
«Obnoxious child»: così Glenn Gould su se stesso, ricordando una discussione avuta con il proprio maestro di pianoforte intorno alla sonata K333 di Mozart, compositore che com’è noto non è mai stato tra i suoi favoriti. «Marmocchio irritante», tradurrei con un po’ di libertà. «Instinctively», soggiunge Gould, il bambino avvertiva la povertà del modulo ripetitivo, quasi meramente ritmico, del basso albertino, presenza ubiqua in moltissime sonate settecentesche, non solo mozartiane: laddove sia il bambino che più tardi l’adulto avrebbe preferito veder realizzate e dispiegate tutte le possibilità canoniche («obvious canonic opportunities»), ossia più in generale contrappuntistiche, della melodia, possibilità cui Mozart è spessissimo indifferente. «Ovvie»: e dài, Wolfgang, come fai a non vedere? Con la stessa frustrazione, da bambino, guardavo il gatto di casa fermarsi davanti alla porta aperta del balcone, indifferente alla soglia, e ai miei richiami di marmocchio non prodigioso né tantomeno favoloso. L’unica cosa che avevo capito era che quando mi fossi avvicinato al gatto per convincerlo una buona volta ad entrare, lui se ne sarebbe andato.
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In Mozart il contrappunto è in effetti raro, e quanto più si prolunga tanto più si fa goffo, e persino caricaturale. È ad esempio quasi beckettiano nel suo picchiare la testa contro il muro di un’unica soluzione contrappuntistica, ripetuta fino ad essere svuotata di ogni qualsiasi forza propulsiva, il finale della sinfonia K551 “Jupiter”. E si può immaginare la frustrazione dell’obnoxious child davanti all’ouverture del Zauberflöte, vero e proprio Stregatto immobile sulla soglia di una fuga, e su quella soglia evaporante. Il vero onnipresente contrappunto di Mozart, e questo Glenn Gould a propria volta aveva rifiutato di vederlo (crudeltà di bambini celesti) è in realtà un contrappunto psichico, e si dispiega con la massima forza nelle opere liriche, ad esempio nell’erotismo che intride come una pestilenza geometrica ogni scena collettiva del Don Giovanni, o che si avvita in invisibili e insondabili vertigini nell’aria del catalogo di Leporello: una fuga per così dire a una voce, quell’aria, le cui voci ulteriori e incalcolabili sono le anime di don Giovanni e di donna Elvira e le donne e le donne e le donne e l’inferno e lo spettro.
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Mozart tuttavia si dedicò anche alla fuga: sua moglie Constanze amava quella forma musicale. Mozart trascrisse per archi la Kunst der Fuge di Bach e compose anche diverse fughe originali, la più riuscita delle quali è forse la fuga in do minore K546. Anche lì però, se non mi sbaglio, c’è qualcosa di falsato: non è una vera e propria fuga, è Mozart che si è messo una maschera da contrappuntista. C’è una piccola bugia in quella fuga: detta per amore di sua moglie.
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Non sarebbe stato meglio per tutti noi se Mozart avesse scelto di non accontentare Constanze, per dedicarsi completamente a ciò che sapeva fare meglio? Non è forse una perdita irreparabile solo una singola nota che il divino Amadè avrebbe potuto riversare in qualcosa di più sublime che una coccola coniugale? Non lo so, ma so che le fughe di Mozart sono proprio per questo tanto più toccanti: hanno il valore incalcolabile della perdita, del passo falso, della debolezza e della dolcezza privata.
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Privata: ossia mancata; ma anche: non pubblica; una cosa tra marito e moglie.
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L’agiografia cinematografica dell’artista, o in generale di qualsiasi “grande personaggio”, si è recentemente cristallizzata in una dialettica rigidissima e violenta tra successo e vita privata: dialettica la cui brutalità dà o vorrebbe dare l’illusione di ciò che una volta si chiamava destino e che sempre di più si sta incartapecorendo nella propria caricatura: la carriera. La personalità eccezionale deve essere pronta a sacrificare tutto nel nome del proprio “destino”. Vittime supreme in questo rozzo e meschino rituale, gli affetti. Gli affetti sono un ostacolo, il sentiero sbagliato, la soglia da non attraversare. Sono ormai legione i film che in un collettivo lavaggio del cervello ci propinano questa ridicola (e perciò, se possibile, tanto più terrificante) versione del mito di Abramo e Isacco: e verrebbe quasi da dire che il vero demone di questa epoca non è il tanto sbandierato Narciso, quanto piuttosto la coppia di padre e figlio che nel proprio cammino verso l’altare lacera irreparabilmente l’esistenza di chi ne è posseduto. E nessuno del resto è ormai minimamente in grado di vedere il montone offerto alla lama in alternativa alla gola del bambino.
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In A Complete Unknown il rito è ormai talmente oliato da non porsi nemmeno più non dico come mistero, ma almeno come problema. Il film è tutt’altro che privo di bellezza ma, per così dire, Abramo non alza gli occhi dall’altare, e il sangue di Isacco viene versato. Bob Dylan / Chalamet, lo sguardo costantemente rivolto verso un interno o un al di là, passa con l’inconsistenza e la spietatezza di un’ombra nera attraverso le esistenze di ogni persona che lo abbia amato, e che lui abbandona con la disinvoltura di chi purtroppo non può fermarsi per un caffè perché gli parte l’aereo. Non c’è nemmeno da chiederselo. Se vai a letto con Bob Dylan, la mattina ti sveglierà con la sua chitarra e il suo gracidio, e non ti canterà qualcosa: no, sta scrivendo una nuova canzone, e tu non metterci becco. E se ci metterai becco, adios, adios, adios. Il Bob Dylan di A Complete Unknown non pasticcerà mai nessuna fuga per nessuna Constanze: glielo impedisce il fatto di essere la figura bidimensionale di un rituale, e di essere pertanto incapace di tradire sé stesso.
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Anche il più gelido dei gatti prima o poi passerà per la porta e ti si accoccolerà sulle ginocchia. Quando il mio gatto lo faceva, ricordo come da bambino provassi un filo di delusione, quasi di fronte a una perfezione che si fosse rotta: ed era quella delusione che faceva tanto più ricca e più strana la mia felicità.
