Zelig

Il vetro si è squagliato lentamente, un pezzetto per volta, e ha colato una visione trasparente e pura. Creare qualcosa fuori dagli schemi soliti. Nostro. Vero. Navigare di nuovo verso qualcosa, qualsiasi cosa, insieme.

di in: Ribaltamenti

Osservo l’ombra del suo profilo rivolta verso di me, nel buio. Osservo il sonno su cui si distende con timore. Anche lui turbato dagli eventi, anche lui un figlio in pericolo, adesso. Suo padre si sta allontanando; è come se fosse già un po’ perso a noi, ora che sappiamo della sua malattia, che la sappiamo senza speranza. È ancora qui ed è già in una dimensione di assenza, ha portato vicino ai suoi cari un po’ di futuro; il futuro in cui lui non ci sarà più.

 Anche mio marito, adesso, sente questa inquietudine che ci obbliga a tenerci vigili, senza mai abbandonare del tutto la determinazione a esserci; come se vivere fosse uno sforzo per restare.

Lo guardo, nel buio, e mi stupisco di quest’ombra dolce che si staglia da lui, per venire ad accarezzarmi. Mentre dorme, la sua presenza raccoglie nel palmo del buio i sentimenti; li culla e li quieta.

Vicini, ombra nell’ombra. Il respiro dell’uno a rassicurare l’altro. E il calore senza parole del corpo.

Ancora mi stupisce di vederne il profilo, al buio, davanti a me. Ancora mi meraviglio di tutto quello che ci ha portati fino a questo punto; a ritrovarci di fronte, vicini. Come se non avessimo innescato bombe e orologi, trabocchetti. Come se non avessimo le molle e le plastiche a pezzi, nei ricordi, degli oggetti scaraventati in mezzo alla rabbia per terra. Gemiti di richieste negate. Il corpo che si allontana. Solitudine, sprezzo. L’epilogo scontato di una tracimazione lunga.

In ogni momento, in ogni esperienza di ogni giornata degli ultimi anni, si era infiltrata l’assenza.

La porta di casa si apriva sul risucchio del mondo, la mattina, e la distrazione delle azioni, subito in presa diretta con le giornate. Insieme ai ritardi, i: “Non ci sono nemmeno questa volta…”, e i doveri indossati insieme alle scarpe, la mattina. Scarpe che portavano lontano. In luoghi di vittoria, soddisfazioni sul lavoro, e nuovi doveri.

Sono rimasta indietro, o avanti, comunque sulla mia strada in solitaria, fra mani di bambino tenute per strada, compiti, visite ai nonni, vacanze e amici, imprese mie e solo mie, soddisfazioni. Un tramonto fresco di primavera respirato ad occhi chiusi, la vita che brillava intorno, mentre lui era in qualche ufficio.

Poi il suo lavoro, e la nostra vita, si sono trasferiti negli Stati Uniti, e l’assenza si è fatta solida, ha preso la forma di una casa grande sperduta fra gli alberi di una zona residenziale della Capitale, boscosa e isolata. La vita scorreva nel silenzio delle strade, e di ore lunghissime. Si centellinava sulla tastiera del computer, i lavori nel giardino, le attese dei figli, osservare gli scoiattoli saltare sui rami degli alberi. E vedere i rari passanti, ognuno con una sua vita piena e luminosa, chi a fare jogging, chi in compagnia di un cane, o parlando al telefono con un’amica.

Io, intanto, scoprivo una minaccia di salute, e poi mi portavo addosso il peso di un intervento sbagliato.

Mentre i miei genitori restavano da sollevare dai loro problemi, e i bambini da accudire, la casa da seguire. La battaglia del corpo che ce la fa, della mente che non cede, che andava vinta ad ogni costo. Fino a un giorno in cui, guidando, osservavo un albero avvicinarsi al vetro della mia auto e non sentivo di dover fare niente. Il cervello, ancora in parte sotto l’effetto dell’ultima anestesia, guardava senza reagire. I piedi hanno frenato e le mani girato il volante, all’ultimo minuto. E gli occhi hanno pianto per dover fare quel tragitto da sola, di nuovo, anche se era troppo presto, anche se avrei dovuto essere accompagnata.

In quel momento la mancanza è diventata una presenza. Incarnata in uno sconosciuto che ascoltava la musica in cuffia, la sera. Che si allontanava la mattina, con lo sguardo macchiato dal peso di vivere. La valigetta da lavoro in una mano, e il passo deciso di chi si affrettava verso il nulla.

Avrei voluto fermarlo. Sapere cosa dire e cosa fare per lui. Sapere come farmi includere nelle sue giornate, nei suoi sentimenti. Ma l’auto lo portava via, senza un gesto che contenesse un pensiero per chi restava. Chiudevo la porta e tornavo alla mia guarigione.

Mi ci sono appoggiata, come a una stampella malferma. Ho cercato di rafforzarla, di curarla e lucidarla, per sostenermici fino a riacquistare il colore normale della pelle e della speranza sul viso. Finché i fiori hanno cominciato a parlare di rinascita bianca e profumata, sulle siepi e i primi spruzzi di colore sugli alberi. Ho pensato che anche noi avremmo potuto tornare a sentire e vedere, annusare la vita insieme con una pienezza di nuova stagione. Ho organizzato una gita in bici con gli amici e i bambini, per pedalare sotto gli alberi in fiore.

E quello è stato il momento in cui:  “Non provo più niente”  è arrivato.

La gita in bici sotto i fiori è diventata una bolla informe di suoni, di voci e colori, in cui io galleggiavo, e tutto il mondo intorno era bello, bellissimo, e io non ne facevo parte.

Nei giorni successivi lo sconosciuto mi allontanava, e al tempo stesso vorticava nello sguardo macchie di dolore scuro. Lo vedevo e non potevo fare niente.

Nel buio, adesso, davanti alla sua sagoma che dorme e alla sua ombra che mi abbraccia mi chiedo come abbiamo potuto farcela. Cosa ci ha riportato qui. E mi viene in mente Zelig.

L’avevo incontrato, la prima volta, a vent’anni. E avevo tanto riso quando finiva in carcere per il suo strano potere/condanna di assumere i connotati di chi gli stava di fronte. Ma mi ero anche sentita spiata al contrario; messa sotto un gigantesco specchio, grande come lo schermo del cine. Che mi mostrava, ingrandita fino a coprire tutta la parete di fronte, quella particolare fibrillazione che a volte provavo in presenza di un interlocutore. Di una presenza difficile. Anche io, come Zelig. Come se il corpo e la mente si mettessero a vibrare alla ricerca di una frequenza comune, provando in tutti i modi a sintonizzarsi con l’altro. A costo, a volte, di capitare in zone pericolose, o se non altro sconosciute. Dove finivo nei momenti in cui tremolavo dentro, mi disintegravo per ricompormi e piano piano assumere i comportamenti, la voce, persino la postura che l’altro si aspettava da me? O che immaginavo si aspettasse.

Negli Stati Uniti, rientravo a casa per trovarmi di fronte allo sconosciuto e davanti a lui si smaterializzava ogni sogno e ogni volere, ogni sentimento che fosse vero e puro. E si ricomponeva in forme diverse e offuscate, piene di rancore e di parole sbagliate. Era Zelig ad agire per me, e ad inscenare i risentimenti dovuti, le recriminazioni del caso, le disperazioni da copione. Mentre io continuavo a precipitare senza fondo, senza appigli, dentro gli imbuti di giornate senza fine. Senza poter decidere che direzione prendere, riuscendo solo a cadere.

Finché, un giorno, Zelig è morto.

Dopo l’ennesima discussione su come era accaduto, e perché, e per colpa di chi… non c’era più niente a cui adattarsi. Non c’era più niente da interpretare.

“Sto soffocando, devo andarmene presto”, ha detto lo sconosciuto. E io ho ingoiato un dispiacere che mi ingombrava, dentro, come un bicchiere di vetro freddo, che non si muoveva e non mi lasciava mangiare, non mi faceva dormire, non mi permetteva quasi di respirare.

“Ma come fai a sopportare questo?”, mi diceva qualcuno. “Io me ne sarei andata subito!”, diceva qualcun’altra.

Ma Zelig non c’era più, non stava lì a tramutarmi nelle aspettative altrui, negli usi della società e nemmeno del senso comune.

C’ero io, che restavo immobile fuori, mentre dentro avevo deciso di cambiare. Di sgombrare la strada dagli impicci del “si fa così”, “è inevitabile…”, “a una certa età…”. E liberare il campo per qualcosa di nuovo e impensato, di anticonformista, di libero davvero.

Senza Zelig sapevo che sarebbe stato possibile. Che avrei di nuovo potuto stare di fronte all’uomo che mi aveva conosciuta prima che il mio viso cambiasse. Prima che i miei genitori invecchiassero. L’uomo che aveva conosciuto tutti i miei amici, prima che li perdessi di vista, e i miei sogni, anche quelli mai realizzati. Che aveva salpato con me da Firenze, verso la nostra vita giovane e indipendente. Che aveva portato a casa i nostri bambini dagli ospedali dove erano nati, e li aveva accolti suonando una ninna nanna, con la chitarra, per loro. Che non aveva mai paura, e mi aveva fatto milioni di sorrisi.

Sapevo che stava ancora da qualche parte, che non era scomparso per sempre. Che la sua forma sconosciuta era solo uno Zelig che gli imponeva di essere un uomo troppo preso dal lavoro, e in crisi di valori, stanco, stufo e scontento.

I nostri due Zelig si erano parlati anche troppo, entrando in una cassa di risonanza senza speranza. Un crescendo di reciprocità e vendette dalle quali non si poteva uscire.

Ma io adesso non rispondevo più a quella vibrazione. Guardavo solo indietro, a quello che era. E avanti, a quello che poteva essere.

Con il dolore e la paura, dentro, che piano piano si scioglievano in una visione. Noi, in un nuovo modo, impensato. Un modo di condivisione e di leggerezza.

Il vetro si è squagliato lentamente, un pezzetto per volta, e ha colato una visione trasparente e pura. Creare qualcosa fuori dagli schemi soliti. Nostro. Vero. Navigare di nuovo verso qualcosa, qualsiasi cosa, insieme.

Il nostro quartiere strano, separato da tutto, così isolato e lontano dagli agganci soliti della mente, non sarebbe più stato la tana ostile della disperazione, ma il covo silenzioso e verde dove guardarsi e parlare. Dove raggiungere lo sconosciuto, senza paura, e porgergli il sollievo di un affetto. Causando pianti o sorrisi al riparo dagli sguardi, e smentendo ogni previsione, in una libertà appartata. Immaginando, da soli, un finale diverso per la nostra storia.

Un finale in cui ci sono due ombre che si intrecciano, la sera, sul letto. Una mano che si allunga, al posto della voce, e che riposa nel calore dell’altro. Una dolcezza che sa cullare i pensieri fino a confonderli, e a sfocarli nei colori del sonno, per portarli in un sogno leggero.