casa sua, non in un luogo neutro».

 «E allora? Con me si è sempre comportato da amico, direi. Certo, è il responsabile, ma mi stima, cerchiamo di lavorare insieme allo stesso progetto».

«Ecco, appunto, lui è il capo. E questa sera andremo a casa sua. Pensi che ti voglia offrire una promozione?».

«Che assurdità. È del tutto prematuro».

«Mah, i film americani in fondo servono a questo, a dirti che se il capo ti invita a cena vuole farti capire una di queste cose: o che puoi diventare uno come lui, o che non lo diventerai mai».

«Esagerata. La questione non è così semplice: in un film hai un’ora e mezza per far tornare i conti, nella vita non è che gli inviti siano sempre orientati a ottenere un risultato. Si può anche perdere del tempo insieme, cercare di conoscersi, di divertirsi. Anzi, anche pensando al lavoro, le idee migliori mi vengono proprio in queste situazioni».

«Quindi ci invita perché ci trova divertenti, anche se non mi ha mai vista».

Per un istante Carlo fu attraversato dall’idea di mettere la cravatta, ma tornò in sé. No, si disse, come al lavoro: una giacca e una camicia basteranno. Poi ripose:

«Beh, che sei simpatica lo sanno tutti».

«Sì, bravo. E comunque sai che non mi sento a mio agio in queste circostanze: magari mi tocca parlare tutta la sera con la moglie che ha in mente solo i corsi di cucina».

«Silvia è laureata in lingue».

«Sì, ma questo non significa niente».

In effetti, lavorava da casa. Faceva per lo più traduzioni tecniche dal tedesco, ma da quando l’azienda era cresciuta – gli aveva detto Giovanni – vi si dedicava con più serenità. Carlo sapeva perfettamente che quello editoriale non è un mondo così sereno. Dunque, ora accettava meno incarichi.

2.

Giovanni e Silvia abitavano al terzo piano di uno stabile ristrutturato da una decina d’anni, ma la vera casa ce l’avevano in montagna, in un piccolo paese a trentadue chilometri su una strada statale un po’ tortuosa. Una villetta unifamiliare con stufa a pellet che accedevano a distanza, da un’applicazione del cellulare. Salivano nel fine settimana.

Dopo un quarto d’ora di giri nell’isolato, Carlo trovò un parcheggio. Un colpo di fortuna, nella stessa via De Gasperi, a una ventina di numeri dalla loro meta. Così in un attimo furono dentro.

Giovanni venne ad accoglierli: «Eccovi finalmente».

«Piacere», fece Sandra, aggiungendo alla stretta di mano un abbraccio discreto.

Silvia si affacciò dalla cucina, con grembiule nero sopra l’abito color ciclamino.

I due uomini la fecero breve.

«Scusa, il solito casino dei parcheggi».

«Ma figurati».

L’appartamento era grigio chiaro, un po’ più caldo di quello in voga. Pochi quadri astratti appesi alle pareti, di pittori sconosciuti. I mobili erano quasi neri. Qualche foto dei loro soggiorni in Germania e in Francia, ma niente stampe, tranne un poster in bianco e nero di Audrey Hepburn. Nel complesso, un’atmosfera sobria e familiare.

«Beh,» disse Carlo, «vi siete sistemati bene».

«Sì, ma non guardare me: è tutta opera di Silvia. Guarda, per queste cose non ti immagini neanche: ha una competenza davvero di un altro livello».

A Sandra la casa sembrava soprattutto confortevole, senza eccessi né i dettagli di sfarzo che sospettava. Certo, facendosi più vicina a Silvia, aveva notato che in cucina gli elettrodomestici erano di lusso, ma li avrebbe comprati anche lei, se avesse potuto, e anzi qualche pezzo lo aveva già preso. Quindi, il fatto di condividere una serie di scelte l’aveva un po’ rasserenata, benché non al punto da farle cambiare opinione sull’invito.

Nel frattempo, Giovanni proseguiva le lodi della moglie: «Sai, il fatto che abbia viaggiato tanto per lavoro a Londra e a Manchester, a Parigi, in Sassonia o nella bassa Germania l’ha messa davanti a tutta una serie di soluzioni. Poi mettici che lei ha anche la passione, sa sempre scegliere il meglio. No, dai, è incredibile».

Non che il tono fosse poi tanto diverso da quello che usava quotidianamente in ufficio, ma Carlo vi aveva scorto una lieve alterazione grottesca che si guardò bene dal comunicare subito a Sandra per non riconoscerne troppo in fretta i meriti: questa insistenza nell’esaltare le doti di Silvia sembrava diversa da quella di chi convive da tempo con la propria compagna; per quanto Giovanni non avesse mai dato prova di doti espressive originali, il giudizio era troppo stereotipato e privo di una minima e goffa partecipazione per poterlo ricondurre semplicemente al sentimento che provava per lei: no, qui il timore era un altro e cresceva su un’incertezza di fondo. Mentre lui non temeva di mostrarsi davanti a loro per quello che era poiché il suo ruolo lo qualificava a sufficienza, l’insistenza sulle doti della moglie – ora era passato alla gloria della cucina davanti a Silvia che rideva amabilmente – sembrava indispensabile per rammentare, in modo involontario ma non per questo meno ridicolo, che lei era la sua compagna per manifesta superiorità e che quindi, conseguentemente, anche a lei andavano estese le attenzioni che a lui si dovevano in virtù del suo ruolo.

Carlo si alzò dal divano e si mise a osservare un quadro dove prevaleva il blu: non era propriamente una tela astratta, più un mare che si confonde con una spiaggia animata. Non sembrava di una mano formidabile, ma non era brutto.

«Eh, sì, anche qui avrai capito che la scelta non è merito mio».

«Immagino».

Dare ragione a Sandra? Per quanto il sospetto crescesse, Carlo non era ancora pronto a farlo. Del resto, Giovanni gli aveva dato prova di saper stare allo scherzo; era stato pronto ad approvare più di un suo argomento e meglio ancora aveva accolto una sua intuizione che alla piccola società aveva fruttato un utile non preventivabile. Sì, certo, avrebbe commentato Sandra troppo in fretta, perché più che a vantaggio di tutti, l’intuizione era rivolta soprattutto al suo personale tornaconto. Chissà se invece gli fosse costata dei soldi. Carlo troncò la sequenza di pensieri: non possiamo ridurre tutto ai semplici rapporti di forza.

3.

 Sedendosi a tavola, fasciata nell’abito dalla profonda scollatura, Silvia aveva conservato un portamento quasi solenne, solida eredità di undici anni di ginnastica artistica ma, come se sentisse di dover smentire al più presto questa immagine formale, aveva messo in luce un temperamento ironico, accogliente. In tanta piacevole estroversione per la quale non poteva che provare simpatia, Sandra intravedeva una sicurezza cresciuta giorno dopo giorno in mezzo agli imprevisti. Se era simulata, cosa di cui non voleva dubitare, era simulata al meglio.

Dopo aver mantenuto per tutti gli antipasti il segreto su ciò che aspettava i commensali – fra le finte proteste di Giovanni – Silvia chiarì in breve il resto del menu.

«Sentite, la cena è questa: come d’accordo saltiamo il primo e arriviamo subito a un secondo sperimentale, nel senso che è la prima volta che lo faccio e perciò spero che sia venuto bene: filetto di maiale in crosta di spezie con patate al forno. C’è qualcosa che non potete mangiare?»

Nessuna obiezione.

«Ottimo, allora cominciamo» disse, alzandosi, sempre col grembiule cinto per arrivare in due passi in cucina. Poiché Sandra si mosse subito per chiederle se avesse bisogno di una mano, Giovanni tornò col discorso sul lavoro. Aveva già aperto il rosso di Carlo.

«Non c’è rischio: lo hai visto anche tu. Le questioni vanno più lentamente di quanto sembri. Le case in legno a telaio, ad esempio: tutti dicevano che in due, tre anni sarebbero passate in secondo piano, invece sono ancora qui».

«Beh, quando un progetto semplice funziona, basta aggiornarlo. A lungo andare magari non sarà quello vincente, ma quanto tempo ci vorrà per arrivare a quel punto?»

«Esatto, e noi intanto facciamo il nostro dovere: del resto, a volte fare innovazione significa portare ciò che manca a chi ce lo chiede».

Carlo era ancora un po’ turbato dall’intuizione precedente: perché continuare i discorsi che facevano in ufficio? Così, dato che aveva avuto occasione di riflettere su un punto che a suo modo di vedere non li aveva ancora qualificati a sufficienza rispetto ai migliori fra i loro concorrenti, decise di introdurre l’argomento. Silvia e Sandra erano appena tornate col secondo:

«Non vi metterete mica tutta la sera a parlare di legno, vero?» disse Silvia.

Giovanni le rassicurò con un gesto della mano: «Lascia stare, è solo una questione breve».

Carlo espose ciò che aveva letto nella pubblicazione che Mark Cottid aveva curato quindi giorni prima per Cerbottana, forse l’azienda più in vista fra i nuovi arrivi del settore: niente di straordinario, se non una profonda attenzione al design dei dettagli e un’apertura di applicazione del materiale che riprendeva la lezione dei grandi architetti (Carlo si lasciò andare e fece il nome di Peter Zumthor). In sintesi, era giunto il momento che anche loro si riqualificassero, non perché ne avessero realmente bisogno, ma perché ogni stagione è buona per mostrare la propria qualità.

Giovanni aveva seguito con cenni di approvazione.

«Tutto vero» disse, «del resto io conosco Sepp Thieff, il maestro di Cottid, e come sai è un’autorità in materia. Gli ho visto fare delle cose, anche solo allo stato di semplici schizzi, che faranno la fortuna di chi si troverà a mettere ordine nelle sue carte. Del resto, lui e Cottid hanno sempre lavorato a tali livelli che è fin troppo facile venir fuori con un libro come il loro. Ragazzi, questi sono dei mostri. Tu non te li immagini neanche. Per replicare bisognerebbe avere un’idea che potesse stare alla loro altezza e qui io credo che ci vorrebbero anni».

Carlo l’aveva seguito con attenzione fino a questo punto, che per quanto il capo si sforzasse di farlo sembrare conseguente, contrastava invece con quanto aveva sostenuto lui: se li immaginava benissimo e nel lavoro di realmente nuovo c’era poco. Quanto alla pubblicazione, bastava farne una migliore. Ma Giovanni ormai aveva preso il largo:

«Sarebbe bello, niente da dire, ma dovremmo coinvolgere qualche collaboratore in più».

Carlo guardò Sandra, che tratteneva a stento un sorriso rivolto sia a lui – per confermare il proprio intuito – che alle uscite di Giovanni, ormai lontano: «Però forse mi hai dato un’idea, è da tempo che mi dico di mettere in piedi un piccolo progetto parallelo, una joint venture».

Il suo “direttore creativo” – parole sue – osservava i quadri pensando ad altro.

«Beh, se Silvia mi permette di prendere la parola,» si intromise Sandra, «direi che su questa buona idea potremmo considerare il discorso giunto a una felice conclusione provvisoria, vero?»  e sorrise verso Giovanni che, alzando le mani, tornò al contenuto del suo piatto:

«Vero. È ora di passare ad argomenti migliori».

4.

Sandra si sentiva relativamente serena, non perché avesse tratto vantaggio dalla sua amara vittoria su Carlo, ma perché la semplicità di Silvia le stava a cuore. Ogni suo gesto si rivelava estremamente misurato, dotato di grazia: ed era davvero carina. Quello di aver messo a centro tavola un mazzo di margherite era stato un tocco originale. Scherzando, aveva raccontato alcuni inconvenienti del mestiere di traduttrice, specie nel rapporto con i proprietari di resort a cinque stelle che predisponevano i libretti per gli ospiti – lo storytelling dell’albergo – e che dopo un corso aziendale si sentivano ormai esperti di letteratura.

Appoggiato alla sedia, Carlo aveva un’aria più composta, cercava una soluzione: era tornato col pensiero a certi suoi studi sui criteri di definizione della verità di un discorso tanto per confermare a se stesso che la logica, o l’adeguamento di una parola – ad esempio di un aggettivo – a una cosa non sono sufficienti quando non si capisce in primo luogo quale nome dare alla cosa stessa, perché qui l’equivoco era certo, lui e Giovanni chiamavano la cosa in due modi diversi, mancava dunque l’accordo che poteva dar luogo a una convenzione. Intendersi, così, era difficile. Ma forse non era necessario nobilitare un problema che non riguardava i fondamenti del linguaggio, non era frutto di un malinteso e non aveva molto a che fare con le parole. Riportando tutto su un piano elementare, mentre Giovanni scuoteva la testa con il bicchiere in mano davanti a una battuta della moglie, Carlo si disse che era più semplicemente una questione di fiducia e dei suoi limiti concreti. E sì, forse anche di una questione non subordinata, ossia del riconoscimento dei meriti, non di quelli potenziali – di cui spesso Giovanni amava parlare – ma di quelli mostrati sul campo.

«Che c’è, Carlo, sei pensieroso?»

«No è che qui il discorso si è fatto stimolante, mi sta facendo venire in mente molte idee».

«Ottimo, mettile da parte. Troveremo senz’altro il modo di discuterne».

Cercò un’altra via di uscita. Com’era quell’analisi? Più che nell’ambito pubblico, dove i ruoli sono definiti dall’inquadramento contrattuale e le mansioni determinate al punto da rendere ogni procedimento estremamente faticoso, in quello privato il rischio degli equivoci è maggiore, specie in una realtà giovane, che non si è ancora strutturata in modo permanente. Col tempo, se le cose vanno per il meglio, i rapporti si chiariscono e la crescita va a premiare proporzionalmente tutti i responsabili secondo una parabola statisticamente rilevante. Alcuni di questi, o conservano ruoli dirigenziali o se ne vanno a fondare nuove piccole realtà innovative.

Niente da fare. Come chi nel bel mezzo di un ricevimento trovi rifugio sul fondo del salone, vicino alle tende, per capire che forse la risposta a ciò che cerca – al di là della cortesia e della partecipazione a qualcosa che può risultare tollerabile – non può darsi in quel contesto, anche Carlo cominciò a pensare a una via di fuga alternativa e, soprattutto, squisitamente personale.

5.

A un certo punto della serata, passati al dolce – Silvia aveva preparato un’ottima Linzer Torte – l’argomento scivolò quasi per moto naturale verso la musica, che era una passione di Silvia, mentre Giovanni si diceva pressoché negato. Non lo era invece Carlo, che aveva dalla sua quattro anni di pianoforte. Silvia passò dai suoi amori giovanili per il progressive rock, favoriti dalla passione di Clelia, la sorella di sua madre, alla scoperta del rock alternativo, annegato oggi dalla mostruosa programmazione radiofonica: «Guarda, per fortuna ho l’abbonamento a Spotify, altrimenti durante le mie giornate sarei perduta». E continuò ridendo degli ultimi motivi radiofonici, trovandoli tutti troppo simili dal punto di vista armonico. Senza fatica Carlo proseguì l’analisi di lei con ironia canticchiando il ritornello del tormentone estivo del 2016 e proseguendone un altro più recente per sottolinearne l’affinità (stessa tonalità, Do maggiore) davanti a Silvia che, eccitata, continuava a dire «Bravo, è così, è così» e a Giovanni che cercava di non dare troppo a vedere di trovarsi in una terra interamente sconosciuta. Sandra, che in una conversazione sapeva tenere tutto sott’occhio, cercò di fare un cenno a Carlo, e dopo due occhiate significative e un riepilogativo e sempre efficace calcio negli stinchi, riuscì a moderarne lo slancio e a cercare di rendere meno manifesto l’isolamento del padrone di casa.

Ma Carlo riprendendo un tono più controllato e sollevando il bicchiere in un ideale brindisi a Silvia disse: «Beh, prima o poi penserò a mettere a frutto anche queste conoscenze» e dopo aver bevuto, prima di abbassare il calice restò con lo sguardo su Giovanni, che cercava di riorientare la conversazione verso il bene e il meglio (o per essere più precisi, verso il successo). Carlo si chiese poi se il suo accenno potesse essere stato colto come troppo enigmatico. Non era andata così.

È incredibile come nelle conversazioni odierne si tenda a disconoscere i tesori di sapere che le sfumature d’intonazione di un discorso sanno suggerire, come testimoniano i migliori romanzi dell’Ottocento. In effetti, più sale la posta in gioco, maggiore è la sensibilità richiesta, mentre oggi il massimo della prudenza sembra essere offerto da chi sui social si sente responsabile del “messaggio” che la sua posizione potrebbe veicolare al grande pubblico e soprattutto responsabile delle conseguenze che tale messaggio potrebbe produrre per la sua carriera, verso la quale, va da sé, deve sempre rivolgere il massimo dell’attenzione. Bisognerebbe investire un po’ più di tempo in aspetti centrali del vivere comune, allenare i sensi, tramortiti da troppi stimoli grossolani.

Carlo si rigirava in mano il calice vuoto.

Cosa vuol dire cadere in disgrazia? Una locuzione come questa, che sembra desueta, può mai uscire dall’uso? Un tempo bastava la porta di un salotto, il maggiordomo che tradendo uno zelo eccessivo anticipava cortesemente che, nel caso si fosse venuti a cercare la tal signora, aveva l’obbligo di comunicare che lei non era in casa (e se non si fosse venuti per quella signora?). Ora invece ci si deve arrangiare come si può. E Carlo lo sapeva.

Giovanni era finalmente riuscito a parlare delle ferie in barca che avevano fatto in Grecia, al largo di Mykonos: «Mai visto un mare così chiaro. Dovreste andarci anche voi, senza esitazione. Anzi, sapete una cosa, la prossima volta che ci andiamo vi portiamo con noi».

Silvia era raggiante: «Sarebbe bellissimo». Anche Sandra sorrise.

«Davvero Carlo, non riesco ancora a capire perché tu non ce l’abbia ancora portata. Sono sicuro che le farebbe piacere venire con noi. Anzi, sai che ti dico, sono perfino pronto a scommettere che lo troverebbe il miglior posto di mare che abbia mai visto».

 E così dicendo, aprì il mobiletto per tirar fuori una bottiglia di cognac.

6.

A mezzanotte e un quarto erano tutti d’accordo: una magnifica serata.

Sandra abbracciò Silvia promettendo di restituirle la visita al più presto: «Ma solo se vi accontentate di una cena in tono minore, sia per l’ambiente, sia per la qualità della mia cucina».

«Sì, dai,» disse Silvia «ma in questi giorni comunque ci sentiamo».

Giovanni diede a Carlo l’appuntamento per l’indomani, ma aggiunse: «Poi mi devi anche parlare di nuovo di quell’idea di fare anche noi qualcosa come ha fatto Cottid per Cerbottana. Dobbiamo pensarci».

«Sì, senz’altro, quando vuoi».

E così, con un altro scambio di complimenti, furono fuori.

In ascensore restarono in silenzio.

Poi Sandra parlò per prima: «Lei è adorabile».

«Sì, ma è chiaro che col lavoro può fare ciò che vuole: per vivere non ne ha bisogno.  Quanto al resto, invece, hai ragione. Si tratta solo di capire entro quanto tempo avrai ragione sul serio».

Di fronte a questa perentorietà, Sandra provò a costruire un’alternativa fondata sulla convinzione che in questo campo l’incertezza dei dati è inevitabile. Benché non ci fossero elementi determinanti, poteva almeno sostenere la speranza di Carlo, consentendogli di ricominciare:

«Non ha mica pronunciato una sentenza: puoi stare a vedere».

«Sì, posso stare a vedere, ma non mi interessa capire chi ha voglia di chiamare nel progetto. Qui le cose sono molto più semplici: o si lavora, o non si lavora; io lo sforzo lo posso fare per arrivare a riqualificare l’azienda, ma voglio decidere. Perciò l’alternativa è quella di sempre, tirare a campare o provarci».

«Alla fine lui ti ha buttato lì la cosa».

«Ho visto. Difficile capire se lo abbia fatto per compiacermi o perché davvero non ha capito questo aspetto della questione. Era stanco. Forse non ne coglie l’importanza».

«Sì, e forse tu invece la cogli fin troppo, per cui vedi minacce anche quando non ci sono».

«Cosa fai, ti rimangi la tua opinione?»

«Non so, lui potrebbe essere quel tipo di persona che non ha le idee chiare, che dunque tendenzialmente ci tiene a farti capire che non puoi diventare come lui – perché nessuno può diventare come lui –, ma che non ne fa una questione personale, ossia non lo fa per squalificarti». 

«E quindi, quale sarebbe il vantaggio?»

«Potresti stare a guardare, facendo pesare un po’ la tua presenza, tanto per capire dove si può arrivare. Del resto, lo hai detto tu stesso, andando così le cose è solo questione di tempo».

«No, l’unica vera possibilità sarebbe quella di andarmene, farmi un po’ di nome da un’altra parte, e poi tornare. Ecco, in questo caso, col successo decretato dagli altri, lui potrebbe sentirsi fiero nel dire di aver intuito che avrei fatto strada. Per questo potrebbe riaccogliermi con un ruolo diverso, ma qui, mi pare, sto fantasticando un po’ troppo. Vedrò il da farsi. Comunque, ottima cena».

Uscirne non è mai facile. Si racconta che quando Racine fece allusione a Scarron davanti a Luigi XIV – che ne aveva sposato la moglie e poi vedova, la famosa Madame de Maintenon – il re Sole non disse nulla al poeta. Come ricorda Proust: «Questi cadde in disgrazia soltanto il giorno dopo». In tempi come i nostri, così diversi, è più complicato conoscere la propria sorte, ma per quanto la coscienza si sia resa sofisticata negli affetti – lasciando il rapporto col bisogno e con la stessa realtà materiale per lo più fuori della scena – un’ipotesi, non fosse altro perché ci riguarda, è necessario formularla, benché in questo campo, come sapevano bene i moralisti francesi, l’ambiguità resti l’unica cosa certa.