Mentre mia figlia nasceva io dormivo. Mentre il mio corpo generava per la prima volta un altro corpo io non c’ero, non contribuivo in alcun modo; cacciata via dalla mia vita a forza, dall’anestesia totale.
Tante immagini mentali di sforzo, di dolore e grande gioia finale, tanti racconti di anomalie, tragedie, paure e lieti fini… la mia prefigurazione del parto aveva bollito per anni in questo calderone di spaventi e aspettative e adesso, cosa c’era? Un vuoto della mente. Nemmeno dei sogni, delle sensazioni vaghe o, almeno, il nero: le ore in cui davo alla luce una bambina erano state uno spazio del niente.
“Si trova in posizione podalica, dovremo procedere con un parto cesareo”, aveva detto il ginecologo a uno degli ultimi controlli. Perché nonostante il mio corpo si contorcesse fra le contrazioni da settimane, nonostante il gran movimento dei muscoli che andavano a onde, schizzi e increspature di dolore, dell’unica mossa importante, del ruzzolone che porta il bambino con la testa nella direzione giusta, non c’era stato nemmeno l’accenno.
La mia pancia cambiava addirittura forma, con bozzi che si spostavano qua e là, e dovevamo monitorarla, ammansirla con le medicine e tenerla ferma perché, non si sa come mai, a volte succede così: la creatura vuole nascere troppo presto e alla mamma tocca stare con il corpo immobile e una flebo per braccio, nelle braccia bloccate sul lettino.
Distesa, ferma a giornate, avevo usato il tempo per prepararmi a questo, a non poter contribuire al parto. Al fatto che di tutte le cose immaginate, le esperienze raccontate e le notizie lette sui libri, non avrei sperimentato niente.
Lo avevo bene in mente. Ci pensavo anche mentre l’anestesista mi faceva contare a ritroso; mentre, insieme al “tre”, era arrivato il nulla ormai atteso.
Eppure, dopo, l’assenza in cui mi trovavo mi ha colta di sorpresa. Dopo uno spazio vuoto, che per me era durato un attimo, non c’era più il pancione. C’erano ancora le contrazioni, invece, e tutte le forme di dolore possibili, peggiorate dai tagli dentro la pancia, giù dai muscoli fino agli organi interni, i nervi più delicati, i tessuti più suscettibili.
Fra le mareggiate della sofferenza balenava ogni tanto nella mia testa l’idea che la pancia era vuota, adesso, e io non avevo ancora visto la mia bambina.
“Fatemela vedere…” chiedevo fra uno spasmo e l’altro, ma i dottori scuotevano la testa: “È ancora in incubatrice, non si può spostare”.
Perché nonostante le braccia piene di aghi e l’immobilità, nonostante tutti i fili connessi con il ventre e le macchine che facevano bip a settimane intere, il mio corpo aveva deciso che era l’ora: la bambina doveva uscire. Prima del dovuto, di piedi, e senza la mamma.
Mi dispiaceva per lei, per tutte le cose a cui andava incontro per essere nata prima del tempo.
La immaginavo al caldo nel suo posto sicuro, dentro di me, e lo sgomento di esserne strappata. Senza trovare le mie braccia e il mio calore, una volta fuori. Senza trovare il mio latte che, inutile, gonfiava dentro il seno e faceva male, bruciava, sgorgava da solo fino a inzuppare il letto.
Non eravamo state insieme nemmeno un minuto… Non avevo nemmeno visto che forma aveva.
Di notte, quando il dolore ancora non si era placato e ho provato di nuovo ad alzarmi per andare a trovarla, di nuovo mi è girata la testa per qualche dispetto dell’anestesia. Allora mi sono rimessa a letto, ferma. Ma questa volta mi sembrava che qualcosa mi parlasse, e mi sono messa in ascolto.
Una sensazione netta, come una voce, mi ha detto che era stato tutto al contrario. Non era uscito niente da me, niente mi era stato staccato. La mia bambina l’avevo vicina, potevo sentirla come se mi stesse accanto e ancora più vicino, come se io le stessi accanto, stretta insieme a lei nell’incubatrice. E poi ancora più vicino a lei, ai suoi pensieri, alle sue sensazioni.
In una luce calda. Un respiro tranquillo e un’attesa che non aspetta niente.
Essere morbidamente dentro l’essere, senza altro che questo.
Era serena, non mi sentiva, non mi cercava, non le mancavo. Non ne aveva bisogno. Perché era lì, con me. Era come un calore che avevo intorno e una luce che parlava senza dire. C’era, era. E io ci stavo dentro.
Ho sentito chiaramente questo, quella prima notte. Che la maternità non mi aveva espulso fuori una creatura, ma aveva messo me dentro questo spazio di esistenza. Una forma grande, in cui ero l’unica presenza.
Due giorni dopo la bambina l’ho vista, l’ho presa fra le braccia, l’ho allattata, ed era tutto naturale, come un riconoscimento. Guardavo i suoi occhi allungati da neonata e le sue braccette magre, sentivo il corpicino leggero, dentro agli involucri delle coperte, e continuavo a sentirmi dentro quello spazio amorevole creato da lei; una bolla grande dove c’ero solo io, dentro, e bastavo.
Siamo andate a casa, a iniziare la vita di una piccola famiglia, sempre accompagnate da questa sensazione. La vedevo crescere, aprire lo sguardo sulle cose, e poi afferrare, emettere suoni, alzarsi, camminare. Nei grandi prati di villa Pamphili, a Roma, scoprivamo insieme i colori dei fiori, i profumi dell’erba, i riflessi dell’acqua sul lago.
C’erano altri bambini che si avvicinavano, che prendevano oggetti da lei, e lei li prendeva da loro. Vedevamo i nostri amici e lei accettava le carezze e i sorrisi di tutti, si compiaceva dell’attenzione per un po’ e poi si addormentava tranquilla, cullata dalle nostre voci. Viaggiavamo con lei sulle spalle. Per sentieri di campagna, in Toscana, e su quelli di montagna, in Abruzzo. Osservavo i suoi occhi fissare i paesaggi e ancora sentivo le sue impressioni, ero dentro alle sue emozioni.
E così ha continuato ad essere anche quando ci siamo trasferiti in Siria. Nel piccolo asilo pieno di bambini di tutti i colori, o per le strade fra le donne velate che si fermavano a farle i versetti e darle i baci; nei giardini vicino a casa, coperti dai ragazzi che uscivano da scuola nelle loro uniformi in stile militare.
Nella bolla entravano e uscivano altre figure, altri spazi, altre azioni, ma io ci vivevo completa, immersa; un’ esistenza che aveva bisogno di poco altro.
Aveva tre anni quando due bambini, nei soliti giardini, le hanno tagliato la strada, mentre lei cercava di salire sullo scivolo. Loro sono arrivati subito in cima mentre lei iniziava, attenta, a salire i primi gradini. I bambini siriani hanno scivolato in fretta e di nuovo l’hanno superata, spingendola di lato, mentre lei ancora si arrampicava sulla scaletta. Sono scattata su dalla panchina e mi sono lanciata su di loro.
“Ma che fate? Lei è piccola, lasciatela in pace!” ho detto in arabo. E quelli, confusi, hanno abbassato la testa, sono scesi e scappati via.
La mia bambina mi ha guardato, dispiaciuta: “Perché? Noi giocavamo…” ha detto con una piccola voce; ed è rimasta sola, finché siamo tornate a casa.
È iniziata con quel piccolo episodio, con quel piccolo dispiacere, la mia gestazione dentro la bolla. Che era fatta ancora di amore puro, ed era ancora piena delle mie attenzioni. Le quali però, sempre più spesso, urtavano contro qualcosa. Perché nella bolla continuavano ad entrare tante cose. Amici, delusioni, entusiasmi e sofferenze. Insegnanti, nemici, amori, maestri. Lo spazio si restringeva e io cercavo di farmi piccola, di saltare di qua e di là per non ingombrare. Senza riuscirci.
“Come sta andando il viaggio, amore?”
“Come pensavo, uno schifo”.
“Mi dispiace aver insistito per farti partire, credevo che ti saresti divertita…”.
Era una gestazione al contrario, quella dentro la bolla, in cui il resto cresceva, e io, sempre più piccola, occupavo comunque sempre troppo spazio.
E siamo arrivate all’adesso, a questo momento strano in cui io non sono più figlia, e mi soffiano addosso gli spifferi di tutti i sentimenti. Così, su una pelle scarnificata dalla mancanza di mia madre, sento ogni piccolo movimento delle anime altrui.
Mi soffiano addosso i pensieri faticosi di chi deve crescere, senza sapere se ne avrà il coraggio. Come siamo cresciuti tutti, senza sapere.
Le insofferenze di chi ha già troppe cose, ormai, fra le mani, e non può gestire anche la mia presenza, il mio fare ipotesi, suggerire consigli, preoccuparmi. Non può dare considerazione all’amore e le sue forzature, le permalosità, le lotte per uno sguardo.
Capisco che devo ripensare alla notte del parto, e alla bolla. Al mondo caldo e univoco nel quale sono entrata quella notte. E decidere che è arrivato il momento, per mia figlia questa volta, di espellermi dalla sua vita. Un parto al contrario, fuori dalla bolla.
Farà un po’ male, come ogni parto; si passa da un luogo a un altro e ci si deve adattare alla nuova posizione. Ma in fondo sarà un parto naturale, in cui lei semplicemente continuerà a fare quello che faceva, e io, semplicemente, non ne sarò più parte.
Quando il processo sarà finito, io sarò nata. Sarò altro, sarò fuori, sarò in un luogo di amorevole essere, senza aspettative. Sarò nata e guarderò mia figlia che si muove, che soffre, che si ammala. Che si diverte e sogna, fa progetti, capisce.
Guarderò da fuori, da questa posizione nuova e comoda, importante. Una posizione da cui, per la prima volta, sarò fuori dalla bolla; e potrò abbracciare tutto quello che contiene.
Mamma mia Fra, mamma mia …. che racconto e che anche coraggio di metterti a nudo . Spero che tu figlia legga per far tesoro delle esperienze di sua madre. Scrittura mirabile, , brava è un po’ riduttivo . Vita vissuta e raccontata noi entrati nella tua vita , sbalzati nella tua vita