Lettere

Medico. Commercialista. Ingegnere. Perfino storico dell’arte suonava bene. E io? Letterata…? Le serate con gli amici erano diventati momenti strani, in cui si parlava di cose adulte, a tavola: ambizioni, curriculum spediti, titoli di studio da portare con orgoglio agli incontri di lavoro.

di in: Ribaltamenti

Il primo ciclo di lezioni che ho seguito, all’università, verteva sulla Fedra di Racine. Un mito greco, ripreso da uno scrittore francese del ‘600. Il professore aveva esordito con orgoglio: “Noi qui, oggi, facciamo qualcosa di improduttivo, distaccato, che non porta a niente di concreto…” e poi aveva continuato a parlare lentamente, come all’aria, muovendo le mani delicate e bianchissime.

Per mesi abbiamo scandagliato, analizzato e interiorizzato la tragedia e l’autore in tutte le forme e i contenuti possibili, per poi passare alle trasposizioni teatrali moderne e, più nello specifico, a quella di Ronconi. Finché un giorno, verso la fine dell’autunno, sul soffio leggero della voce del professore, una lezione ha virato, si è concentrata e poi rappresa su un dettaglio della scenografia, ovvero il ciuffo d’erba che spuntava ai piedi di una colonna. La questione, mormorata dal professore alla classe, era se quella presenza fosse frutto del caso, dell’estro dello scenografo, oppure se fosse una scelta fatta dal regista, e a quale scopo.

La discussione è andata avanti per due ore, con il professore che, incantato, guardava il fermo immagine di un rarissimo documento—girato durante una rappresentazione—e intanto si interrogava, muto, davanti al mistero di quel ciuffo d’erba. Noi, nel frattempo, ci incantavamo a nostra volta, ci consultavamo, tentavamo ipotesi.

E in tutto questo io mi allargavo, penetravo dimensioni sottili di cui non capivo la natura, ma che mi portavano in un benessere senza risposte. Solo indagini, scambi, e una vibrazione bassa e costante di condivisione con gli altri. Misteriosa, circolava fra di noi, e distendeva l’atmosfera della stanza, facendoci risuonare, tutti insieme, in una comunione pacifica di menti.

Fuori, la città si muoveva, clacsonava e vociava. I turisti seguivano le guide per le viuzze del centro e i commercianti tiravano su le saracinesche dei negozi. L’aria grigia di dicembre era appena percepibile, sopra i palazzi antichi su cui dava l’aula. E intanto, sullo schermo, Fedra guardava innamorata il figliastro, nelle cui fattezze ritrovava l’antica bellezza del marito. Strisciava in terra, schiacciata dal fato. E vicino a lei, ai piedi di una colonna, spuntava questo ciuffo d’erba.

Per varie lezioni abbiamo studiato quella messa in scena del teatro Fabbricone. E ci siamo interrogati sul ciuffo d’erba. Finché Ronconi stesso è venuto a farci visita, e non ha potuto esimersi dal rispondere alla fatidica domanda: “Ma quel ciuffo d’erba, perché sta là?”. La sua risposta: “Non ne ho idea, non sapevo nemmeno che ci fosse,” non ci ha dato per vinti. Le lezioni dopo si sono imperniate sul quesito: “Quanto l’artista esprime senza saperlo?”. Nell’aula di uno degli ultimi piani dell’antico chiostro dove si svolgevano le lezioni, nel centro della mia antica città, tentavamo di stabilire se e quanti contenuti sfuggissero alla coscienza dell’artista al momento della creazione.

E intanto fuori il mondo produceva, si spostava, fornicava, commerciava, nasceva e moriva.

Mio padre raccoglieva ordini dai clienti in giro per l’Italia. Mia madre, nel suo negozio, infilava in vestiti eleganti bambini riottosi. Imprenditori abili, come tutti i componenti della mia famiglia. Persone probe, brave e affermate. Persone che avevano preso queste qualità dal DNA comune della stirpe, succhiandole tutte; e lasciando a me i cromosomi dell’inconcludenza. Mio padre rientrava tardi, la sera, e mi osservava studiare, alla scrivania. Anno dopo anno. Da troppi anni, mi sembrava di vedere nei suoi occhi. Anche quando non diceva niente. Quando non faceva una delle sue battute sul tempo che scorreva, e io che ancora non guadagnavo. O meglio, che non costruivo possibilità di guadagno.

Persino mio fratello, scivolato già ai tempi del liceo sulla china dell’arte, verso il mondo inutile e affascinante del teatro, e poi laureatosi nella futile facoltà di Lettere. Persino lui aveva preso di punta e di petto il suo mestiere, fino a trasformarlo in una macchina di successo e di realizzazione sociale.

Anche io frequentavo Lettere, ma avevo inserito nel mio piano di studi i corsi in Lingue e letterature straniere moderne, per poter dire a me stessa e agli altri che mi prodigavo per imparare qualcosa di utile.

E mi ritrovavo—felice—a discettare sull’erba di cui Ronconi non sapeva nulla.

Mi era sembrato naturale, quasi inevitabile, scegliere Lettere—essendomi nutrita, sollazzata, guarita e stordita di letteratura fin dalla più tenera infanzia. Quando non c’erano abbastanza ore nella giornata, e abbastanza pagine nel libro, e abbastanza avventure sulla pagina per potermi stancare di leggere. Quando mi arrampicavo sulla libreria di casa a caccia di volumi per bambini, dalle copertine colorate, o misteriosi, con un titolo lungo di cui non conoscevo le parole. A volte erano libri incomprensibili, ma cercavo di leggere tutto, perché ogni riga era un percorso, e ogni percorso mi portava—non mi preoccupavo di dove.

Per poi finire, nell’aula magna della facoltà, a stringermi insieme a centinaia di persone, nel mattino ancora buio, per trovare posto. Oppure in piedi, schiacciata contro il muro, quando mi svegliavo tardi. Io insieme a duemila matricole, prese dal sacro fuoco delle lettere, a sgomitare per sentire qualcosa mentre il professore di letteratura inglese mormorava, a microfono spento. 

È stato guardando le decine di file di banchi coperte di teste, e la gente rimasta in piedi che si pigiava e spintonava, cercando di trovare almeno lo spazio per sollevare il blocco note e prendere appunti. È stato lì che, un giorno, mi sono chiesta quanti di noi avrebbero scritto davvero qualcosa che avrebbe sollazzato e guarito, stordito e nutrito qualcuno. E se non sarebbe stato più sano, più normale e giusto, che le nostre migliaia di giovani testoline ancora capaci di apprendere, inventare, modificare la realtà, venissero utilizzate per sfide più urgenti. La pace. La fame. Il clima. La giustizia sociale… qualcosa che ci facesse contare, nel mondo. O almeno che ci fornisse un guadagno, per non farci più osservare in silenzio, con uno sguardo preoccupato sul nostro futuro, dai genitori.

Sono uscita con la volontà un po’ spiegazzata, da quella lezione. Con tanti dubbi a contendersi la mia attenzione, a gridare ognuno le sue ragioni.

Per mettere tutti a tacere, e ritrovare un momento di silenziosa, perfetta gioia, sono andata in libreria, e mi sono comprata un libro.

E poi ho letto, studiato e dato esami, fino a portare a termine Lettere. Fino a prendere la laurea. In un castello di sforzo tenuto insieme solo dall’amore.

“Hai finito l’università, bene. E adesso?” mi chiedeva il mondo intero.

Già, cosa avrei fatto? Cosa ero adesso?

Medico. Commercialista. Ingegnere. Perfino storico dell’arte suonava bene. E io? Letterata…? Le serate con gli amici erano diventati momenti strani, in cui si parlava di cose adulte, a tavola: ambizioni, curriculum spediti, titoli di studio da portare con orgoglio agli incontri di lavoro.

Mentre la mia, di lauree, suonava quasi come una vergogna, un’attività antisociale di cui non andare a cianciare troppo in giro. Infatti evitavo di dire che mi ero laureata. O che, di tanto in tanto, scrivevo.

Ho lavorato anche io, a un certo punto, in un ambiente che mi piaceva. Per produrre programmi televisivi, nella varietà di incombenze e responsabilità che ogni giorno cambiavano, e incontri, personaggi famosi, pubblico in studio, aspetti tecnici, contenuti. C’era di tutto, in quel lavoro che amavo. Ma non le lettere.

“È meglio che lasci stare il titolo di studio, sai. Sembra che te la tiri…” Certo. Uno studio senza sbocchi pratici, fatto per puro diletto. Roba da privilegiati o da sfigati. Probabilmente entrambe le cose.

Eppure, come un adepto dedito a una pratica poco spendibile, ho proseguito, in silenzio, a cercare spazi dove respirare letteratura. Anche più in là negli anni, anche nel luogo più pragmatico del paese più pragmatico del mondo: Washington DC.

Seguivo corsi dove si discuteva sulla scrittura, guidati da scrittori che cercavano di svelarne le tecniche, e offrivano i soliti esempi chiari e facili  (“Per portare il lettore nella storia ci vuole almeno un dialogo per pagina.”) che riescono ad offrire gli americani. C’erano pause per bere tè e mangiare torte, ma anche con i pezzi di dolce in bocca—da cui cadevano briciole mentre tentavamo commenti—restavamo in quella rarefazione sospesa che aleggia, benevola, intorno alla scrittura.

Poi, per conto di un’associazione di connazionali all’estero, riunivo i connazionali che amavano leggere, e in salotti messi a disposizione a turno dai partecipanti, parlavamo di libri e di letteratura. Fuori le stagioni così forti di Washington riempivano di neve il cielo, o di fiori gli alberi. Ma il vento, la luce, e i rumori della città facevano da sfondo lontano, come se la realtà di fuori avesse solo la funzione di creare e poi porgerci le storie di cui discutevamo.

Tornando a Roma, ho continuato a impegnarmi. Tessendo sulla frequenza bassa e umana delle lettere il mio primo laboratorio di scrittura. Durante le ore di studio, mentre preparavo gli incontri, e poi nelle serate in cui la vibrazione lasciava la mia mente e circolava, vagava fra le teste di tutti.

Anche durante la malattia di mia madre ho continuato a studiare, prendere appunti, leggere cose nuove e vecchi tomi dell’università. Sempre con la domanda espressa, anche quando restava non detta—filigrana in controluce, dietro ogni argomento trattato: Perché scriviamo? O dipingiamo. O facciamo musica. Teatro. Cinema. Perché alcuni si dedicano a queste attività improduttive, considerate poco serie dalla società e nella grandissima parte dei casi anche poco remunerative? Che prendono tante energie, oltretutto: tempo, impegno e forze che potrebbero essere impiegate altrimenti; per il bene della collettività, o per il proprio, almeno, evitando di trascurare momenti essenziali della propria vita, fette di famiglia, problemi pratici…

Finché, una sera, il disagio ha afferrato tutte le domande e le possibili risposte. Le ha fatte rinsecchire, e pigiate dentro la campana vuota della mia intelligenza, che suonava sempre più fessa. Mi ha fatto uscire dalla serata del laboratorio, dal caldo delle lettere, in una notte fredda, da attraversare senza ristoro.

Per trovarmi a casa, nei giorni successivi, in uno spazio ottuso, senza slanci di inventiva, in cui non riuscivo a formare nuove idee, e tantomeno scrivere appunti. Vedevo avvicinarsi il giorno dell’incontro successivo senza riuscire a prepararlo.

Inventavo una dedizione mai avuta prima per ogni minimo dettaglio della cura della casa, o dei doveri filiali, pur di non avvicinarmi alla scrivania, per non sedermi al computer. Quando magari ci riuscivo, notavo dalla finestra che avevo trascurato troppo a lungo le piante sul terrazzo, e correvo a porre rimedio.

La preparazione per il nuovo incontro restava sospesa; lampeggiava la sua assenza sullo schermo del computer, acceso e vuoto.

Fino a un giorno come tanti, in cui sono uscita di casa con gli occhi gonfi di pena per le notizie sullo strazio di mia mamma. Si centellinavano sui giorni, un pezzettino di disgrazia alla volta. Si posavano su una giornata qualsiasi, e la rendevano, in pochi istanti, tutta amara.

Ho incrociato il mio vicino di casa, quello con cui mi ero sempre intesa tanto bene. Quello con cui alle riunioni di condominio ci trovavamo ogni volta d’accordo e ammiccavamo intese. Una presenza leggera, amichevole, uno specchio di amicizia sul pianerottolo.

Ho alzato i miei occhi verso di lui, cercando di renderli sorridenti. Aspettandomi il solito specchio di amicizia, che avrebbe fatto sorridere anche i suoi.

Invece mi ha guardata solo il tempo di ignorarmi, e mi ha lasciato il sorriso a mezz’aria, insieme alla mano tesa in un saluto che non ha raccolto.

Non sono andata a sbrigare le mie incombenze, ho fatto una deviazione verso il parco vicino a casa. Un’area bella, verde, grandissima, riservata alla natura, dove crescono animali selvatici in libertà, e le piante sono tante; dove si nasconde una valle intera, rigogliosa di ossigeno da respirare a pieni polmoni. E dove, però, fra le frasche ristoratrici, erano ancora visibili i monconi di tronchi bruciacchiati; le tracce dell’incendio scoppiato qualche anno fa. Un incendio che aveva distrutto tutto, perché la mano che l’aveva acceso era stata attenta a spandere le fiamme in modo che non lasciassero niente, sotto di loro. Né piante né animali, né le cianfrusaglie di qualche nomade che si era rifugiato in mezzo al verde. E che era il vero obiettivo del piromane.

Chissà se aveva goduto nel distruggere un’intera valle. O se invece era rimasto deluso, per essere riuscito ad uccidere solo qualche animale.

Una fila di pensieri mi si è arrampicata addosso, come formiche che salissero dai piedi, portando un pezzetto di sgomento ognuna, e in pochi minuti mi hanno ricoperta. Nel loro movimento brulicava una domanda: come può contenere certi gesti? L’umanità che formicola su questo pianeta e non sente la propria pochezza, non si spaurisce del niente, non si abbraccia forte agli altri per scacciare la morte… come può?

Anche da bambina, la violenza mi si ghiacciava dentro. La respiravo attraverso le imprese degli altri bambini, che torturavano una lucertola, o si picchiavano senza motivo. Canzonavano qualcuno per gli occhiali troppo spessi, obbligavano i due più grassi della classe a baciarsi… Anche quando reagivo, cercando di aiutare, o altre volte, quando ero io a gridare e rifiutare; anche quando ero io, a scagliare in giro cattiveria, lo sgomento mi si rapprendeva intorno alle sensazioni e lì si cristallizzava, rendendo tutto freddo.

Quando questi momenti passavano, mi lasciavano un groppo triste dentro il ricordo di una mattina a scuola, o di un pomeriggio ai giardini; e la confusione per come fosse strano che tutte le persone che capivo tanto bene nei libri mi sfuggissero poi nel mondo vero. Giocavo con milioni di personaggi immaginari, personaggi dei libri e dei miei giochi. Ma poi i bambini veri finivano, all’improvviso, dietro queste barriere di violenza, che mi separavano da loro senza possibilità di raggiungerli.

La consolazione stava nell’afferrare un libro. E leggere di quello che il protagonista soffriva. Io la sua sofferenza la capivo, la sentivo mia. E capivo la sua cattiveria. Era la mia. Saltavo la barriera, mi riconciliavo con la mia giornata. Ed ero pronta per ricominciare da capo.

Ho ripreso a camminare, smaltendo la fatica dei pensieri su quella dei passi, questa volta nella direzione degli uffici dove dovevo andare.

Arrivata a un grande viale trafficato, incrociavo decine di persone. Vecchi con sacchi della spesa pendenti da ogni braccio, mamme velate con bambini dal carnato scuro per mano, ragazzi a gambe larghe davanti a un bar. Un uomo in auto col braccio penzoloni sulla portiera, un altro coi finestrini chiusi e un litigio muto dentro l’auricolare. Una ragazza dai capelli lunghissimi, fuori dal casco, che procedeva come se non ci fosse traffico, in una corsia di vento tutta sua.

Individui a cui passavo vicino, di cui non conoscevo la storia. Anche se li avessi incontrati, non sarei riuscita. E che non conoscevano la mia. Anche se mi avessero incontrato, non avrebbero potuto. Perché ognuno di noi stava su quel pezzo di strada, in quel momento, portandosi a spasso una combinazione fatta di cromosomi, circostanze, condizionamenti, cultura, carattere, storia globale e della famiglia, causalità, imprevisti e decisioni. Chissà venute su come, che portavano chissà dove.

Chissà in quale fase si trovava, la combinazione che stava dentro a una persona, nel momento che si incrociava con me.

Io che ero uscita di casa e pensavo che anche il mio vicino fosse in una fase simile alla mia. Mentre invece stava elaborando altro, e non rispondeva perché era perso chissà dove; non ce l’aveva con me, non ce l’aveva con nessuno, aveva una sua personalissima grana, un punto su cui si era bloccata la sua vita, che lo distaccava da quello che aveva intorno…

L’uomo con il braccio penzolante sulla portiera lo ha ritratto all’improvviso, e ha schiacciato la mano sul clacson, urtandomi le orecchie con un’aggressione imprevista. “Ma vai, stronzo!” ha gridato a chissà quale delle sei auto che aveva davanti, e che si stavano muovendo, una per volta, oltre il verde.

La macchina dietro la sua era ancora più lontana dal passare l’incrocio, forse avrebbe perso il verde; eppure conteneva un signore tranquillo, con la faccia incantata su un’idea lontana, del tutto inarrivabile per il verde, il traffico e i guidatori urlanti.

Perfino i piromani privi di umanità erano stati, in una certa giornata, o forse in una notte buia, che li copriva dagli sguardi, in una loro fase. In una combinazione che era la più lontana dalla mia. E che li aveva riuniti intorno a una tanica, all’eccitazione dell’impresa: “Liberiamo il quartiere da queste merde!”. Li aveva fatti bere tutti insieme, prima di iniziare, e poi infiammarsi ai primi crepitii: “Ci siamo riusciti, oh, cazzo, guarda come brucia!”. Li aveva fatti dare manate sulle spalle, e poi allarmarsi a un rumore: “C’è qualcuno, via, via, via!”.

Mi repelleva, quella combinazione, mi faceva rabbia. Eppure, se l’avessi letta in un libro mi ci sarei avvicinata. Avrei potuto seguire un piccolo pezzo della combinazione di genetica e di eventi che avevano portato quell’essere, in quel momento, a compiere quelle gesta inumane. Avrei scoperto in che modo, nonostante tutto, facevano parte dell’umanità.

Ho guardato le persone che mi camminavano accanto, che schivavo o urtavo mentre procedevo. Troppe barriere di luogo e di tempo, di personalità e di circostanze sviavano la comprensione fra di noi. La signora con il grosso tramezzino che gocciolava maionese sul suo mento, procedeva trascinando una certa stazza in salita. Ma mangiava come se da ogni morso ricavasse un’energia di gusto che io non avrei mai potuto capire. Non a quell’ora, non con la fretta addosso, non con quella punta di gastrite che mi faceva, come sempre, impiegare ore a risolvere una digestione e a desiderare di intraprenderne un’altra.

Certo, perché le fasi sono diverse, per ognuno, in ogni momento della giornata. Volendo mettersi sulla stessa onda occorre prendere accordi. Per allineare il proprio umore, le proprie fedi, le proprie aspettative e i propri gusti occorre fare sforzi, magari fissare appuntamenti, o decidere riti complicati… Come i bambini che giocavano per ricreazione, nella scuola lì vicino, che sentivo organizzare corse e regole. O come i ragazzi davanti al bar, che forse si stavano mettendo d’accordo per andare in discoteca, la sera.

Erano tutti impegnati a sintonizzare le loro fasi, per procedere un pezzetto in compagnia di qualcuno. Solo per poco. Poi i bambini sarebbero corsi via dai giochi, verso la classe. I ragazzi, dopo la discoteca, avrebbero trascinato fuori dal locale la loro stanchezza eccitata, allontanandosi dagli altri.

Ognuno si sarebbe portato, dentro, il proprio pezzetto di ricordi. Ognuno il suo, diverso dagli altri.

È allora, in quel momento privo di connessione, che avrebbero potuto ascoltare una canzone, o leggere un libro, e respirare una storia dentro il presente. Gonfiando l’istante fino a fargli contenere decine di situazioni. E fino a sentire tutte le circostanze che hanno portato certi personaggi, in un certo momento, a fare alcune cose.

Ho proseguito più spedita, per il viale in discesa. Sui passi non si disperdeva più la fatica dei pensieri, adesso. Si ritmava, invece, una consapevolezza diversa.

La consapevolezza che era stato un peccato attraversare metà della mia vita temendo il giudizio degli altri. Vivendo la colpa di dedicarmi a qualcosa che “non stava bene”. Quando, invece, le lettere che avevo tanto a lungo sentito come una passione proibita, un vezzo che mi isolava in un’attività improduttiva, erano uno dei pochi, preziosissimi modi che avevo sempre avuto, che tutti sempre abbiamo, per sentirci, sempre e comunque, “insieme”.

Ho esitato un momento, ferma a metà del percorso che mi doveva portare verso gli uffici della ASL. Ho visto per un momento centinaia di storie che mi circolavano intorno, irraggiungibili, eppure unite. Le ho sentite tutte in un’unica frase, che conteneva milioni di libri scritti. Di canzoni cantate, di statue scolpite. La frase di un’umanità che si avvicinava ad un’altra e la capiva.

Pazienza per gli sguardi di compassione. I soldi non guadagnati. Le posizioni non conquistate.

Mi sono voltata, ho inspirato il rumore della strada. E una nuova ispirazione. Senza rimorsi, senza disagio. Ho ripreso il cammino verso casa, di buona lena, verso uno schermo acceso e vuoto, che aspettava da troppo tempo, acceso e solo, il mio entusiasmo.

Un commento su “Lettere

  1. Lorenzo Salsi

    Francesca … a tratti commovente, in altri galoppante come il tuo cammino altri momenti di rabbia ( perchè non essere salutata per bene dal tuo vicino), insomma un turbinio di sensazioni espresse, sistemate a modo dentro un involucro trasparente , tanto da fartele vedere tutte un po’ in sequenza lenta un po’ rotolanti come biglie sempre di vetro. La lettura come rifugio, come ragione, come cultura . Potrei cara Fra continuare ancora molto ad incensare il tuo scritto perchè quel che hai fatto rimane fra un manuale per chi ama scrivere e chi ama vivere. Grande Francesca quante porticine mi hai aperto, sapessi quante.