Capriola

Perché non sono più figlia da un po’ di tempo, ormai, e l’ordine ancora non arriva. Ancora sento questo vuoto fra me e le cose. La privazione del contatto, della pelle che i miei genitori erano fra me e il mondo. Sono nuda, ogni spiffero mi colpisce forte. E cerco riparo. Dietro ai ricordi, e alla ricostruzione. La comprensione no, non la sento possibile.

di in: Ribaltamenti

Non ero più figlia.

Per la prima volta l’estate mi si rovesciava addosso in ondate di caldo, dolore e voglia di restare dentro a una specie di sospensione. Senza azzurro, senza sole e senza pensieri veri; solo con questa consapevolezza, di non essere più figlia.

Guardavo il mare dove, da sempre, venivo a prendermi una boccata di passato. Dove ritrovavo, ogni anno, la connessione con le cose com’erano. Stesso paesino di vacanza, stessa pineta, lungomare, piccole spiagge ricavate fra gli scogli.

Credevo che sarebbe stato pungente come una roccia di mare, il ritorno nei luoghi dell’infanzia. In quegli stessi, eterni posti dove la presenza dei miei genitori era cosa certa e immutabile. Come le case, come la pineta e gli scogli.

Invece, camminavo fra la luce e le frasi dei bagnanti intorno: “hai preso l’accappatoio?” “Dagli la palla!” “Ho un riccio nel piede”, come in mezzo a un riverbero di cose già fatte e già dette. Costumini infilati e tolti dalle gambe di bambini, creme spalmate su piccole facce. Dissapori con i parenti con cui dividi l’ombrellone: “Mamma lo saprò a che ora voglio mangiare, no?”, e un’invidia acuta; loro erano ancora figli. Loro che litigavano per chi decideva le cose. Loro che erano insofferenti dell’autorità e dei consigli, delle incomprensioni, di essere presi in cura o di dover curare. “Papà, te l’avevo detto di non restare fino a quest’ora!”, al viso troppo pallido di un genitore che non accettava questa cosa nuova e strana, di avere così tanti limiti.

L’invidia evaporava presto in quella sensazione di vuoto, intorno, che avevo da quando non ero più figlia. Una bolla in espansione che mi aveva liberato da tutti i rimbrotti, le costrizioni, le preoccupazioni e le fatiche. Eppure, in questo nuovo spazio aperto, il mio io galleggiava, spaurito, e avrebbe voluto trovare dei limiti. Quei recinti sicuri, soffocanti e caldi come gli abbracci dei genitori.

“Mamma fai il bagno con noi?”.

I miei due figli minori erano grandi e non grandi. Annusavano e stavano lontani da questa mia sospensione. Sentivano la possibilità, che aveva la loro mamma, di scivolare via con l’attenzione verso uno spazio un po’ indistinto e freddo. Mi guardavano e rispettavano i miei tempi; sapevano, credo, che stavo lottando per accorciarli, per non rendere questo vuoto troppo concreto, per non farci cristallizzare dentro anche i loro giorni e poi i loro sentimenti, le loro azioni.

“Vieni, mamma?”.

Erano grandi: un bambino che si avviava a raggiungere, e un’adolescente che già aveva superato la mia altezza. E erano piccoli: cuccioli che annusavano le ferite della madre e si avvicinavano cauti, la incitavano delicatamente a riprendere i giochi.

L’acqua trasparente e freddissima di inizio luglio, fra gli scogli, mi si era stretta intorno al petto, nel primo tuffo. “Nuotiamo veloci per scaldarci!”. Bracciate rapide ci hanno allontanato dalla riva.

Ci hanno portato a perdifiato in mezzo a uno spazio vasto di azzurro, senza onde. I figli si sono ripresi subito dal freddo, e si sono immersi. Corpi bianchi in una perdita traslucida di contorni.

Poi sono riemersi: “Abbiamo toccato il fondo!”, con la mano che si apriva a mostrare un ciuffo di alghe, un sasso rotondo.

Io, intanto, sentivo il solito vuoto palpitarmi intorno. Anche in mezzo a quella distesa di acqua fredda, con la vita dei miei cuccioli accanto e le loro mani che si aprivano, lasciavano tornare gli oggetti strappati al loro fondo.

Ho sorriso e cercato di riafferrare il presente. Ho cercato di sentirmi parte, di sentirmi dentro; di stare insieme al freddo dell’acqua, il sole sulla faccia, le parole dei miei figli e tutta la costa vicina, dove la gente rideva, schiamazzava e si scottava la pelle. Mi è sembrato di riuscirci, per un istante, e poi tutto si è allontanato di nuovo.

“Guarda mamma, guarda!”.

            Ho guardato i corpi dei figli scivolare in giù, verso il basso, ma senza nuotare verso il fondo, questa volta. Hanno fatto una capriola perfetta e poi: “Mamma, guarda chi ne fa di più!”; si sono fermati, hanno impostato forza e direzione, e cominciato, quasi in sincrono, a roteare dentro l’acqua. Una, due, tre, quattro volte… una serie aggraziata e fluida di movimento, senza sforzo e senza fine.

Ho sentito un ricordo che, sereno, risaliva da un mare infinito verso la superficie.

Io bambina che facevo capriole… una e due, e tre, come i miei figli. Lì, fra le correnti e le onde, nell’abbraccio dell’elemento che conoscevo meglio.

Sulla terraferma no, sul ripiano solido della vita non ci riuscivo. Perché il mondo si spostava, diventava una sbavatura rapida dentro il mio campo visivo, inafferrabile e indecifrabile. Tutto il mio essere si ritraeva verso un punto concentrato di resistenza, un nucleo centrale dove si raccoglievano il sangue e ogni umore vitale, togliendo energie e consapevolezza al resto del corpo. Agli arti e la testa, in particolare, che venivano lasciati al loro destino di scoordinamento e di malessere.

La palestra della scuola era l’unico posto dove mi trovavo obbligata a vivere questi istanti di completa perdita. Cercavo di rimandarla, cincischiavo con le mie paure prima di eseguire l’esercizio, ma i minuti diminuivano velocemente, via via che la fila avanzava, e non serviva a nulla essermi rifugiata all’ultimo posto; l’attesa non mi aiutava. Gli altri bambini scorrevano verso il tappeto, dritti e fiduciosi, puntavano le braccia in avanti, si chinavano, si raggomitolavano e rotolavano sul pavimento con un gesto rapido, sicuro del risultato. Uno in meno davanti a me, uno in più dall’altra parte della sala, libero di appoggiarsi alla parete, di ridacchiare con i compagni e di pensare ad altro.

Dopo pochi istanti sarebbe stato il mio turno, e intanto cercavo di stringere il mio destino con forza lì dove potevo, fra le dita e la stoffa dei pantaloni. Pizzicandomi anche la pelle.

“Andreini lascia stare la tuta e preparati!”.

Finché non avevo più nessuno, davanti. Solo spazio vuoto, il tappetino in attesa e le sagome lontane degli altri bambini.

“Forza, Andreini!” gridava l’insegnante di educazione fisica. O almeno pensavo che gridasse, perché le onde sonore si perdevano fra le sinapsi del cervello e le ossicina delicate del labirinto dell’orecchio. Alla mia coscienza arrivava solo un’eco lontana dell’ordine; un’eco che si poteva anche ignorare, per un po’.

Ma poi era il mio stesso corpo a non poterne più del vuoto davanti e della stanza in attesa. I piedi mi trascinavano fino alla posizione.

Lì espiravo la poca aria rimasta nei polmoni e mi ripiegavo, mi lasciavo cadere in una sgraziata perdita di riferimenti. Lasciavo il mondo confondere i contorni e svolgevo la capriola. Trovandomi, alla fine, seduta piegata, con le gambe larghe, la faccia contratta e lo stomaco in ritardo, che ancora girava su se stesso. La stanza ruotava per qualche secondo e poi, finalmente, si stabilizzava. I compagni si muovevano oltre, l’insegnante allontanava da me il suo sguardo. Il tappetino sotto di me non era commosso per il mio sacrificio.

 Lo stesso che compivo quando papà mi convinceva a salire sulla sua barca da pesca, al mare, e io ogni volta mi ritrovavo fra il rullio e il beccheggio, con gli organi interni che si mettevano ad inseguire le onde. Con l’orizzonte ogni volta spostato rispetto agli occhi, allo stomaco, alle idee. Niente più stava fermo e tutto mi dava la voglia di non avere più niente dentro.

O quando i miei mi infilavano in macchina e mi trascinavano per le strade di campagna, in mezzo ai paesaggi che erano così verdi e curvosi, morbidi. Linee collinari e montagnose su cui la mia testa si inerpicava a fatica, in stretta connessione con lo stomaco. Ogni centimetro in agonia, dentro l’abitacolo che si curvava sul paesaggio, mentre il mio corpo restava inutilmente rigido, cercando ad occhi chiusi di ritrovare punti fermi su cui restare.

E poi, da ragazzina, con la ruota, incoraggiata da amichette che giravano felici nell’aria; un leggero appoggio sulle mani e poi le gambe dritte, in un cerchio perfetto disegnato dai piedi sopra le teste. Le ammiravo muta, senza neppure invidia. Io poggiavo le mani in terra e cercavo di sollevare il corpo, tenendo le braccia dritte, ma una volta in aria le gambe venivano percorse da un brivido di smarrimento, che partiva dallo stomaco, il collo, la mandibola e le orecchie, collegate con il cervello e la mia percezione del sé. Si lanciavano giù, le gambe, tirandosi dietro tutto il resto.

Poi da adulta, nei corsi di Yoga. Testa in giù e piedi a sondare le energie dell’aria. Per un secondo. E subito dopo di nuovo accoccolata sul tappetino, chiedendomi perché non potessi eseguire anch’io questi esercizi, che tutti intorno a me sapevano fare. Chi più chi meno, ma sicuri del corpo, dello spazio, dei punti d’appoggio; fiduciosi di potersi sbilanciare senza conseguenze così, davanti a tutti. Mentre io, aggrappata con il sedere al pavimento, riuscivo solo a desiderare di distendermi, di aderire ancora di più a madre terra e ad ogni cosa ferma e solida.

Ma invece, da bambina, nell’acqua, sapevo fare le capriole.

Mi hanno portata al mare da quando sono nata. Nella casa di vacanza, costruita da mio nonno dopo la guerra, ci ho passato tutta l’estate, tutti i quattro mesi, per tutta l’infanzia. Sapevo riconoscere lo stato del mare ancora prima di vederlo o di sentirlo, dall’odore che mi veniva incontro mentre ancora camminavo sulle strade sterrate, in mezzo alle casette con i giardini intorno. Odore di sole o di spruzzi, di luce piatta o di acqua avvallata dai cavalloni. Mi avvolgeva e mi preparava alle attività che ne conseguivano: gite blande col canottino, esplorazioni dei fondali con la maschera, oppure lasciarmi travolgere dalle onde, distesa sul muschio della scogliera, e precipitare giù fino a toccare la ghiaia sul fondo; coi piedi in aria, e le gambe immerse nel frizzare di milioni di bolle.

Un gioco che adesso mi spaventava anche solo nell’idea, ma non nel ricordo. Perché nel ricordo l’acqua era conforto, culla, sostegno. Toglieva il peso, toglieva i rumori, toglieva ogni fretta. Nel mare mosso, bastava andare sotto, nuotare in fondo, e lasciare le onde e la schiuma agitarsi sopra, lontano.

Potevo nuotare per ore senza stancarmi. Senza maschera, il più delle volte, e senza pinne; in contatto diretto con l’acqua per sentirne la consistenza, l’umore. Avevo imparato a sfruttare le onde e le correnti.

Nell’acqua non c’erano punti fermi che sfuggivano alla vista, non c’era un prima e un dopo, un sopra e un sotto. Non c’erano aspettative altrui, o previsioni mie. In ogni bracciata scorreva la fiducia di poter lasciar fluire la vita in ogni parte del corpo e poi oltre, in ogni cosa che l’acqua lambiva, dentro e fuori di lei.

Quel giorno, davanti al corpo dei miei figli che scivolava senza limiti nella capriola, ho preso coraggio. Ho ripensato al mare del passato, in cui potevo lasciarmi andare. E ho tuffato la testa verso il basso.

Un ribaltamento completo.

Acqua in ogni direzione, e senza sapere cosa era dove, per qualche istante. Bolle ovunque, braccia e gambe che vorticavano senza darmi la sensazione che sapessero cosa stavano facendo.

Poi mi sono trovata con la faccia fuori, e il sole sugli occhi. E le voci dei miei figli che dicevano: “Brava, ce l’hai fatta!”.

Durante un leggero capogiro ho capito che ce l’avevo fatta davvero. E che mi sentivo bene. Mi sono guardata intorno e ho trovato un’altra vista, al posto di quella che mi aspettavo. Non verso il mare aperto e l’azzurro spezzato in due dell’orizzonte, ma verso la costa, con il sole un po’ inclinato verso gli scogli, che si staccavano dalla roccia e proseguivano nell’acqua. Aguzzi e in controluce.

Ho nuotato restando immersa in questa impressione, di essere voltata dove non credevo, e sono tornata a riva. Distesa al sole ancora ci pensavo. Fra i raggi che mi colpivano sentivo arrivare altri ricordi. Altre volte, altre situazioni di vita che con la giravolta senza peso dentro l’acqua non c’entravano niente e che, però, mi avevano lasciato anche loro così: a guardare da un’altra parte. Spostata, sorpresa, incamminata altrove.

Quel giorno i sentimenti e le idee portati dai ricordi se ne stavano avvinghiati al sole, confusi e troppo luminosi per essere guardati a lungo.

La spiaggia mi si era allungata intorno, il mare era diventato infinito. Il tempo una distesa inconoscibile di momenti passati. Tutto si è slabbrato nell’abbandono alla luce, alla stanchezza, alla voglia di galleggiare nel caldo, senza fatica. Mi sono addormentata con questi pensieri sulla capriola, e mi sono svegliata adesso, nel tempo rallentato di fine settembre.

Con altre consapevolezze che si affacciano alla porta della mente, e chiedono ragione del passato. “Vogliamo mettere un po’ di ordine?”, mi sta chiedendo il cervello.

Perché non sono più figlia da un po’ di tempo, ormai, e l’ordine ancora non arriva. Ancora sento questo vuoto fra me e le cose. La privazione del contatto, della pelle che i miei genitori erano fra me e il mondo. Sono nuda, ogni spiffero mi colpisce forte. E cerco riparo. Dietro ai ricordi, e alla ricostruzione. La comprensione no, non la sento possibile. Ma il percorso sì, quello è rintracciabile e si può rifare. Il percorso sono io e la mia carne senza pelle. Così come si è portata, di cambiamento in cambiamento, fino a qui.  Adesso è autunno e posso provare a guardare il disordine dell’esistenza,  capire su quali momenti si è imperniato per assumere nuove forme, per prendere nuove direzioni.

Posso prendere un groviglio di immagini e sensazioni confuse. Uno per volta, e srotolarlo durante la scrittura; una capriola di parole e poi hop, in piedi, a vedere cosa ne è venuto fuori.