Fare la spesa (di questi tempi)

In forma di racconto, una riflessione agile e profonda, proprio come quelle che a volte ci ispirano le spese al supermercato.

Vi siete accorti che i cibi che contengono proteine costano sempre di più? Non dico quelli con proteine aggiunte, come a volte oggi capita col latte, lo yogurt, alcuni dolci o le barrette per gli sportivi, ma anche i cibi tradizionali. Date un’occhiata. Dite di no? Guardate meglio. Prendete il tonno: tutti dicono di essere esperti di tonno in scatola, ma io lo sono sul serio. Potrei tenere un corso. Negli ultimi tre anni, e soprattutto negli ultimi due, da ancora di salvezza del trentacinquenne abbandonato e della giovane studentessa fuori sede – che appendevano alla sua disponibilità la formula per trasformare la desolazione di una serata solitaria in una cena quasi civile – il tonno è diventato quasi un bene di lusso. Dalle due o tre referenze di una volta, oggi sullo scaffale di un supermercato si è passati a nove, o perfino a undici marchi diversi, con offerte differenziate. Sono tante. Sì, con l’aumentare della temperatura dei mari la pesca è diventata più difficile; la modalità di pesca, poi, sono state riviste e sono diventate, per quanto possibile, più sostenibili. Troviamo dunque varie ragioni materiali che giustificano l’aumento del prezzo, ma il punto non è questo: ciò che mi appassiona è la strategia di marketing che ne ha accompagnato la metamorfosi commerciale promuovendolo di livello, il cui simbolo inconfondibile è un nuovo contenitore, il vasetto di vetro. Ora nel vasetto non si tratta più genericamente di tonno: sono filetti di tonno, immacolatamente intonsi, e giustamente – vorrei anche vedere –, molto più cari. Le scatole di latta ci sono ancora, ma solo per chi arranca e non arriva in tempo: per chi non ce la fa. E in effetti ora il loro contenuto appare deludente. Col vasetto in vetro la civiltà occidentale ha compiuto un passo avanti (forse uno degli ultimi) rispetto al passo obbligato di quando, aperta la scatola di latta tirando la linguetta e facendo forza sul coperchio, nella maggior parte dei casi ciò che usciva sembrava un composto messo assieme con lo stampo, un po’ come si fa con l’hamburger; un corpo mal combinato, che rilasciava subito una decisa quantità d’olio (per i molti che, trascurando la formula “al naturale”, lo preferivano all’olio). Una volta i prodotti più affidabili – la cui tenuta secondo le raccomandazioni televisive doveva essere incomprensibilmente messa alla prova dalla punta di un grissino – offrivano un trancio la cui sezione non era difficile da affrontare. Ma erano altri tempi. Ora, appunto, ci sono i filetti; e i filetti non sono per tutti.

Immerso in questi pensieri, davanti allo scaffale del supermercato penso alle spiagge sul lungomare di Agropoli, dove sono stato quest’estate in vacanza e in particolare alla storia del sessantasettenne Carlo T., un artigiano del posto che lavora il tonno in un piccolo e luminoso laboratorio (e negozio) posto di fianco a un ristorante nel quale il pesce peraltro poi è servito in due secondi pronti a mettere alla prova anche appetiti poco ordinari. Mentre sto controllando una nuova entrata, una marca di importazione avvolta in una scatola di carta rossa, vedo arrivare una donna di bassa statura, dai capelli scuri, raccolti alla meglio sulla nuca. Sul viso l’espressione di un’astuzia elementare e delusa. Sono folgorato. Cerco di resistere all’intuizione, ma non ce la faccio: è una delle due donne che sei anni fa mi hanno rubato il portafoglio, quando ancora lavoravo in università. Non ci sono dubbi. Nella vecchia sede, al terzo piano – quello degli studi – vestite da studentesse, lei e una sua amica bussavano alle porte lasciate accostate. Se non c’era nessuno, entravano. Del resto, nel viavai di studenti, chi poteva dire di aver sentito o meno «Avanti!» provenire dall’interno? Nessuno ci faceva caso. Si pensava che il docente di turno la ricevesse. Io ero andato in bagno e non avevo chiuso a chiave. Pensa che fenomeno. Dopo quegli episodi è stato modificato il regolamento, ora bisogna chiudere sempre.

A un metro da me, guarda con diffidenza il mais in scatola, i ceci. Tento di non mostrarmi interessato alla sua presenza. Allora, due giorni dopo i furti, sorprese da un’addetta alle pulizie da sole in uno studio, lei e l’amica erano state allontanate. Non avevano niente con sé, o forse non lo avevano ancora. In assenza di prove o di registrazioni video (non c’erano telecamere nei corridoi) non erano state accusate. Nessuno aveva scattato fotografie: io però le avevo notate. In seguito non si erano più fatte vedere. Rigirandosi in mano il barattolo, non sembra del tutto presente a se stessa. Da allora l’avevo incontrata solo un paio di volte. Nella prima, in piazza Santo Stefano, chiedeva la carità fingendosi zoppa: mi aveva fatto pena, avvolta in uno sporco giaccone bianco e rosso di due taglie più grande della sua, anche se confesso che il fastidio era durato quanto la compassione. Il modo in cui fingeva non solo era esagerato, ma anche incerto, al punto che, dopo aver tenuto per troppo tempo la gamba sinistra allungata e torta in modo innaturale, per non stancarsi troppo, aveva cambiato piede e disteso l’altra. Nel secondo incontro, invece, vestita meglio, camminava regolarmente in direzione opposta alla mia. Ora prende in mano le scatole dei piselli, le soppesa a saggiarne il contenuto. Ha l’espressione interrogativa di chi non può aspettarsi qualcosa di chiaro dal presente. Una commessa robusta (il cartellino sulla camicia recita “Anna”) mi passa accanto e le sorride: lei risponde con un cenno. Dunque si conoscono. Anna mi rivolge uno sguardo di rimprovero, come se temesse da parte mia qualcosa ai danni della ragazza invecchiata. Mi sembra incredibile. Allontanandosi da me verso il bancone del pane, cerca di tenermi d’occhio: anzi, entrata dietro il banco ha quasi un gesto di impazienza nei miei confronti. Che competenze avrà? Grazie alla sua esperienza le basterà, da pochi dettagli, ricostruire il tutto, risalire dall’unghia al leone? È padrona dei suoi gesti, ma mostra un eccesso di diffidenza ingiustificato, che fra l’altro per me esorbita dalle sue mansioni. Perché? Lei e l’ex-ragazza saranno amiche? Io intanto ho la conferma che col tonno le varie realtà della grande distribuzione si muovono solo sugli sconti. Va più o meno così: il prezzo resta alto per tutti, tranne per il caso scontato (una marca ogni quindici giorni), che si avvicina al prezzo ragionevole del prodotto. Durante il periodo dell’offerta tutti, o quasi, comprano questo (nell’accordo col produttore la distribuzione ci guadagna comunque). Nel frattempo qualcuno con maggior disponibilità di denaro rimane fedele alle sue preferenze e continua a comprare le proposte delle altre case (e qui mi sembra, per il supermercato, il vero vantaggio).

L’ex-ragazza prende una bottiglia di birra da 0,75 da una cesta degli sconti e se la infila in una tasca interna del giaccone.

Dietro di me sento un grido:

«Sabina! Sabina!».

La sorpresa è meno dirompente: una donna bionda che indossa un ingombrante trench nero, entra con una corsa affannata e abbraccia l’ex-ragazza. È Franca, non la vedo da più di un anno; un tempo eravamo vicini di casa. Mi saluta.

«Che ci fai qui?».

«Che dovrei fare? La spesa».

Franca sorride. L’ex-ragazza non riesce a guardarmi in faccia, mentre al bancone Anna, rovesciando nel cassetto un sacco pieno di rosette, continua a osservarmi.

«Beh, è una sorpresa incontrarti».

«E tu che fai?».

«Niente, Mi sono fermata a comprare una cosa al volo, poi questa qui (abbraccia più forte Sabina) si prende sempre delle libertà. Non dice mai niente ma è golosa. E va bene, prenderemo qualcosa di buono per la cena per te e anche per gli altri, sei contenta?».

Sabina nasconde la faccia nel seno della sua amica.

Magra, con l’espressione di chi nasconde nell’enfasi dei gesti un assillo evidente, Franca lavora all’INAIL. Dopo un divorzio difficile ha intensificato il suo impegno come volontaria nell’Associazione Prospettive: fa due turni in settimana; prima si accontentava di farne uno ogni quindici giorni.

Mentre parliamo, Sabina prende un barattolo di mais da uno scaffale e non vuole riporlo. Franca fa del suo meglio, lottano un po’, ma lei non cede; poi d’improvviso le lascia il barattolo e cammina spedita in avanti. Dovrei spiegare a Franca della bottiglia, ma lei, turbata, mi parla del mutismo di Sabina e del suo “vissuto”, di quando in strada era costretta dalla famiglia a mendicare sotto la minaccia di percosse che poi arrivavano comunque, anche quando riusciva a portare a casa qualcosa. Dal suo tono d’un tratto più composto capisco che la ritiene una vicenda incomprensibile, quando in realtà, se prendesse in esame qualche caso che accade al di là dell’Associazione, scoprirebbe che l’incomprensibilità domina un orizzonte più vasto.

Davanti al comportamento dell’ex-ragazza, pur mostrando una certa consapevolezza (sa di doversi aspettare gesti come questo) Franca mi parla delle reazioni di Sabina e di altri pazienti come di dati perentori e indiscutibili: «la vita non è mica la stessa per tutti». Intravediamo Sabina dall’altra parte del negozio, dietro due signore di mezza età, ferma davanti alla passata di pomodoro. Intanto, meno sensibile a questi discorsi, Anna è tornata al lavoro.

Rispetto agli anni in cui mi occupavo di questioni simili, ora mantengo un maggior distacco, so che ogni caso va affrontato individualmente e che si tratta in primo luogo di restituire dignità alla sofferenza: nel corso del tempo in questo settore ho avuto modo di scorgere, per così dire, una serie di singolari camere di compensazione del dolore sociale.  Ma vorrei tornare alla mia indagine perché, anche se a prima vista può sembrare bizzarra, risulta in realtà determinante. Non che voglia ridurre ogni guaio a una questione economica, anzi: questa è solo la spia di un mutamento generale. Credo che il cuore della questione risieda da un’altra parte, nel vasetto di vetro, appunto.

Raggiunta Sabina, Franca la abbraccia di nuovo e guarda verso di me per mostrarmi il suo successo. Un tempo, sulle scale del nostro palazzo, ostentava l’importanza del suo impegno, di cui forniva però un’immagine abbozzata, cercando di ottenere incredibilmente due risultati per lo più divergenti: quello di vantarsi del suo lavoro e insieme quello di mantenere un riserbo geloso sulla sua attività, che nessuno – a parte lei – era davvero in grado di capire. A volte il suo discorso prendeva una tale aria di superiorità da farle correre il rischio di sopravvalutare l’interesse che un interlocutore poteva avere per le sue scelte: «Ne vuoi sapere di più? Allora devi entrare nella nostra associazione».

No, non voglio spingermi a tanto ma, mentre tornano indietro, mi colpisce lo sguardo grigio di Sabina, perso nella finestra che si apre sul soffitto.

Sono arrivate due clienti. Franca mi spiega che per tre giorni in settimana l’ex-ragazza lavora nel magazzino del supermercato, «in ambiente protetto»:

«Ha fatto molti passi avanti. Credo non sia del tutto fuori luogo sperare che fra qualche anno possa andare a vivere con altri in un appartamento: protetto anche quello, si intende, ma autonomo. Del resto, non può tornare a casa: la situazione non lo consente».

«Le auguro ogni bene, ma ti chiederei di controllare il suo giaccone perché credo si sia messa in tasca qualcosa».

«Beh, sì, capita ancora, ma è diventata un’evenienza più rara. Non ne ha bisogno. Comunque, prima di andare alla cassa controlliamo».

Sabina sorride ad Anna, che le porge un pezzo di focaccia prima di passare a occuparsi di un’elegante settantenne. L’ex-ragazza si guarda in giro con diffidenza.

Chissà che cosa ne avrà fatto Sabina, allora, del mio portafoglio? Probabilmente le sarà rimasto in mano meno di un quarto d’ora. Un oggetto come un altro, svuotato dei pochi contanti. Io invece avevo pensato che la scomparsa di qualcosa che l’abitudine rende così familiare risulta sempre inconcepibile: più si riflette sui particolari, che ci sono noti fino nei dettagli, più questi rimangono vivi, presenti; anzi, si avverte che sono questi ad appartenerci e che l’oggetto non è altro che qualcosa su cui si sono depositati e che perciò non smette mai di mancarci. Rispetto ad altre perdite, però, nel caso del portafoglio ci abituiamo in fretta. Ne compriamo un altro.

Al piano inferiore suona un allarme, ma presumo sia un fatto ordinario, visto che nessuno si scompone.

Insieme a Sabina e Franca salgo sulla scala mobile che scende al piano terra. Come se riprendessimo una conversazione interrotta poco prima, Franca cambia argomento.

«Ti è mai venuta l’idea di partecipare a una crociera per single?» mi chiede, cercando complicità, ma ovviamente – data la nostra conoscenza – non un’intesa più profonda.

«No. Credo ci sia di peggio in giro, ma non ne ho mai avuto l’occasione. Non la cerco».

«Mi hanno detto che sono interessanti».

«Per me lo stress sarebbe troppo. Tanta gente nuova e poi le varie attività dell’animazione. No, non credo che mi troverei bene».

Sabina saluta un’altra commessa che fa un cenno a Franca, come se ne riconoscesse l’autorità.

«Sto cercando di prendere il divorzio per il verso giusto».

La faccenda dei cibi proteici mi è venuta in mente tempo fa, fermandomi per caso davanti allo scaffale delle grandi offerte. Poiché di questa categoria non ce n’era neanche una, ho fatto un rapido giro per controllare come stessero le cose, concludendolo con una certa sorpresa. Non è però l’unico motivo. Per una sorta di miraggio antropologico, una distrazione rispetto agli ostacoli di questo periodo, mi sono persuaso che i cibi proteici abbiano richiesto all’essere umano – e richiedano ancora – uno sforzo maggiore di quello che compie per avere a sua disposizione i carboidrati. Per quanto nel tempo la caccia e la pesca possano aver conosciuto notevoli sofisticazioni tecnologiche, in ciò che le caratterizza in prima istanza non hanno subito una profonda trasformazione. Tutto sommato non ne ha subite molte neppure l’allevamento, se si eccettuano le modifiche chimiche introdotte nei mangimi alimentari (non entro qui nel merito delle soluzioni più discutibili). Mi sembra, invece, che la coltivazione ne possa vantare di più. Perciò, ragionando genericamente, mi sembra che cereali, frutta e verdura vengono prodotti con uno sforzo diverso, un inquinamento – è noto – più contenuto e dunque un costo complessivo inferiore. Certo, è un discorso elementare, ma mi permette di arrivare a quello che mi interessa di più, ossia il modo in cui si cerca di riqualificare i cibi proteici al fine di permettere all’essere umano europeo, dotato di risorse finanziarie man mano più ristrette, di esprimere attraverso il cibo ciò che lo tiene in vita, ossia il suo bisogno di riconoscimento.

Confesso che a volte, uscito dal supermercato, mi fermo sull’altro lato della strada per osservare le facce dei clienti dopo la spesa. Dall’espressione mi sembra che quasi tutti siano convinti di aver fatto il necessario: i più sono affaticati, alcuni hanno addosso un’euforia più evidente, anche se da questi andrebbero esclusi gli alcolizzati con il vino in cartone, o i giovani che hanno fatto comprare i superalcolici per la festa al maggiore di loro e ora si godono il debole trionfo di chi l’ha fatta grossa. Posso dire che il fenomeno delle birre artigianali è decisamente in declino, sostituito dalla febbre del gin tonic, che in teoria non dovrebbe essere curata con i marchi del supermercato (ma si sa che ciascuno fa quel che può).

In fondo allo scaffale della cartoleria, giriamo a sinistra e ci mettiamo in coda per la cassa.

Franca chiede a Sabina se non si sia messa in tasca qualcosa.

L’ex-ragazza apre il giaccone e con la mano destra estrae la bottiglia di birra che le avevo visto. Prima però che Franca possa dire qualcosa a riguardo, si gira verso di me e con un composto cenno di capo, una sorta di inchino, allunga le mani e me la offre, in un gesto a metà strada fra l’omaggio e la richiesta di aiuto. È improbabile che mi abbia già visto o che si ricordi di me, a meno che sei anni fa non abbia studiato a lungo i miei movimenti, eventualità remota vista l’elementare soluzione messa in atto con la sua amica. Prendo dunque in mano la bottiglia come in una cerimonia, una forma di risarcimento simbolico involontario, mentre Sabina continua a guardarmi con gli occhi grigi nella speranza che accetti l’offerta. Franca mi fa notare che lei è spesso generosa nei confronti degli altri ospiti della struttura.

Così metto sul banco la bottiglia insieme alla scatola di tonno incartata nella confezione rossa e a poche altre cose. Franca insiste perché lasci la birra nel cesto delle cose rifiutate dai clienti all’ultimo momento, ma non le do retta.

Vicino alla cassa, la moda dei cibi proteici fiorisce fin troppo. Prima delle lamette e dei rasoi ci sono otto tipi diversi di barrette high protein che promettono di tutto, dalla forma fisica alla performance energetica per i lavoratori cognitivi; ma c’è poco da vedere, nell’incarto sono più o meno uguali, destinate a chi non ha tempo da spendere per diversificare, ossia per chi ha già investito tutto in termini professionali. Le cose migliori sono probabilmente gli integratori in forma di caramelle gommose che ti supportano favorendo la concentrazione nei momenti di stress, ma che fungono più che altro da pillole per attraversare l’inferno.

Io pago il mio e Franca le due cose che ha comprato.

Sabina si è rasserenata: dà il braccio a Franca senza fatica, come se l’uscita dal supermercato la togliesse da un luogo a rischio.

Passo la bottiglia a Franca:

«Gli alcolici sono vietati?».

«No, non proprio. Però possono entrare solo eccezionalmente».

«Beh, tienila. Al più la berrai coi volontari».

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