Prova

Un racconto inedito di Matteo Marchesini.

di in: Antologia

Niente, troppo storto. Eppure non dev’essere simmetrico. Non del tutto, almeno. O sì? No, non gli sembra. Ricorda un lato del nodo sempre un po’ più lungo, più inclinato.

Chiude gli occhi, ripensa alle cravatte che ha visto. Nulla, solo nero. Li apre, li richiude. Ora gli è rimasta sotto la palpebra la crepa dello specchio che ha davanti. Stringe, finché i muscoli s’indolenziscono. La crepa va via, ma il nodo non appare. Evoca le volte che ha notato quella cravatta addosso a suo padre. Cerca di allargare la scena allo sfondo delle camicie paterne. Si stira, torce il collo. Poteva scegliere una di quelle camicie, in effetti. Anzi, l’aveva scelta. Stava già per mettersela. Ma poi Giulia: “Ti casca troppo larga, tiè”. Non aveva fatto in tempo a risponderle che i suoi tacchi ruzzolavano per le scale. E lui lì, con la croce in mano come uno scemo. Solo che questa gli va stretta proprio: ha già due anni, l’ha comprata con lei da Zara per il saggio di teatro di quarta ginnasio.

A suo padre quel saggio non era piaciuto neanche un po’. Carlo se n’era accorto subito, appena risalito nel foyer dell’Arena.

“Che bisogno c’era di vestirvi da mezzi avvocati? Mezzi avvocati voi, e le tue compagne mignotte” aveva detto un’ora dopo al ristorante.

“Pietrinooo… Sono stati bravi invece”: Milena subito, in uno dei suoi urletti, con la mano all’interno gomito di lui. “…sì bravi, proprio bravi! E tu poi Carlo, il principe…”.

Non potendo fermare Pietrino, lo copriva col suo timbro stridulo. Sembra sempre che abbia l’eco, quando parla. Un pacchetto di pop corn che scoppia sotto la suola, e l’aria che esce loffia.

“Ho detto: mezzi avvocati e mignotte intere”.

Ancora suo padre, senza appello. Aveva calcato sul termine, più solenne che violento, e Milena sussultato come se fosse in causa. Proprio così aveva pensato Carlo, in causa, per un attimo godendosela. Intanto lei frustava il bordo del tavolo col tovagliolo. Un gesto da piccola torera, olè. Finto, come tutti i suoi gesti. Il tovagliolo ricade giù soffice, mica fa male: è una bizza, non si rompe niente.

Per questo l’aveva tenuta così a lungo con sé, suo padre. Quasi compiaciuto della banalità: il professionista vedovo che ratifica il flirt con la segretaria. E i bambini piccoli come scudo al coming out, nei primi tempi, ogni domenica all’uscita su piazza Santo Stefano. Ma Giulia mordeva, fin da subito. Le calciava i tacchi mentre oscillava sull’acciottolato. E Milena smorzando: “uh-uh che cattivella”. Con quella voce da lagna, sempre. Una voce naturale, per lei, almeno quanto sono artificiosi gli intenti che copre. Mai guerra aperta, la Milena. Tesse intrighi, al massimo fa la vittima. Infida. Stupida ma infida. Stupida perché infida, o viceversa. Sono una bambina, ecco il senso di ogni sua mossa. Anche quella sera: si era scostata e aveva fatto il broncio. Uffa, cos’è che volete da me? Ve’, adesso ripesco il tovagliolo e mi pulisco la bocca. Pure la tua tesoro, guarda. E ne aveva passato una punta sulla faccia del tesoro, tra il labbro e i baffi sporchi di sugo. Pietrino però aveva alzato il braccio buttandolo per terra. Carlo ricorda Milena che si china – quante volte si chinerà così, con lui che le preme la mano sulla nuca?, aveva pensato allora – e suo padre che l’anticipa fermando il tovagliolo con il piede. “Ma cosa gli è saltato in mente, al tuo regista?” diceva intanto, tenendo gli occhi fissi su di lui. La torera non aveva fatto che aizzarlo, e adesso caricava a testa bassa. “O è Amleto, o è l’Opera da tre soldi, o è un film americano con gli intrighi, le multinazionali e tutte le balle varie… Invece così non è niente”. Aveva tirato il fiato, boccheggiando come se non gli arrivasse aria. “Non è niente, quel fritto misto pretenzioso, e voi non imparate un cazzo. Come sempre”.

Al cazzo, anche Giulia aveva alzato gli occhi dallo smartphone. Suo padre era brusco, ma non volgare. Non in quel senso volgare della parola volgare, perlomeno. Gli avevano dato fastidio le allusioni al capitalismo finanziario. Lo schermo da iPad come scenografia, con sopra il teschio di Yorick e gli indici di borsa a scatto continuo. Il tutto mentre il giovane principe s’aggirava in mezzo ai cavalieri armati di ventiquattrore che urtavano contro gli spadini: manager impazienti di prendersi una fetta di Danimarca, proprio come quelli che difendeva lui – pochi però, perché era un avvocato troppo piccolo.

“Possibile che parlate come noi quarant’anni fa?” aveva continuato sputacchiando. “Ma dove li prendono, ‘sti insegnanti di teatro? È uno di sostegno? Uno che campa di laboratori? Un professore di filosofia frustrato? Che poi se l’idea era quella degli squali borghesi, dio che parola idiota, potevano mettervi almeno la cravatta. O era per fare più start up? Ma allora una coreana. Sbagliato, tutto sbagliato. Avrei voluto gridargli dietro, quando è venuto fuori per gli applausi. Voi passi, ma lui là avrà cinquant’anni. Dev’essere nato nel ’68 o giù di lì. Un sessantottino in fasce, ecco sì, proprio un sessantottino scemo”.

“Perché, non erano già scemi i sessantottini doc?”: Giulia, senza più alzare gli occhi, col pollice che scrollava in moto perpetuo il cellulare.

Qui il toro sarebbe potuto esplodere in una delle sue ire smisurate – le mani in aria, il boato che da piccoli li terrorizzava. Ma appena una manciata di anni dopo, quelle tempeste erano già patetiche. Non lasciavano traccia, solo una bava di malinconia. E adesso era lì, vecchio, sul punto di alzarsi come per un brindisi. Sembrava pronto a dare una replica da mangiafoco, la sedia strideva già – invece eccolo fermo, a un tratto, quasi si fosse scordato il gesto buono.

Al suo posto, una bava vera gli era colata dal labbro. Niente sugo, stavolta; ma la torera non accorreva più. Mordeva i moscardini, inzuppava il pane assorta. Era uno di quei momenti di soddisfazione totale in cui la sua aria futile spariva, e diventava quasi maestosa. Sembrava che qualcosa l’avesse riempita all’improvviso, interamente. Danae, era venuto in mente a Carlo, fresco della versione consegnata il giorno prima. Quattro meno, ma non si era lasciato buttar giù. Era stata la volta che Marco aveva tradotto pioggia dorata. Segno rosso, errore lieve, e nessuna reazione della prof. Neanche Milena là, nessuna reazione. Niente estasi: semplicemente una resa. Sembrava che le grida e il cibo le avessero asportato la coscienza imbottendola di una sostanza appiccicosa, come un imbalsamatore asporta le interiora e inietta in un corpo la resina. Dormiva con gli occhi aperti. A valve spalancate, come il mollusco che stava succhiando: svuotata e guarnita.

Dev’essere così quando viene, pensa ora Carlo stringendo la cravatta. Ultimamente la sogna molto. Più la disprezza, più nelle fantasie dilaga. Sui boxer che butta in fondo alla cesta da lavare, la sborra gliela munge quasi sempre una sua immagine. Tema con variazioni – più violente ogni giorno, criminali. Prima del sonno, al quasi risveglio. Tornato da scuola. E dopo, al pomeriggio, la gran fatica di tirarsi su. Un secondo e mi alzo, pensa tutte le volte. Invece dorme fino alle sei con i vestiti appiccicati. Poi mal di pancia, scarica. Poi scende, beve lo spritz con Marco, e mentre lui indica le donne sotto i portici di Castiglione prova ormai solo disgusto.

Poi di nuovo lei, la notte. Da settimane lei. La sua faccia assorta davanti a qualunque tortura. Facial: schizzare su quell’impassibilità mentre continua imperterrita a fare quel che sta facendo – sgranocchiare un fritto, provarsi allo specchio un vestito animalier.

Intorno a Milena, le altre femmine si sono ridotte a comparse. Strano davvero, dato che di solito non gli durano più di due o tre giorni. Spesso si avvicendano rapide in una sola sega, appena il seme inizia a risalirgli il gonfiore. Come angeli che nascono, levano il loro canto e svaniscono nel nulla. Dov’è che l’ha sentita questa? Il catechismo forse. Preparazione alla cresima. L’ultima messa, la sua prima cravatta. L’unica. Era stato suo padre a mettergliela? No, e neanche Milena. Magari Giulia, o la donna delle pulizie. La vecchia, Elide. Morta anche lei, gli avevano detto, poco dopo che era tornata a Modica.

Chiude di nuovo gli occhi, poi li strizza forte. Adesso la cappella sfiora il lavandino. Prova a pensare a quello che lo aspetta fuori: la bara, la macchina nera e oblunga su via D’Azeglio. Giù in strada gente con le dita sui vetri, sui fiori. Becchini come buttafuori, mani giunte al cavallo dei calzoni. Forse anche loro… e suo padre che dentro marcisce, e Milena giù a piangere. Falsa come al suo solito – dunque nel caso vera?

Ma no, niente da fare. Anziché spegnersi, l’erezione gli pulsa dolorosa. Apre la lampo, sporge il cazzo sotto l’acqua fredda. Asciugamano, braccia giù. Respira: riproviamo. Basta non pensare. Non sentire piacere né dolore. Guarda il telefono, deve fare in fretta. No no, fa’ piano invece. Rapidità non fretta. Riproviamo.

Cerca di visualizzare la cravatta in qualche altra occasione, ma torna sempre fuori il bagno del Rosso; e nella scena il nodo è già lento. Glielo aveva allentato lui? Naaa, non doveva essere stato così pronto. Anche morente, suo padre l’avrebbe preceduto. Lo immagina bene: al primo mancamento palmo alla gola, subito. Impedire a tutti i costi la deriva. Però la bava si era allargata comunque sul blu – quella non era riuscito a trattenerla. Avrebbe dovuto provarci lui, solo che proprio non ce la faceva. Non ce la poteva fare, a toccarlo. Come dopo. La merda. La piscia nei calzoni. Suo padre alla fine, che stava in piedi a stento appoggiato allo stipite del bagno. Proprio quel bagno lì, soprannominato il cessaruolo – l’altro, il bagno sontuoso voluto da Milena non lo usava mai, lo chiamava il Casamonica.

Quand’è stato? Due settimane, non di più.

Carlo sfiora lo stipite, e si stacca come se avesse preso la scossa. Fa una smorfia che un attimo dopo è già un conato, si volta, sputa nel cesso. Basta un flash, ed è come se in testa gli entrasse tutto il mondo assieme – ogni piaga, ogni fetore. Come una mano che te li spinge in bocca: impossibile resistere. Bisogna prendere le cose all’inizio, dopo è sempre tardi. Non si fermano più. Tracimano, rimescolate a caso fanno gorgo – un soffocone. Impossibile trattenerle, e trattenersi. E allora hai subito la vergogna addosso, sulla pelle. Come davanti a Elisa, quando è venuto troppo presto. O dopo la papera in scena nell’Amleto. Aveva detto “marzo” al posto di “marcio”. Prima di diventar marzo. Dietro le quinte Lele gli aveva fatto una carezza sulla nuca – segno che l’errore era grave, la pena incorporata senza bisogno di rimbrotti. Infatti ecco il sudore freddo in camerino, e la diarrea dopo. Come a volte di mattina, arrivando al liceo, con l’odore del forno lì di fronte che gli dà la nausea. La pancia gli si gonfia, allora, anche se resta una colite secca. Ma è il senso di vulnerabilità senza riparo a sconcertarlo: è come se qualcuno lo titillasse dentro, quasi lo dilatasse. Un’umiliazione assoluta. Impossibile sottrarsi, trovare un nascondiglio. Il corpo gli si strizza e allarga, sembra che debba rompere la pelle, e mentre succede ha sempre paura di fare un gesto irreparabile. È come con l’hashish di Marco, uguale – solo che quello dilata anche il tempo, e più il mondo rallenta più si espande dentro.

Così era ieri sera, quando è rientrato dalla camera ardente. Il portinaio che socchiude il vetro, “condoglianze ancora”, un fiato che sa di minestrina andata a male. Si parlavano come due pesci nelle loro bocce d’acqua. Per scuotersi via quel ralenti Carlo aveva fatto due gradini a falcata: su dritto in camera, sega veloce e gelo all’inguine, pulizia nel cessaruolo. E lì mani sul termo, a sfiorare un assorbente. Sopra restava poco sangue, appena un filo bordò al centro: Giulia è impeccabile persino nel ciclo. Le miccette di Milena invece, certe macchie strisciate sul cestino del Casamonica…

Ma anche nei cessi, già ieri tutto era tornato in ordine. Eppure c’era puzza. La sente anche adesso. O è solo un’impressione? Puzza, comunque. Puzza di morte anche dove non c’è. Una ressa acre nel cranio, nel palato. Ecco che cosa intende, quando prova a spiegare a Marco com’è venire invasi dalle cose. Bisogna fermarle, fermarle subito prima che si mischino. Anche quella sera al Rosso. Se Milena avesse continuato a premere il tovagliolo sulla faccia di suo padre, se suo padre non lo avesse buttato per terra…

Perché era cominciata lì, la colatina di bava. A fine sfuriata sull’Amleto. Prima d’iniziare la sfuriata vera. Iniziata per la sfuriata, sembrava. Al posto. O in un sussulto di gola, appena riaffondati i baffi nella zuppa. Invece di tuonare, il padre si era tolto il tovagliolo dalle gambe, era scattato in piedi e aveva scandito “vado in bagno”. Senza rabbia, quasi un po’ perplesso. “Vado in bagno”: come uno che si rassicuri. E all’ultima sillaba faceva già lo slalom tra i tavoli, sempre troppo stretti, barcollando.

Dopo venti minuti non era ancora tornato.

“Ma cosa fa?” aveva detto Giulia. Con un filo d’allarme nella voce. O è il senno di poi? Ma no, lei le sentiva le cose. Presagiva. Scorreva Instagram come se avesse potuto continuare all’infinito, ma non perdeva mai di vista niente. Se alzava lo sguardo, per non incontrare quello di Milena lo fissava sulla tv in fondo alla sala. Sky Tg 24: strage islamista a Parigi, sirene e transenne.

Non parlare con la compagna del padre era un voto dell’infanzia. Come fosse riuscita a rimanergli fedele, Carlo non lo capisce proprio. Forse Giulia sa che violandolo sparirebbe. Puff – niente voto, niente voti. Tutta la sua efficienza revocata. Le sue vittorie al decathlon delle teenager (scuola, pallavolo, emulazione delle trentenni) rovesciate in sconfitte all’improvviso. E lo stesso, forse, se si fosse lasciata fiaccare nei litigi. Meglio fingere l’inesistenza, invece. Una tattica divenuta prima strategia, poi religione. Cordialità. Addì. Con la presente. Negli orari stabiliti. Non saranno ammesse deroghe. Milena cercava la complicità con lui, allora, che non regge i voti più di un pomeriggio – anzi di pomeriggio meno che mai. “Ma che bravo, ma che bello spettacolo” aveva ripetuto quella sera mentre suo padre era in bagno; e la lingua, nel frattempo, le si allungava a raccogliere un’acciuga. “Eri un Amleto perfetto. L’ha detto anche la madre di… quella vicino a me, la figlia è scura, un po’ grassa sui fianchi, com’è che si chiama?”.

Frasi come gorgheggi, pura espressione del piacere che la stava colmando. Avrebbe potuto dire ugualmente com’è leggero questo Greco, che bella strage che c’è al telegiornale. E tra i pezzi di frasi, il palato come un essere a parte che risucchiava il pesce. Carlo piegava la testa per non pensare, ma il pensiero deviava solamente. Guardava le dita di sua sorella strette sul cellulare, e si chiedeva se ne avesse già preso uno in mano. In bocca. Che domanda idiota: quando veniva il ragazzo di studio, due volte alla settimana. A ritirare le carte. La porta chiusa della libreria, una mezzoretta. Se fosse stato svelto come Marco, avrebbe nascosto la cam tra gli scaffali – ma no, è che non voleva.

Il pensiero gli si era infilato nel collo come una biscia, e per scrollarselo si era alzato anche lui di botto. “Vado a vedere” aveva quasi gridato. Senza guardare nessuno. Ma intanto con la coda dell’occhio ricostruiva le facce stupite delle donne, le due bocche schiuse che gli arrivavano alla cintura. Altro pensiero infesto, a quel punto, e un brivido dentro le maniche – ricorda la torsione brusca della nuca, il modo in cui era sgusciato via canticchiando sottovoce.

Aveva trovato il padre davanti allo specchio del lavandino, coi palmi aperti sul marmo. Così lo aveva visto da piccolo, dietro un palco, alle assemblee di partito. Ansimava. “È occupato?” gli aveva chiesto accennando all’uscio della toilette. Lui lo fissava dallo specchio. La fronte scintillava di gocce. Per un momento era rimasto attonito, con l’aria di chi non capisce, poi aveva scosso la testa. Guardando meglio il riflesso, Carlo si era accorto che la bava colava ancora. Invano il padre si era girato piroettando, come se nascondesse un sosia con le braccia, per impedirgli quella vista indiretta e troppo limpida: le ginocchia avevano ceduto.

Il ricordo di quello che era successo dopo ha un sapore nauseante. Mentre quel corpo congestionato si afflosciava, Carlo aveva fatto il gesto di afferrarlo in un modo inutile, teatrale – e il padre se n’era accorto: perciò sventolava la mano in aria, allontanandolo come poco prima il tovagliolo. Quella luce ironica nella pupilla – c’era o l’aveva sognata? Certo è che il vecchio si era stretto al lavandino, riuscendo a inginocchiarsi al ralenti senza franare.

Era zuppo, puzzava. Oggettivamente puzzava. Sulla cravatta blu a fiori rossi, la saliva abbozzava una ragnatela. Grumo bianco, bollicine. E presto una chiazza scura sul torace. Era stato il primo segno: una settimana dopo gli esami, un mese per la diagnosi.

“Ve’ che disastro”: aveva detto lì steso nel bagno del Rosso, indicando la macchia con il mento. Disastro. Parola non da lui, parola femminile. Usata a volte per Carlo, ma solo quando non valeva la pena arrabbiarsi – tre sillabe, e la sua brava carezza in testa come Lele. Un insulto, a pensarci: recitava da madre per disprezzo. Disastro che sei. Lo accarezzava perché si vergognava del proprio disprezzo; ma non quanto del figlio che l’aveva provocato.

Chissà se lo vedesse adesso, con la fettuccia penzoloni. Ce l’aveva quasi fatta, ad azzeccare il giro giusto per il nodo; ma poi ha sbagliato l’incrocio, e ora ritorna daccapo un’altra volta. La bocca gli si piega nello specchio, la crepa la prolunga in un riso maligno. Sì, spera che suo padre lo veda. Che sia roso dai vermi ma che veda. Vorrebbe fare dei gesti anche più imbranati del solito, così – apposta per lui. Sorprendere il fantasma lì sul neon, la sua impazienza impotente. Ma è una frazione di secondo, e la paga subito con un nuovo conato. Prova a buttare fuori il pensiero cattivo, inutilmente: la macchia rimane. Non riesce a togliere la bava al ricordo. Se si concentra sulla cravatta è come se il padre lo abitasse, come se lo fosse. Finge un brivido per farlo uscire, alza le mani dal nodo quasi a prendersi di sorpresa, lascia che il tremolio finisca. Rabbia disgusto orrore – non trattenere niente, far fluire. L’unico esercizio che funzioni, alle prove di teatro. Respirare, tornare al punto zero. Zzzero, sibila Lele mentre fa il giro intorno a controllarli. “Se non respiri non reciti” gli sussurra all’orecchio sistemandogli le braccia. O invece è il contrario, solo se non respira recita? Anche a scuola è così, e con Marco: quando trattiene il fiato ha successo, quasi sempre. L’aria fluisce solo al pomeriggio, in camera – la pancia lenta finalmente, il sonno. Vive se non respira?

Rimette a fuoco lo specchio, espira a lungo finché gli esce un fischio. Guarda la biscia piatta, il triangolo che sfiora la cintura. Gli sembra volgare come tutte le cravatte. Eccetto quelle strette di maglia. Suo padre ne aveva, quando lui era piccolo. Poi erano sparite. Forse perché le portavano i commessi attillati in via D’Azeglio? Sembravano serpenti, quei commessi – sigarette sottili dal collo alle scarpe. Vedendoli passare sotto lo studio, l’avvocato storceva il naso e ne comprava di più larghe. Come la sua pancia. Certe uniformi, magenta o giallo o blu. Ma poche. Molte le fantasie, e ogni anno più vistose. Roba altrove pacchiana, lì quasi quasi fine. Chissà perché. Foglie. Macchinine. Soldati. Lingue, persino. Carlo non ha mai capito se a cambiare le cose fosse la cravatta in sé, come indumento, la spavalderia del padre nel portarla, o la posizione che gli permetteva quella spavalderia. Quante volte di mattina gli era scivolato alle spalle fingendo di allacciargliene una alla maglietta. “Ooo-op”. Carlo sentiva la punta di seta sulla guancia, all’improvviso – una biscia vera, biforcuta e viscida, e se la scuoteva di dosso come un pensiero infesto. Scattava cupo, stizzito: non rideva allo scherzo. “Ma non lo passi un periodo non dico fighetto, facciamo non so… un periodo di destra? Anche breve eh. Un periodo così, come dite voi… come dice quel tuo amico guardone che viene qui a far finta di studiare greco? Brenso? Ecco, breve ma intenso. Ti farebbe bene ve’, sulla distanza. Un po’ ridicolo al liceo, lo ammetto, ma non sono più ridicoli i fricchettoni firmati? Dài, va’ là che ci starebbe. Cravatta, il Giornale e Libero. Uno così, dopo può solo migliorare: va verso sinistra, ammesso che esista ancora, ma almeno consapevole. Il contrario di noi”.

Diceva cose così, suo padre, e intanto lo fissava standogli di fronte, a gambe aperte da duello western. Oppure, se erano in bagno, lo spiava di rimbalzo nello specchio, col suo fiato di sigaro a pizzicargli la mascella e il lobo. Un secondo, due, cinque: aspettava che Carlo ridesse; poi lo faceva lui, fragorosamente – ma con un fondo sempre freddo sotto, di molestia, come prima di dare un ordine brutale. Dopo l’infanzia la minaccia erano le risate, non le ire. Quando scoppiavano, il padre stava per dire una di quelle verità che fanno un male fisico. “Tanto lo so che sei un conservatore” sbuffava per esempio, rimettendo via la cravatta. “Non cambi niente, per te non dovrebbe cambiare mai niente. Cosa ci vai a fare, in quei centri sociali che hanno la birra chilometro zero e i massaggi shiatsu? Almeno tua sorella se l’è sbrigata subito. Fa le spallucce lei, tutte sciocchezze. Brava. Soltanto il suo particulare… neh Giulietta? ‘Arda lì che particulare, ti vedesse tua madre. Ma sei più grassa, ochetta. Lei quando l’ho portata su da Volla aveva cinque anni più di te e sembrava la Audrey Hepburn”.

E a sigillo, di là dalla porta, arrivava un risolino di Milena.

Sputa di nuovo: nel lavandino stavolta, e centra il buco. Apre l’acqua, e il gorgo risucchia tutto. Come i gorgheggi di Milena. E la sua faccia il buco. Ottuso più del culo, che ride sempre sotto l’arco della schiena. Sputarle sopra. Lubrificare. O a secco. Che non rida…  

Ma no, basta anche questo adesso. Ha nausea, solo nausea, anche più di quando Marco allo spritz gli indicava le passanti. Che patetici. Pateticissimi. Lui per primo. Non ne sa niente, in verità. Niente di lei. Che cosa pensa, e se pensa. È come il nodo, gli vien voglia di strapparlo solo perché non lo sa fare…

Dà un pugno allo specchio, ma lo smorza prima di toccarlo. La mano arriva aperta sulla crepa: appena un tintinnio; però poi vibra a lungo, intollerabile. Per non sentire riapre il rubinetto, resta a fissare il gorgo. “Vedi che qui va giù a rovescio?”: suo padre a Buenos Aires, l’ultima vacanza tutti assieme. Forse anche il nodo, se lo prende al capo opposto… Ecco, qui giù la punta. Ma no, neanche così. Coglione.

Adesso non si sente più le dita. Ha sbagliato, a indugiare sul Rosso. Basta una deviazione a perderlo, e arriva la paralisi. Tira su con il naso, si pulisce nella manica. Non vuole ricordare ma il ricordo è subdolo, una volta evocato non si lascia liquidare come un servo; e se nella mente trova un argine si riversa nel corpo, stagna al plesso. Carlo continua a sputacchiare a lungo, in un raschio che non diventa tosse: prima di accorgersene ha già iniziato a recitare sé stesso. Lascia colare il filo di saliva, adesso, lo spia che penzola-risale-penzola, si spalma sul cerchio d’acciaio, si spezza, fa corona allo scarico…

Sì, tutto è partito dal rivoletto in trattoria. Quel fiumicel… Cos’era? Ah il canto, da preparare entro stanotte. Strano come diventano assurde, le materie. Eppure anche chiarissime, come se non ci fosse bisogno di note. Tanto domani non lo interroga nessuno, quindi chìssene. Ma non è quello il problema, è il senso di affogare in una pozza. O come quando si mastica un boccone e non va giù, che resta quella poltiglia schifosa incollata al palato. Il ricordo ristagna nella testa, e fuori Carlo non ha fatto progressi: il fresco della seta sulla guancia è sempre lì, il solletico sui tre peli di barba si trascina dietro come una bava lo sguardo di suo padre.

Fingeva che fosse uno scherzo, infilargli la cravatta; ma era uno sfogo alla sua delusione. Perciò il gesto meccanico, sempre uguale, imbarazzante come una barzelletta ripetuta. E poi quella risata: grassa, sì, ma trattenuta nello sguardo sornione come un insetto nell’ambra. Non ci credeva, alla cravatta portata da Carlo. Non gliela vedeva addosso – non gli vedeva addosso niente. Era come quando gli spiegava qualcosa del lavoro. Il contrario che con Giulia. Davanti a lei sembrava soddisfatto, serio ma anche svagato, il professionista che dà per scontate certe cose con una collega. E lo sarebbe stata, anche se “mai nel tuo studio”: detto nel tono calmo e perentorio di chi non torna indietro – il tono Giulia, in tutto. A cui Pietro annuiva in fretta, trattenendo un sorriso. Impossibile dire se perché approvava o perché aveva escogitato un piano sottile per farla ricredere in futuro. Non si sapeva mai, in lui, quale fosse la verità e quale la recita. Era la sottigliezza o la rozzezza? Non si può mai sapere, quando uno è potente. Almeno per te. E suo padre per lui lo era, come per molti altri. La finta della cravatta, e il resto. Scettico quasi per principio, persino mentre gli dava istruzioni col suo puntiglio terroristico. Allora sì prendeva un’aria severa, ma come quella che si ha mentre si fanno i castelli di carte. Anche se cade il mazzo, non è già previsto? Plaf – giù come un tovagliolo, e il piede in faccia. Così era quel suo riso, la mattina: di chi schiaccia una cicca e si dimentica. Lo guardava come guardava i veci sprofondato sulla sedia del bar Miki. Ogni domenica alle tre era lì, per la partita a carte e le chiacchiere sui massimi sistemi, con tre ex compagni o colleghi alla deriva. Non gli dava fastidio che fossero così. Lo rilassava, anzi, che ormai non si potessero cambiare. Neanche ci sarebbe andato, a scherzare al Miki, se tutto intorno a lui non fosse stato irreparabile come il muretto crepato del dehor. Nessuno lo avrebbe aggiustato, non prima che lo rilevasse uno studio grafico per farci l’open space con pc e bici in vetrina – e soprattutto, nessuno avrebbe aggiustato i veci. Perciò poteva tirare il fiato. L’unica cosa da aggiustare erano le carte lasciate su in studio: concussioni, un po’ di spaccio, qualcuno che puliva i soldi. Roba così.

“Non preoccuparti che te lo aggiustiamo”: a un cliente che usciva, un pomeriggio assolato di maggio, mentre Carlo saliva a chiedergli le chiavi. Appena l’aveva visto la faccia gli si era aperta a un sorriso – solo che la serietà di prima era eccitata, e il sorriso malinconico. Come se sorridere a lui fosse spegnersi – “ah vabbè, sei tu, già t’ho capito”.

Senza rendersene conto ha pronunciato la frase a voce alta: col tono di suo padre, provando il sorriso. Poi è di nuovo lui – i pugni chiusi, la fronte proiettata verso il vetro. Sibila insulti, appanna lo specchio col fiato, si morde il labbro finché una goccia scura brilla nell’incavo del mento.

Non sei niente, scandisce guardandosi la bocca. Sei un morto di merda. Gli torna in mente quel tipo che gli dava ripetizioni alle medie, nel periodo che i personaggi storici gli sembravano tutti dei mostri sovrumani: “Oh, ma cos’è che ti credi? Napoleone adesso è solo un morto di merda. È morto, capito? Sei più forte tu”.

La stizza di non averglielo detto prima che si ammalasse, lì davanti, con la cravatta a lazo e le gambe aperte all’O.K. Corral – o ancora molto prima, quando gli faceva trovare il Tex mensile aperto all’ultima pagina sulla lavatrice del bagno vecchio, inchiostro fresco con l’odore di babbo intorno.

“Ah vabbè, sei tu, già t’ho capito”.

E lui allora: Non sei niente.

Due, tre, dieci volte.

Adesso pendola avanti e indietro dallo specchio, e già gli colano le lacrime. Un po’ d’altra bavetta, anche, venuta proprio come insegna Lele: prima immergiti tutto, poi non sentire niente. Ma sotto al niente sì, invece – la stizza, stizza sempre, che cresce quanto più perde il bersaglio. Tanto vale allora riprovare il ghigno. Così a freddo, ecco. Adesso il gioco è farsi leggerissimo, posare a gran clown. Il contrario dell’imbranato, che poi a pensarci bene è solamente uno che s’intesta. Se non s’intesta non può neanche essere imbranato, qualunque cosa faccia: ogni sbaglio diventa una danza… Lo vedi? No-nhaica-pitoooun-cazzooooo – Carlo canticchia e trema un po’, ma poi il passaggio dall’irato all’ilare gli riesce facilissimo. Riprende tra le dita la cravatta, se la sfrega sulla guancia, guarda la smorfia trasformarsi in riso. Adesso prova a rifare il gesto del laccio con la faccia distratta ad arte, quasi potesse ingannarsi sulla sua casualità. Ooo-op, spalla indietro, lunghezza appena oltre la metà. Una lingua sopra l’altra. Su, ora. Ma le dita sono anchilosate, gelide. Come per ingannare un pubblico finge di esitare, che l’incrocio mancato sia un indugio. Si fa il solletico: sì, ecco cosa voleva, farsi il solletico ruotando la striscia lunga sotto il mento. Non lo avevate capito, eh? Imbecilli. Nessuno sbaglio, solo una disgressione da virtuoso; e sta già per ritentare, quando alla nuca sente un altro solletico.

Sono mani più calde: Giulia. Non s’è accorto che è entrata.

“Ancora qui? Ma che cos’hai sul labbro? Uff, ‘spetta…”.

Apre l’armadietto dei farmaci, e lo sportello scrocchia come un osso. Batuffolo, acqua ossigenata. “Là” – il tacco sul bidone, e sua sorella ricompare nello specchio. Carlo sta quasi per commuoversi e non vuole. Giulia gli tira su il colletto, decide di far lei. Ecco di nuovo la lingua biforcuta sullo zigomo, ma adesso nell’orecchio ha il suo sussurro.

“Va tutto bene. Ehi lupetto, calmo, tutto bene…”.

Tutto beeene. Dov’è che l’ha sentito, quel suo tono? Ma sì, Sir Biss, ecco cos’è. Mille anni fa, Giulia che imita il sibilo del serpente mentre guardano il cartone, Giulia che finge di allontanare il sibilo dal suo orecchio e invece poi gli fa l’agguato… “Prrr, morso al pancino”. E lui che se la scuote di dosso ma in realtà vorrebbe non finisse mai, mentre le unghie del principe Giovanni battono ipnotiche sul bracciolo del trono. Poi il risucchio nero. Un’ombra senza volto spegne, è ora di cena: sua madre. Carlo che fa le lacrime finte, come le chiamava l’Elide, e in un secondo sono già vere. Vorrebbe rischiarare l’ombra ma lei resta lì, nella sua èra preistorica satura di pulviscolo – solo un torso ronzante.

“Pensavo. Ti ricordi quando…”.

Ma proprio in quell’istante sua sorella si scosta: “Forza qua, tieni il nodo col dito” – e subito lui risente il gelo, la paralisi, come sempre quando gli dicono di sbrigarsi.

“No, vai. Vai, faccio io” dice con la voce che gli trema – ridicola, da bambino preso in giro.

Giulia resta sospesa un attimo, si morde anche lei il labbro. Forse per non ridere?

“Vai!” le grida allora. Un urlo rauco, astratto – come dal palco a una folla. Rimbomba in quei due metri. Ma sua sorella scuote la testa e non va. Indugia nello specchio, anzi. Si analizza il trucco, minuziosa. Tutto finto, la solita tecnica. Vuol farlo innervosire. Si toglie una scarpa, controlla il tacco, la rimette. E giù collant, mutande – praticamente la mossa. Prima che si accovacci lui ha già chiuso gli occhi, il pugno stretto alla coscia. Sente che arriva la pipì, pochina – non scroscia quasi. Poi Giulia si tira su, mentre Carlo solleva le palpebre sui collant inghiottiti nella gonna. Non sa se lei lo guarda, le riabbassa – ed ecco la scudisciata dell’elastico, il silenzio, la porta sbattuta.

Bene, ora respira. Ma invece sta tossendo, quell’aria profumata gli dà il vomito. Che odore è? Anche lì, c’è dentro tutto assieme e non sa cosa. Più prova a scindere le sensazioni più fanno una massa uniforme, spessa, come da piccoli le tempere quando si vuole correggere un errore e lo si peggiora finché i colori diventano una poltiglia marrone. Intanto ha lasciato cadere la cravatta sulle piastrelle sporche: la donna delle pulizie non è venuta. Rumena di merda. Di merda: a voce alta. Si china a prenderla, l’annusa. Sa di limone. Milena, di sicuro. Ha voluto pulire lei, prima di tornare a Modena da sua madre. Ma con troppo detersivo, il pavimento è appiccicoso. È tutto appiccicoso, quello che la riguarda. E adesso pure la cravatta, cazzo. Ma no, solo in un punto. È il pezzo che va dietro, se non altro.

Si rialza; gli sembra di avere lavorato a lungo, e quindi di potersi riposare: mette le mani sul lavandino, una stretta alla fettuccia l’altra aperta. Come suo padre. Assembleare. Come a un balcone, dài. Col petto in fuori: “Di lui mi ricordo soprattutto il modo in cui beveva…”. Forse tra poco, in San Domenico, dovrà parlare da dietro il leggio. “Faceva sempre il gesto del brindisi, anche quando non c’era nessuno. Me ne sono accorto una volta, eravamo ancora nella casa vecchia, sono entrato in cucina e…”.

Avverte uno spostamento d’aria, s’interrompe. Ancora Giulia, i suoi zigomi nella porta schiusa. Ha i tratti spianati, calmi, ma deve averlo visto. O almeno sentito. È capitato a volte, quando recita per non pensare. “Tu sei fuori” gli ha detto una sera trovandolo che concionava nell’androne. Poi ha smesso di farci caso. Ora sospira, e se sospira è al sicuro. Deve cedere: arrendersi alle sue mani, fare il morto in mare. Il collo rovesciato, pronto. Salomè. Avrebbero dovuto metterla in scena quest’anno. Poi Lele ci aveva ripensato. Diceva che la crisi. E i compagni stranieri, il problema religioso. Al posto di Wilde, un musical con i migranti. Chissà suo padre, se lo avesse saputo. Ma come Salomè Giulia non va: le sue sono le distrazioni di chi è concentrato. Milena, lei sì sarebbe perfetta. Il pomo, e zac. E alla fine un urletto, di sicuro. Come quel sabato sera che il vecchio gli aveva passato la lametta sulle guance per fargli vedere come si faceva. Era quasi soddisfatto – e invece ecco il taglio, quando restava appena un cerchio di schiuma sotto il mento. La colpa era sua, al solito: si era mosso di colpo. “Oh, sa fèt? ‘Arda lì, ma si può? Cos’è, c’hai pure i tic?”. Ma no, non aveva i tic, era solo che voleva vedere cosa sarebbe successo. Quanto suo padre fosse previdente, ecco cosa voleva vedere. Era stato più o meno in quel periodo che ci pensava sempre: come è vicina la morte, dappertutto. Inciampare finendo dal marciapiede sotto un autobus, cadere su un coltello dritto. Perché nessuno ne parlava mai? Tutti tranquilli, disinvolti. Il vecchio più di tutti. Ovunque proteggi. E lui gli aveva creduto. Invece la verità era un’altra. La verità era che se tu impazzivi, nessuno poteva prevedere le tue mosse abbastanza da salvarti. Nemmeno “l’avvocato”. Ecco cosa voleva verificare, con lo scatto. Come se a fare quel gesto fosse un altro. La vertigine di poter decidere. Senza essere fermato, neppure da sé stesso. Più veloce del pensiero, così – senza ragione. Poi si era piegato come se potesse rannicchiarsi tutto al centro del suo corpo, nel buio del ventre, lontano dai contorni tangibili. Un sabato italiano, veramente: lui che rimugina sul libero arbitrio, suo padre che bestemmia e spalanca l’armadietto come prima Giulia. La manona pregna di nicotina pigiata sul collo col batuffolo, e Carlo che alza il braccio a rimpiazzarla mentre si chiede cos’è dentro di lui che lo decide a muoverlo. Gli sembrava che una volta fatto il primo taglio gli altri sarebbero venuti da sé, che fosse come ruzzolare da un burrone. Sempre così, quando compie un errore: subito lo rende irreparabile. Morire facendosi la barba. Tutto rosso, a poco a poco, come in quel corto al Lumière. O in un lampo, sgozzati. Ma allora, con la cravatta bisogna impiccarsi? Ogni domenica, a pranzo, l’Elide tornava a raccontare l’agguato che aveva visto da bambina al paese. Per ammazzare la gente si aspettava che fosse rilassata dal barbiere. Ta-ra-ta-tà, il pomodoro fresco sul bianco della schiuma. Anche gli jihadisti tagliavano la gola. Ma niente agguati loro, subito spettacolo. Difficile fare meglio a teatro. Soprattutto se ci provava lui, che andava in palla in un attimo. Prima di diventar marcio… Non gli era piaciuto al vecchio, lo spettacolo, ma dubita che si fosse accorto dell’errore. In ogni caso è lui che sta marcendo adesso, lì giù in strada.

Marcisci, merda.

Per un secondo teme di aver parlato. Ma no, la Giulia che gli sguscia dietro è calma. Lo bacia sulla nuca, gli fa appoggiare il mento sulla spalla. Sono tutti e due nello specchio, adesso, come se dentro ci fosse uno che fa una foto. Lei lo tiene, e Carlo sta davvero per lasciarsi andare. Perché la Giulia sa tenerlo – non come lui suo padre nel bagno del Rosso.

“Vai” aveva detto già disteso a terra. Persino in quel cesso era riuscito a darsi l’aria di uno che s’è sdraiato di sua volontà, come se stesse facendo zapping sul divano. Sciò, vai. Lo stesso tono dell’ultimo ritorno dal Bellaria a casa, il giorno prima del coma. “Le sigarette, lì”: interrompendo i rantoli dal letto, e ripetendo “lì, lì, lì” mentre suo figlio andava a tentoni per la stanza. Neanche un secondo aveva pensato che Carlo indugiasse per negargliele. Infatti è che proprio non le trovava. Erano sul comò, davanti a lui: le sigarette rubate, come sempre. Lì, lì: l’impazienza stanca, il fastidio di chi non ha tempo. Senza rabbia però, nemmeno più disprezzo: solo col tono di chi constata un fatto di natura – “ah vabbè, si sa, ormai resti così – però adesso sbrigati, solamente questo”. Al bar Miki, suo padre scroccava sempre una Merit a un vecio che faticava a frugare nel pacchetto. Aveva le dita più grosse delle sue, già così tozze – diceva che coi telefoni non beccavano i tasti. Lo guardava tranquillo, magari dopo un po’ rinunciava pure: era per ridere. Ma con Carlo mai, nemmeno quando stava bene. Non poteva aggiustarlo, e non poteva neanche rassegnarsi. Dunque, inutile parlare. Allora tra l’affetto e l’urgenza tendeva quella corda di malinconia, che ogni tanto s’impennava di furia e ricadeva come una frustata. Poteva capitare ogni momento. Come il giorno prima del ricovero, quando gli aveva fatto firmare le carte. Molto affettuoso a pranzo, e anche più tardi. Una domenica pomeriggio, subito dopo la morfina. La sua ombra scura nell’ombra tenue di ottobre alla finestra, l’odore umido dai Giardini Margherita. Camminava senza vacillare, si fermava, gli incombeva alle spalle col suo respiro pesante. Finché Carlo aveva sbagliato una firma. Allora la mano aperta era caduta sul foglio col peso inerte di un sasso. Aveva stracciato tutto, anche i documenti buoni – liberatorie, titoli, piante catastali. Tremava di stizza, uguale a lui poco fa. Sempre così, fin da quand’era piccolo: davanti alle firme sbagliate o solo sciatte perdeva la testa. Come se il nome del figlio fosse suo. Niente sorrisi sornioni, lì. Doveva trattenersi per non guidargli la penna, e un errore su un tesserino valeva un sacrilegio.

Quel pomeriggio, per difendersi, Carlo s’era alzato fingendo la stessa stizza ed era corso a chiudersi nel cessaruolo. Ma lì aveva commesso un altro errore. Cercando il cognac nell’armadietto, aveva rovesciato il flacone della flebo. Mezzo minuto di silenzio. Poi i passi grevi del padre, il suo affanno alle spalle. L’aveva sentito chinarsi con sforzo, ansimando, e un attimo dopo era di nuovo alto nello specchio. Aveva visto il flacone spaccarsi sul vetro prima di registrare il gesto secco, il vento che gli sfiorava il ciuffo. Erano rimasti a lungo così, a guardare insieme la crepa che si apriva radendo la calvizie del malato, scendendo a confondersi con la ruga sotto la sua guancia bolsa, tagliando il collo al ragazzo. Intorno un profumo acre, il soffio di fiato grosso sui capelli. Carlo non avrebbe mai saputo se suo padre stesse per colpirlo o sorridesse storto dal dolore: aveva atteso a occhi chiusi che se ne andasse. Ma intanto il soffio e il profumo erano divenuti un grumo unico, si erano condensati in quella cosa: una goccia sulla nuca, che bruciava. Aveva subito alzato la mano a scrollarla via, di scatto, ma un attimo prima di toccarsi il collo l’aveva tenuta sospesa e poi ficcata in tasca. Un’assurda paura, con lo schifo – e c’è anche adesso. È come se risalisse il tempo in apnea: la cosa è ancora lì, che gli cola giù nella schiena. Scuote la testa, apre di colpo il gomito, non distingue il ricordo dal gesto con cui scosta Giulia.

“Ohi, ma sei scemo?”.

Il gesto è stato troppo brusco, l’ha spinta contro la doccia.

“Scusa”.

“Fai da solo fai” incrocia le braccia lei. “Dài, su, vediamo”.

Le è uscita fuori la cantilena napoletana della madre, come succede solo quando è sarcastica. È uguale al riso e al lancio di suo padre: sono le armi estreme, quelle non convenzionali. Sai che le abbiamo, possiamo distruggerti. Non le useremo ma le abbiamo. E appena glielo ricordano, la vergogna è così forte che smette di sentire il corpo sotto la cintura. Ci vuole subito un altro gesto allora, un errore qualunque per tornare a galla. Carlo soppesa il nastro, fa l’atto di ricominciare, e s’accorge che sta già sbagliando. Il blocco è troppo forte. Eppure un istante prima che lei riapra bocca riesce a dirlo: “Esci”.

Possibile che gli ci voglia tanto, per ricordarsi che può fermare l’invasione? È come tirare le parole su da un pozzo. Non le avrà mai pronte, se non gli salgono d’istinto – gli ci vorrà sempre un copione.

“Ok, due minuti. Poi io vado. E vanno anche gli altri. O te la metti o la rimetti dov’era. Tanto”. Giulia alza le spalle, apre la bocca e la richiude, lo fissa nello specchio. “Bisogna che ti svegli. Prima non ti ho detto niente, ma adesso bisogna che ti svegli”.

Non ti ho detto niente. Prima. Ma adesso. Strano, ma lui sa precisamente a cosa allude. Ne è certo, anche se in teoria potrebbe riferirsi a mille cose. Eppure lo sa, che non si sbaglia. La notte che c’era da pulire suo padre. Quella roba biancastra tutto attorno al bacino. Non riusciva – non riuscirà, non riesce. Ora trema così forte che sta per ricadergli la cravatta. Giulia s’è sporta verso la maniglia, ma gli sembra che se esce non potrà più andare avanti: e le afferra già il polso, lo spinge in basso, torce.

Lo stupore di lei: una frazione di secondo, ma c’è stato. Così raro – inerme, da abbracciarla mentre sente il guizzo dei muscoli sotto la stretta. Ha avuto l’istinto di colpirlo, invece allarga le narici. C’è tutto in quella smorfia: riso, disgusto, scelta fulminea del tono più asettico.

“Giù la gente aspetta”.

Per non sentire il colpo Carlo gioca con gli accenti, la cesura. “Giùla-gén… te-a-spèt-ta”. Prova a trattenerla, ma ormai lei è implacabile. Si divincola con un movimento invisibile, pura tensione respingente, come se neanche meritasse una lotta.

“Tra cinque minuti il corteo parte. Vedi di farcela, una volta”.

Un ritornello. Serve un ritornello subito, prima che la vergogna lo pietrifichi. Mentre Giulia s’infila nella porta, Carlo inizia a bestemmiare sottovoce. Ripete ordini da porno, cerca di visualizzare un corpo nudo. Ma non basta, ci vuole ben altro. I discorsi, ecco. I discorsi di suo padre. Quel comizio a Piazza Minghetti, tra le panchine vecchie. “Siamo stati sotto tutela cinquant’anni…”. L’unica frase che gli è rimasta impressa. E gli viene già la voce, la grana del fumo. “Siamo stati…”.

Sta per chiudere gli occhi, invece li spalanca. Idiota. Adesso gli viene in mente, solo adesso. Estrae dalla tasca il cellulare, va su Google. Cosa diceva il vecchio? Per te le cose non cambierebbero mai. Sarebbero sempre come prima – cioè prima che lui nascesse, all’epoca dei sessantottini scemi. Come nel Novecento di cui ha intravisto appena un’ombra, che proietta arbitrariamente su certi ricordi. L’odore di tigli e benzina dietro l’androne di San Mamolo, lasciato un mese dopo la morte di sua madre. L’ultima cabina del telefono scassata di viale XII giugno da dove a otto anni ha chiamato Giulia in lacrime dopo una rissa ai giardini. Qualche ex comunista corpulento e baffuto più di suo padre, che lo seppelliva per scherzo sotto un cappotto a lisca di pesce. E la risata pastosa, quando lo liberavano, la leggerezza di chi gioca davvero – mentre lui si era già inalberato, strillo stizzoso e pugni chiusi. La vitalità distratta di quella gente – come se conoscesse un passaggio segreto per la gioia che a Carlo sfugge. Chi non l’ha conosciuto non sa la dolcezza del vivere: cos’era? Storia forse, l’altro giorno. Un francese. Digita in fretta, intanto: “Tutorial cravatta”, e clicca sul primo video della colonna Youtube. Gli appare un tipo con gli occhiali, magro, labbra sottili e naso a punta, rasato di fresco. Liscio, troppo liscio. Come un culo di neonato, o quelle fighe che fanno impazzire Marco. “Ciao ragazzi, a volte ci sono operazioni che crediamo banali e invece…”. Avrà quarantacinque anni. Dietro un salotto scuro. Prende una cravatta verde, sembra che la pesi. Non ha accento, quasi, forse appena lombardo. “Ora guardate, alzo un po’ il colletto…”. La cravatta è sempre dritta tra le sue dita, come in confezione. Come lui. Ma è eccessivo anche in questo, ha un che di delirante. E di stantio. Strizzato dalle tv locali anni Novanta, messo lì ad asciugare. Ancora Novecento. Uno sconfitto, un maniaco; però non abbastanza da diventare un caso, un influencer anche scrauso. “…E poi, ecco vedete? Notate bene, per riuscirci questo pezzo non deve scendere più giù di così…”.

Carlo appoggia il telefono sul lavandino e inizia a imitarlo, ma l’occhio gli cade sulla colonna laterale. In alto è uscito il video che ha cercato l’altro giorno. Dinamica rapporto sessuale. Ne aveva dovuti scartare parecchi, per arrivare a quello giusto: un’analisi gesto per gesto, che non desse per scontato neanche il minimo dettaglio. Lo aveva rivisto quindici, forse venti volte. Praticamente il doppio delle volte in cui lo ha fatto – e tre sole con Elisa. Perché era proprio quello che voleva verificare: se lo ha fatto per davvero. Nel senso pieno, normale. Youporn non lo rassicura. Per esserne certo ha bisogno di quei video scientifici e pedanti. Intanto si è piegato senza accorgersene, col dito sospeso sull’immagine dei due che entrano in camera da letto, e ha perso il pezzo cruciale dello scrauso. Indietro: pala grossa pala piccola, fai girare. Tieni fermo il nodo con il dito. Rimane una fossetta, tocco di stile italiano. Troppo corto, ancora. Non ce la farà mai. E invece no, è quasi perfetta. L’ebbrezza di sentirla scivolare, di mettere la mano a taglio tra le due lingue. Doppio movimento, su e giù in un colpo solo. Lo rifà tre, quattro volte. Come quando si lascia ipnotizzare dall’ascensore trasparente montato in cortile, col peso che sfila sotto mentre sale: senso di pulizia, di soluzione che non lascia residui. Definizione vera di risolvere. O di giustizia? Una bilancia. Ma soprattutto limpidezza – un gesto netto, minimo sforzo, e doppio risultato da guardare. Come un taglio, o alla playstation. Come Giulia col collant e la gonna. Però qui tutto in luce. Una mano che indugia tra la fettuccia e il bottone, l’altra che tira. Corda su, ancora. No no, piano così, che ti strozzi. Più stringe al collo, più la cappella gli si gonfia contro il lavandino. Allora è vero? Se non respira si eccita, finalmente vive? Come alla sega postpranzo, con il cuscino pigiato sulla bocca? Però se è con qualcuno non funziona: ecco la condanna.

Non fa in tempo a pensarlo che ha già ristretto il nodo, e annaspa. Prova ad allentare, ma le dita non fanno più presa. Forse gli circola male il sangue, come al vecio delle Merit. Niente ansia però. Un respiro, e finisci in bella. Così, con precisione: tra pollice e indice. Un po’ d’aria intorno al collo, ma senza sciogliere il già fatto. Allenta piano. Disinvolto. Per far tutto bene basta pensare a qualcos’altro. Come il praticante uscendo dalla libreria con Giulia. Come suo padre al Rosso prima che arrivasse, forse. O suo padre davanti al praticante, “hai trovato il fascicolo?” – e anziché dirgli che sapeva tutto, gli dava una pacca sulla spalla. Soddisfazione del potere. Esibita ma non tronfia, con distacco. Forse è questa la definizione di coscienza, una specie d’intercapedine tra i gesti: neanche pensiero, una pura distanza. Lo straniamento che gli chiede Lele. Solo che gli altri sanno praticarlo con misura. Lui invece esagera, e dopo un attimo non sa più dov’è. Il contrario di Milena, che coincide con sé stessa senza pori. Che s’illumina, si spegne come una lampadina. È il suo potere, totale e microscopico. E Giulia? Una Milena che sa. Però la sua faccia quando esce dalla libreria è sempre seria, tiepida – né spossata né elettrica. Non ne hanno mai parlato, suo padre e il ragazzo, ne è sicuro, ma si vedeva che a suo padre la tresca andava bene. Non si parlava mai di quello che andava come lui voleva. O di quello che lui non poteva cambiare. Il nome della malattia non è mai stato pronunciato, fino all’ultimo. Come nel romanzo che cita sempre Lele per dire una situazione senza uscita… Cos’era? Stendhal?

“Ti aspetto giù”.

La voce arriva quasi ilare per effetto del soffitto alto, i tacchi suonano come nacchere all’ingresso. Carlo non risponde, e apre la finestrina sopra il water. Lungo via Solferino, a filo di portico, vede le teste dei compagni di Giulia. Davanti c’è Sara, l’amica del cuore delle medie: un brillio biondo. I suoi compagni sono dall’altra parte della strada, più distanti. Tra loro, persa, la prozia di Lugo. Niente Milena. Torna allo specchio, fissa l’occhio sulla gobba del naso affilato. È più bianca della faccia intorno, come se ci fosse un animale che si muove sottopelle. Qualche secondo, e gli sembra che cresca. È come se la vedesse per la prima volta. Alza una mano, si tende la carne sotto lo zigomo. I peli sono pochi, ma non poi vergognosi. E sotto la mascella c’è ancora il piccolo vortice che piaceva alla vicina di Riccione. Scopata piena, quella – praticamente l’unica. Senza pensieri. Gli dispiace solo che dall’inverno scorso non si veda più il taglio della lametta. Ma quella gobba però, così marcata. Brusca. Assurda. Eppure nel quadro ha un suo perché. C’è un equilibrio di linee spezzate, e rimanda alla curva del pomo d’Adamo che sotto preme l’asola.

Solo in questo momento Carlo scopre un’ovvietà: è un brutto bello. Come l’attore di Truffaut nei film che cercava di far vedere a Elisa. Ma lei no: aveva voluto l’abbonamento a Netflix, “che per fortuna, qui di prima del Duemila non c’è niente”. E una settimana dopo era già a fottersi Enzo in aula magna. Meglio così, non ha fatto in tempo a fare errori irreparabili. Sperava che lui si candidasse, lo sa bene. Che parlasse alle assemblee. È rimasta delusa. Credeva che fare il leader fosse come fare l’attore. Forse se avesse conosciuto suo padre da giovane… Ma non c’erano palmi da appoggiare alla tribuna, lì al liceo. Bisognava accettare che tutto il corpo fosse sempre visibile, senza nessun palco, e fare ogni volta una specie di perp walk tra le gambe incrociate dei compagni. Così lo voleva lei. A dirigere l’occupazione. A dirigere qualunque cosa. Rivede la sua faccia quel giorno, mentre guardava Lele alle prove. Un’espressione che non si può camuffare – la stessa di Milena che succhia i molluschi. Le loro facce, in fondo alla sala, quando Elisa è venuta a dire che lasciava il gruppo teatrale: due che divorziano d’accordo. E lui per mesi a pensare che Lele… Meglio così anche per quello, se fosse andata avanti avrebbe fatto un errore più stupido.

“Se non la tiri fuori non puoi recitare, Carlo. Ti fa groppo”. La gelosia. Era a quella che alludeva Lele, l’ultima prova prima dell’Amleto? Aveva voluto farne una separata per Elisa, l’aveva tenuta a ripetere il monologo di Ofelia mentre gli altri andavano a cambiarsi. E Carlo era corso via in fretta, per non cedere alla tentazione di tornare indietro ad aspettare. A spiare? Sì, meglio così. Eppure gli manca sfiorarla in quel modo, davanti a tutti, mentre Ofelia in baby doll finge di buttarsi da un grattacielo sull’Hudson dopo una crisi anobulimica. L’ebbrezza di fare un gesto pubblico che ha un senso segreto, ecco cosa gli manca. E anche adesso che non c’è più Elisa, spesso prova le battute sognandola. Non ha nessuna via di mezzo, allora: o è letteralmente trascinato in alto dal sogno, e trova soluzioni che un attimo prima non avrebbe mai immaginato, o frana rovinosamente – e allora rientrare nei ranghi con diligenza è difficile, fa sbagli piccoli e frequenti che gli attori meno dotati sanno evitare senza sforzo. Forse anche per lui il teatro è un mezzo anziché un fine? “Una buona definizione di retorica” ha detto una volta Lele: “scambiare i mezzi e i fini”. Come quel coglione in parlamento, che ha infilato nell’appello al governo la dichiarazione di nozze. O come l’Instagram di Elisa, coi messaggi privati di sponda. Inutile trattenere il dito alle prime stories dopo la rottura: bastava la copertina, Enzo a letto coi punti d’ospedale e il cuoricino sopra. Invece in scena era tutta diversa. Sempre irritata, appena sentiva che Carlo stava cercando una complicità sul palco in nome della gente sotto. Lei mica confondeva i piani. Forse neanche su Instagram, chissà. Forse sovrainterpreta, al suo solito. Sei in paranoia, glielo diceva sempre. Uno che non è mai solo – alla fine un paranoico è questo. Infatti anche chiuso in camera si sentiva circondato. Anche mentre erano soli. Quei film come preliminari a casa di lei, col portatile-veliero che oscillava a metà tra le due pance, e lui che continuava a pensare alla parola fidanzato. Essere fidanzato – se lo ripeteva dentro con una scossa nella schiena, quasi stesse rubando il posto a un altro sé stesso. E più si esaltava per quel trionfo usurpato, più gli spariva la voglia. Da lì veniva la sua freddezza, l’ansia di andarsene appena il cinema mentale iniziava a dissolversi. Così era successo da Marco, quando era stato male dopo il fumo. Ma più con Elisa. Muoversi insieme nel piumone come in acqua, impacciatissimi – ecco cos’era stato l’amore con lei. Certo qualcosa di molto diverso da quello che era successo nel sacco a pelo di Enzo l’ultima notte dell’occupazione. “Oh vez, dovevi vedere se pompavano in fretta, ormai venivo anch’io” – così uno di terza C a un amico, in corridoio, proprio mentre passava Carlo. E Carlo prima ancora della fitta aveva rivisto i loro pomeriggi più gelati, la sega di lei goffa e poi lui a cercarla su col dito, accovacciato di fianco, a un ritmo sbagliato che Elisa correggeva ogni tanto con pazienza triste. È come se le cose non potessero mai stare assieme in maniera decente – o sfumano nel sogno, o si dividono nei mille pezzi di una realtà troppo prosaica che lo nausea. Oppure si confondono in un grumo solo. In una goccia. Allora non riesce più a distinguerle da sé, sono minaccia pura – crollo. Forse aveva ragione Elisa: non bisogna confondere i piani. Ma anche in questo, è davvero così diversa da lui? Non mischiava anche lei l’intimità col palco? Se Enzo non fosse finito per caso sotto quella carica in piazza Scaravilli, col labbro rotto e la fronte insanguinata, ne sarebbe poi stata così attratta?

Mezzi avvocati voi, e le vostre compagne mignotte. Ora dal pube gli sale un risolino nervoso, e rimane lì senza esplodere: un tremolio di gelatina. Ma nello specchio è serio, come quei cani che hanno sempre lo stesso muso, felici o moribondi, e non sai mai cosa provano. Gli sembra che nessuna espressione sia la sua. Non prova niente, ma nemmeno può rilassare i muscoli. Dice due o tre frasi a voce alta, a caso, prima di aver pensato. Come quasi tutto quello che pensa davvero, non riesce davvero a pensarlo; pensa quello che non pensa – pensieri letterari, non suoi, che gli permettono di camminare a testa alta. Il resto gli esce di bocca senza filtri. L’unica verità, probabilmente: involontaria. Qui si pensa, qui piove – il prof. Scansani. Venerdì filo o storia? Controllare. Però adesso sbrigarsi.

Carlo si sporge ad abbassare la maniglia, schiude la porta sul corridoio. Esita. La fessura è minima, vede solo l’ala del putto sul soffitto. No, non ancora. Prima decompressione. Paglia. L’armadietto, le cartine. Ma dove… Lì, lì dietro il Brufen. Lì, lì dietro il Brufen: lo ripete a voce alta, cavernosa, da padre agonizzante. Ecco: adesso ride senza volerlo. E se gli capita giù, davanti alla bara? Deve prendere tempo. Ha sonno. È rilassato, a un tratto, come quasi mai. Accende, si siede sopra il cesso. Ancora caldo: il culo di Giulia. La stizza è andata via. Non sente più nemmeno il freddo, niente – solo un po’ d’allegria screzia il torpore. Si abbassa i pantaloni, si raccoglie. Ci sarà andato suo padre, al cesso, prima di boccheggiare contro il lavandino? Venti minuti sono un sacco di tempo. Ora che gli dà un po’ di tregua, può immaginarlo tranquillamente come un personaggio. Come doveva essere, stare lì per terra sul pavimento nero di croste. Con la testa appoggiata al gomito, perfino. Gli viene in mente il pastore del presepe che avevano a San Mamolo, quello che giocava a far planare con la sua base di plastica sul lago di stagnola. Sembrava che sapesse tutto, lì per terra. Forse aveva temuto soltanto la caduta – non voleva mai sembrare goffo, in nessun caso. Ma ce l’aveva fatta, come sempre. Era sceso alla moviola, con le sue mani inutili da pietà sotto, atterrando morbido sulle piastrelle. Dopo appariva calmo. “Arrivo”: aveva detto. Solo quello. “Vai” e “Arrivo”. Ma proprio a lui o invece…

“Carlo?”.

La porta del corridoio scricchiola. Milena. Si abbottona i calzoni, butta la cicca, tira l’acqua.

“Arrivo, sono in bagno”.

Ripassa davanti allo specchio, si scompiglia i capelli. Apre la bocca, la chiude. Niente: non c’è nessun rapporto tra quella faccia e lui che la muove. Guarda le mani che si alzano al collo, lo accarezzano un po’ scorrendo sopra e sotto il nodo.

Si fermano, stringono.

Stringono, si fermano.

Passa un silenzio totale, incalcolabile. Poi ci si aggrappano rapide e lo disfano.

Di lì tutto va sciolto. A questa scena Carlo non pensa, non ci ha mai pensato, per questo forse sembra un ballerino: rimette i due estremi della cravatta intorno al collo come un asciugamano, si slaccia la camicia, esce.

E lei è lì, sotto l’arco della cupola affrescata. Scura, attonita. Per nessuna ragione: è la sua faccia, dove la furbizia passa come una scarica. Vedendolo abbassa le ciglia, piega appena una spalla. S’è accorta di qualcosa? Ma lui la precede: “E niente, non mi viene il nodo”.

Nell’ombra un luccichio: la punta della lingua, così veloce che forse è un’allucinazione. Il gesto dei moscardini.

“Dài che faccio io”: con tono arreso, ma come per finta. Vera, falsa. Niente è sicuro con lei. Una notte all’ospedale l’ha abbracciato piangendo, è falsa anche quando respira aveva pensato Carlo, ma poco dopo si era ricreduto, non è né falsa né vera si era detto, sceglie a fiuto ogni momento, fa diventare tutto vero o falso a seconda di cosa la fa esistere. S’aggrappa al gancio meno traballante, altrimenti cadrebbe nel nulla. E non è così anche per lui? La sera al Rosso, quando era entrata in bagno: un secondo prima che si portasse le mani alla faccia e si tirasse fuori dalla gola l’urlo, Carlo le aveva visto sulla bocca il disgusto con cui si guarda un maschio che non è più un maschio. Suo padre a terra sembrava dissanguato, gli occhi che si chiudevano malgrado la concitazione della gente intorno – il toro davanti a un’Europa che non potrà più portarsi via. Lo aveva visto, Pietrino, quel disgusto? Non ne aveva bisogno, di sicuro lo immaginava. Di sicuro lo aveva sempre immaginato, quel momento. E lui questo?

Fermi nel corridoio, Carlo fissa le scarpe a punta di Milena. Tiene la testa bassa mentre lei gli sfila dietro la fettuccia. Scuote la nuca, sente il pizzicore del fiato vicino. Menta. Ora la mano. Gli sta porgendo un’estremità. Ma lui la lascia cadere – è inumidita, come se ci fosse di nuovo quella cosa. Una goccia di suo padre.

“Che cos’hai?”.

Un risolino idiota, e stop. Ma appena Milena parla, Carlo si rende conto che è lui ad avere le mani sudate. Ora si guardano: il viso di lei scatta in avanti a beccare l’aria, si riempie di lacrime. Può vedere la sutura tra i suoi gesti discreti. Scatto, singhiozzo. Singhiozzo, affanno. E l’ha già contagiato: ansimano insieme. Recitano l’ansimare. Una riga di lacrime, anche lui. Sono le lacrime dei sogni di trionfo, quelle che fanno sentire importanti. “Fa la scena”, diceva la Elide, e non sapeva quanto fosse esatto. Faceva un pezzo di teatro, a caso: fingeva di essere stato sgridato rientrando, per esempio, gonfio d’immagini di gloria e martirio. Singhiozzava su sé stesso. Ma subito dopo, il falso diventava quasi vero. Perché basta poco, e con il pianto arriva una spossatezza da droga. Scorrono a rapida allora, quelle lacrime, non le senti più – e non ci sono più nemmeno sogni. Solo un languore indefinito, la voglia di un principesco buio. Diventano la colonna sonora del sentimento che hanno fatto nascere, i singhiozzi, uno strumento per raggiungere qualcosa di molto più prosaico e concreto dei sogni che li provocano. Qui, per esempio: il ponte per arrivare a quel viso lucido nell’ombra.

Ecco, il nodo è rifatto. Carlo sposta la mano di Milena dalla punta della cravatta. Stare immobili, guardarsi. Misura la distanza e gli viene in mente la parola: pornografica. Come se potesse farle qualunque cosa, o le avesse già fatto tutto.

“Portami il pettine” dice scandendo le sillabe in un ordine. Sente che la saliva gli trabocca, come quando al primo bacio con Elisa non riusciva a staccarsi senza farla colare giù. Lei abbassa le ciglia, è una serva pronta. Senza espressione lo supera, entra in bagno, fruga nell’armadietto. Poi entra anche lui: il pettine è sopra la doccia, Milena glielo porge. “Vai giù e arrivo” le dice con lo stesso tono, e vorrebbe avere la sua faccia inespressiva. Lei esita. Sembra concentrata – appena un accenno di sorriso. C’è davvero o è un effetto di luce? Carlo la fissa dallo specchio, ma la bocca si sovrappone alla crepa e subito sparisce. Ora sale un piccolo applauso dalla strada, mentre i passi di Milena si allontanano lenti in corridoio. Prova a battere il ritmo dei suoi tacchi con i denti, aspetta che si rompa. Tà-tum. Tà-tum. Tààà… Ecco, c’è stata una frazione di pausa in più. A quell’extrasistole Carlo scuote le spalle, mentre da giù arriva un altro clap-clap per la bara. Il burattino nello specchio apre la bocca, indugia. Poi ha uno scatto, e chiude la porta a chiave. Ancora applausi. Adesso Carlo sente salire il suo nome in un coro da stadio. Sì, è di nuovo il momento di rilassarsi. Strizza gli occhi, mette una mano sul lavandino e lascia scivolare l’altra lungo la cravatta.