Presiden arsitek/ 58

Al primo contatto, il cuore di Miloš ebbe un guizzo improvviso e viscido, come un’anguilla cui abbiano tagliato la testa, tanto che Miloš sobbalzò nella cassa, facendola traballare. Cercò la maniglia che gli era stata indicata per uscire dalla cassa. Ma era nudo dentro la cassa, ricordò, e non aveva voglia di farsi vedere così dal presidente. Sentì che qualcuno, forse Decor, gli passava un fazzoletto sulla fronte, prima ancora che lui si rendesse conto di essere madido di sudore.

di in: Presiden arsitek (0)

– Le interessano i meccanismi? Sa, orologerie, serrature…

Sorridendo ormai quasi consumato dal vino, i denti denudati con una voluttà che ancora anni dopo lo avrebbe fatto avvampare, sorridendo come un cane morto che cerchi di farsi strada nella terra gelida in cui l’hanno sepolto, Miloš rispose con trasporto untuoso, sbirciando malevolo l’evidente annichilimento di Decor di fronte a tutte le attenzioni che l’architetto gli stava dedicando.

Sul piatto dell’architetto si sganasciava un biancore stefanosessacantino di lische, conchiglie, gusci e tenaglie svuotate, e chi ci avesse fatto caso avrebbe potuto notare sulla lacca dei mobili più vicini al corridoio ancora qualche lacrima del vapore che usciva da sotto una delle porte delle stanze di là, nonché il tenue trambusto che usciva da quella porta, come chi stesse rovistando tra una catasta di lattine avendo cura di fare il meno rumore possibile.

– Ingranaggi, cric crac, cric crac…

L’architetto, intrecciatele davanti a sé, ruotava l’una nell’altra le nocche delle due mani. Tra le grandi foglie verdi che premevano contro la vetrata della sala da pranzo nascondendo quasi ogni traccia di orizzonte esterno, Miloš vide divincolarsi i corpi gonfi e ancora più verdi dei pappagalli di Waltzwaltz.

“Passò, del tempo”, sogliono dire le fiabe, “e quando per la seconda volta incontrò quello strano omino, il nostro eroe non lo riconobbe, e passò oltre”.

Troppo tardi, un mese prima di quella cena, Miloš si era reso conto che l’uomo che aveva intravisto tra la gente che veniva altri non era che l’architetto, e fu per aver pensato subito dopo alle fiabe che infine il giovane si ritrovò a precipitare nella trappola del presidente, sempre che di trappola si possa parlare – ma quand’è poi che non se ne può davvero parlare?

Chissà, chissà perché, questo secondo incontro con l’architetto in quel momento era sembrato a Miloš una coincidenza tanto strana da sentirsi in dubbio se non si trattasse di un avvenimento soprannaturale. Forse fu semplicemente per via dei vestiti che l’architetto indossava quando l’aveva incontrato in treno, e che gli davano quell’aria impossibile. Qualcuno deve pur essere “il nostro eroe”, o meglio ciascuno può esserlo almeno una volta nella vita, giusto? Purché sappia vedere i segni, pensava Miloš, già quasi ormai come un matto accoccolato su una panchina sotto la neve. Non è questa l’unica e più terribile morale delle fiabe? Sì. Quel secondo incontro casuale sembrava anzi era proprio uno di quegli incontri di cui si legge nelle fiabe, quando l’eroe, benché una profezia lo abbia avvisato dettagliata- e cristallina- mente che un certo tale è destinato ad avere una parte decisiva nella sua impresa, che nella fiaba (ecco la seconda delle infinite trappole! Miloš!… nulla di più tremendo di un cuoricino di Miloš che si abbandona alla gioia del primo volo per cadere invece tra fauci di luce carnivora) coincide con la vita stessa e dunque con la morte, giusto, giusto? E tuttavia, aveva delirato Miloš cedendo a quel più puro tra i deliri che è il numero, e tuttavia, pur incontrando più volte quell’uomo, non lo riconosce che al terzo o quarto incontro. Uno, due tre.

“Sembra così strano che l’eroe di una fiaba non riconosca, pur avendo avuto tutte le indicazioni necessarie, la persona che il destino gli ha riservato”, aveva pensato il rag-/il vecchio p-azzo, “ma quando una situazione così viene vissuta nella realtà, allora si capisce come possa accadere. Già! si fa presto a dire, passò del tempo… o, non lo riconobbe… ma in tutto questo tempo non è che l’eroe delle fiabe sia rimasto immobile dentro una scatola di latta senza pensare ad altro che al proprio destino. Ecco.”

Il tenue tac tac dei becchi di pappagallo contro il morbido vetro frusciante. Il molle tac tac del cuore contro la latta dell’architetto. Solo avesse guardato ancora una volta dalla finestra, Miloš avrebbe visto i sottili vermi di fuoco del Giabba Sebastani dileguare nella carne verde dei pappagalli, e una bambina col frac giochettare con le manopole dell’enorme radio a vapore del museo/aquapark…

“Ecco, io, per esempio, dall’ultimo mio incontro col presidente, ho amato, ho sofferto, ho lavorato, ho veduto molti cari morire, ed altre mille cose tutte lì a distogliermi dall’architetto che magari era la sola importante. E dunque, come era possibile che io mi ricordassi di lui oggi? E poi tutto sommato, quella prima volta sul treno diretto a Venezia, mi era parso più una specie di buffone, e chi ci ripensa agli idioti che incontra? ma il problema è proprio che nelle fiabe il destino si presenta sempre sotto mentite spoglie, anche se non mi viene in mente il caso di un cretino che… Potrei chiamarlo e vedere un po’ che succede… macché!… è già sparito in mezzo alla folla, dovevo pensarci prima… Ma no, no, no anche ammesso che io mi fossi accorto che era lui in tempo per fermarlo, avrebbe forse avuto un senso che io mi rivolgessi a lui, così in mezzo alla strada, dicendogli magari, eccomi qua, si ricorda di quel giovanotto, un anno fa, sul treno per Venezia? Quando le fiabe le si vive nella vita reale, allora è tutto un altro paio di maniche; si fa presto a dire, passò del tempo! certo, per il lettore è un battibaleno, ma per chi quel tempo se lo fa passare sulle spalle? proprio tutto un altro paio di maniche,” e aveva quasi cominciato a parlare ad alta voce, fermo in piedi nella corrente di persone che uscivano dalla stazione.

E non era stato lui stesso, anni e anni fa, in un luna park dove una zingara con tanto di sfera di cristallo––

Il volto del dott. Decor, come gli era stato presentato quando aveva messo piede nella casa dell’architetto, era sfigurato da un rigonfiamento sulla mandibola che gli conferiva una sinistra e carnevalesca impossibilità. Il primo istinto di Miloš, vedendo Decor, era stato di aperto odio.

Il mobilio della sala da pranzo era stato sistemato con il caos e il fasto di un bottino di guerra, un soqquadro di soprammobili, specchi, dipinti, paraventi, poltrone, tavoli e argenterie raccolti insieme dalle epoche e dai luoghi più disparati, ammucchiati col criterio oceanico con cui detriti naufraghi di uno stesso tipo si ritrovano ammassati insieme in vari punti della spiaggia –– e la sabbia gialla che il vento di Schwarzschwarz solleva costantemente sopra tutti i suoi rioni e che l’architetto sembrava a bella posta aver lasciato accumularsi in minute burrasche sui bordi delle maschere, dei bauli e dei bibelot, non faceva che aumentare l’effetto, tanto che col tempo in Miloš si sarebbe prodotto il ricordo parallelo di un incontro su un’isola di pirati, nonché il dato allucinato di conchiglie sbriciolate sotto i suoi piedi mentre attraversava il corridoio, alghe, gabbiani, un vasto e appiccicoso fetore di sale.

E quella zingara nella sua tenda, nient’altro che un tappeto a proteggere il tavolino e le due sedie dal fango del luna park––

[Irrompe schiamazzando una compagnia nomade di cantanti allegorici. Sistemano la loro misera scenografia dove trovano spazio. Più povero è lo spettacolo, più gli sarà facile intrufolarsi negli interstizi. Ma lo spettacolo più miserabile di tutti è quello che ogni giorno si svolge davanti al nostro naso. Mentre gli attori si preparano mimano l’un l’altro gesti osceni, contorcendosi a imitazione di vari animali della giungla. Poi ha inizio seguente il non richiesto e non necessario melodramma allegorico:

–––

Personaggi

PRIMO CLIENTE

SECONDA CLIENTE

TERZO CLIENTE

MADAMA

(Sulla sinistra, un attaccapanni stracolmo di vestiti e ciarpame; sulla destra un abbozzo di tenda da luna park, sotto la quale una cartomante siede a un tavolino con sfera di cristallo; accanto alla “tenda”, un cartello recita: «Madama legge il futuro»; i clienti della cartomante entrano da sinistra, inizialmente vestiti nel modo più minimale possibile (calzamaglia e canottiera color carne, oppure con la sola biancheria) e prima di entrare da Madama indossano il loro abito togliendolo dall’attaccapanni; mentre un cliente parla con la cartomante, il successivo sta già indossando l’abito)

(Entra il PRIMO CLIENTE e si veste: pantaloni, camicia)

PRIMO CLIENTE: Buonasera, Madama.

MADAMA: (Madama allunga una mano) Prima il denaro, il futuro poi.

(Il primo cliente si fruga nelle tasche: trova delle monete e le dà a Madama.)

MADAMA: Perché è qui?

PRIMO CLIENTE: Per la verità, un po’ per gioco…

MADAMA: (Irata) Un gioco? Il futuro, il suo futuro, crede sia un gioco il suo futuro?

PRIMO CLIENTE: No, no, ma…

MADAMA: Ma?…

PRIMO CLIENTE: Ma, questo è un luna park…

MADAMA: …sì?…

PRIMO CLIENTE: …il luna park è per divertirsi, o no?

MADAMA: …e solo i giochi sono divertenti?

PRIMO CLIENTE: No, ma…

MADAMA: …non vorrebbe che il suo futuro fosse divertente?

PRIMO CLIENTE: Sì… voglio dire, no… Non lo so. Comunque non sono io che decido.

MADAMA: E nemmeno io. Io leggo e basta. Ma un futuro divertente non dev’essere per forza un gioco, anche se siamo in un luna park. Ecco. Si sieda.

(Il primo cliente si siede; mentre i due parlano entra la SECONDA CLIENTE e inizia a indossare una gonna e una camicetta)

MADAMA: Metta le mani sulla sfera. Chiuda gli occhi. Si concentri. (Chiude gli occhi anche lei; mugugna un po’, rilasciando ogni muscolo, poi inizia a parlare con voce monotona e modi catatonici) Presto farai un incontro importante per la tua vita. Una donna. È molto bella. Le chiederai di sposarla. Lei accetterà.

PRIMO CLIENTE: Non sembra molto divertente…

MADAMA: (Apre gli occhi di scatto, risvegliandosi dalla trance) Nessun incontro è divertente. Mai. Può andare.

(Il primo cliente esce proprio quando la seconda cliente ha finito di prepararsi; si incrociano al centro del palcoscenico; si fissano intensamente, si sfiorano le mani; poi la seconda cliente prosegue verso la tenda; il primo cliente va all’attaccapanni e inizia a indossare un abito da sposo; lascia cadere a terra i vestiti che aveva prima)

SECONDA CLIENTE: È permesso?

MADAMA: Venga avanti.

MADAMA: (Come prima) Prima il denaro, il futuro poi.

(La seconda cliente trova delle monetine nella tasca della gonna.)

MADAMA: Si sieda. Cosa vuole sapere?

SECONDA CLIENTE: Ero venuta qui solo per gioco, ma poi…

MADAMA: (Irata) Qui non si gioca! Come ve lo devo spiegare?

SECONDA CLIENTE: No, no, certo: non si gioca. Infatti poco prima di entrare… (sorride).

MADAMA: (Soppesando le monetine) Sì? Cosa? Niente moine: non le sono stati riservati abbastanza denari.

SECONDA CLIENTE: …sì, ecco, poco prima di entrare ho visto un uomo, e…

MADAMA: …e ho capito tutto. La solita storia. La sfera di cristallo a che serve?

SECONDA CLIENTE: Allora rivoglio le mie monetine.

MADAMA: Sì, come no. Ecco la sfera. Si sieda. Chiuda gli occhi. Si concentri. (Come prima: mugugna un po’, entra in trance, inizia a parlare; nel frattempo è entrato il TERZO CLIENTE: prende un abito scuro, camicia, cravatta, orologio d’oro) Lui ti chiederà di sposarti. Tu gli dirai di sì. Ma attenta! Un giorno gli spezzerai il cuore.

SECONDA CLIENTE: (Batte le mani) Oh, com’è divertente! Non vedo l’ora! (Esce dalla tenda; corre all’attaccapanni e ne prende un velo da sposa; il primo cliente si fruga nelle tasche e trova degli anelli.)

TERZO CLIENTE: (Entra da Madama) Buongiorno.

PRIMO CLIENTE: (In piedi con la seconda cliente davanti all’attaccapanni, parlando all’oggetto come fosse un sacerdote) Lo voglio!

MADAMA: (Al terzo cliente) Buongiorno (Allunga la mano) Prima il denaro, il futuro poi.

(Il terzo cliente si fruga nelle tasche: trova delle banconote.)

SECONDA CLIENTE: Lo voglio! (Bacia il primo cliente)

MADAMA: (Al terzo cliente) Cosa vuole sapere?

TERZO CLIENTE: Niente.

MADAMA: Benissimo. Quella è la sfera. Si sieda.

PRIMO E SECONDA CLIENTE: (In coro) Funziona!

TERZO CLIENTE: Non voglio sapere niente. (Si siede)

MADAMA: Chiuda gli occhi.

TERZO CLIENTE: Non voglio. (Chiude gli occhi)

MADAMA: (Mugugna poi inizia a parlare in trance) Incontrerai una donna.

TERZO CLIENTE: No.

MADAMA: La donna si innamorerà di te.

TERZO CLIENTE: No.

MADAMA: Per te tradirà il marito.

TERZO CLIENTE: No.

MADAMA: Avrete un figlio.

TERZO CLIENTE: No.

MADAMA: Quando vostro figlio scoprirà chi è il suo vero padre…

(Il terzo cliente si alza e fugge verso l’attaccapanni; mentre rovista disperatamente, la seconda cliente gli si avvicina alle spalle e lo abbraccia da dietro; restano così, dondolandosi)

TERZO CLIENTE: Funziona.

(La seconda cliente fruga nell’attaccapanni e tira fuori una vestaglia: la indossa: c’è qualcosa incastrato al suo interno: un bambolotto; da qui in poi la donna lo terrà sempre con sé, stringendolo per un piede; il primo cliente prende dall’attaccapanni una parrucca grigia e un bastone; entra da Madama)

PRIMO CLIENTE: Sembra ieri, qui non è cambiato niente.

MADAMA: (Allunga la mano; monetine) Si sieda. Questa è la sfera. Chiuda gli occhi e si concentri. Cosa vuole sapere?

PRIMO CLIENTE: Il futuro.

MADAMA: Quale futuro?

PRIMO CLIENTE: Il mio.

MADAMA: Perché?

PRIMO CLIENTE: Perché l’altra volta ha funzionato.

MADAMA: Va bene. Si concentri. (Mugugna; trance) Sei invecchiato. Stai perdendo la memoria. Presto non ricorderai più nemmeno il nome di tuo figlio.

PRIMO CLIENTE: Come sa che ho un figlio?

MADAMA: Non lo so. E nemmeno tu.

(Il primo cliente esce. Inizia una rotazione sempre più rapida di clienti; tutti e tre corrono avanti e indietro tra l’attaccapanni e l’indovina; quando la seconda cliente incontra uno o l’altro dei due uomini, gli dà un rapido bacio)

MADAMA: (Alla seconda cliente) Non amerai più né tuo marito né il tuo amante né tuo figlio: abbandonerai tutti.

SECONDA CLIENTE: Oh, com’è divertente, non vedo l’ora. (Corre all’attaccapanni, ne prende una sacca e la riempie di tutti i vestiti)

MADAMA: (Al terzo cliente) Donne. Potere. Denaro. Tutto sarà tuo, se lo vorrai.

TERZO CLIENTE: Non voglio nulla. (Corre all’attaccapanni e toglie di mano alla seconda cliente una sciarpa di seta e una giacchetta elegante prima che lei li ficchi nella borsa)

MADAMA: (Al primo cliente) Dimenticherai tutto.

(Il primo cliente zoppica verso l’attaccapanni; prende cose a caso sia dall’attaccapanni che dalla borsa della seconda cliente, infilandosele malamente);

MADAMA: (Alla seconda cliente) Appassirai per sempre.

SECONDA CLIENTE: Oh, com’è divertente! Non vedo l’ora! (Va all’attaccapanni e inizia a disfare le valigie)

(Corsa finale tra l’attaccapanni e la tenda; i tre clienti si limitano a fare un giro intorno all’attaccapanni e a correre di nuovo da Madama)

MADAMA: (Al terzo cliente) Rimpiangi tutto; (Al primo cliente) Càgati addosso; (Alla seconda cliente) Parla da sola tutto il giorno; (Al terzo cliente) Parla da solo tutto il giorno (Al primo cliente) Làvati i denti; (Alla seconda cliente) Rimani alla finestra; (Al terzo cliente) Va’ a casa; (Al primo cliente) Hai una scarpa slacciata; (Alla seconda cliente) Petto di pollo e riso in bianco; (Al terzo cliente) Strega comanda colore; (Al primo cliente) Uno, due, tre; (Alla seconda cliente) Quattro, cinque, sei; (Al terzo cliente) Io ti amo; (Al primo cliente) Dimentica il tuo nome; (Alla seconda cliente) Dimentica il tuo nome; (Al terzo cliente) Dimentica il tuo nome.

(I tre si incrociano fuori dalla tenda; distruggono il bambolotto; ognuno ne tiene in mano un pezzo; iniziano a girare in cerchio intorno all’attaccapanni)

PRIMO, SECONDA E TERZO CLIENTE: Funziona!

MADAMA: Questa è la sfera: cosa volete sapere?

(Improvvisamente, tutti e tre muoiono di vecchiaia).

SIPARIO

–––

Fine dell’allegoria superflua. Dopo essere morti, gli attori raccolgono i loro cenci, rubacchiando con mosse furbine di scoiattoli qualche forchetta d’argento e qualche collana dall’ingarbugliato arredo del presidente e tornano da dove sono venuti]

Poi al giovane venne in mente di aver ricevuto, in effetti, una predizione, tanto tempo prima, in un luna park, una predizione che riguardava proprio un incontro importantissimo con uno sconosciuto. Pensò infatti, “E il bello è che quella chiromante del luna park me l’aveva predetto, tanti anni fa, che avrei incontrato un uomo, ma chi crede mai alle donne che ti leggono la mano? quanti sono quelli che ricordano le loro profezie, che le tengono sempre in mente, affinché non gli si realizzino sotto il naso, senza che nemmeno ci se ne possa accorgere?”

Qui i pensieri di Miloš, tuttavia imbambolato in piedi in mezzo alla corrente di persone che si allontanava dalla stazione di Venezia e che con Miloš erano destinati a contare tra i pochi sopravvissuti all’imminente attacco degli Arlecchini, i pensieri di Miloš si erano fatti più bislacchi, e tanto goffi da poter essere riportati parola per parola. Sin qui, infatti, a dispetto delle parole che gira che ti rigira siamo obbligati a infliggervi nel nostro ruolo di archivisti tutta questa chiamiamola riflessione era uscita in modo disordinatissimo, anche lei rimescolata dal putrescente oceano della psiche, una brodaglia di parole, immagini, pulsazioni cardiache, recondite distillazioni umorali e chi più ne ha, che si succedevano con pasticciata rapidità coalescentisi in molti e forse infiniti (come il rarefarsi ininterrotto degli armonici di una corda di chitarra) flussi di pensieri per la gran parte impronunciabili, come uno sciame di insetti o un labirinto dalle mille vie, o–– quello che vi pare, basta che non ne sappiate trovare il centro o l’uscita.

Se dunque fino a questo punto i pensieri dello sventurato si erano sviluppati nel modo testé descritto, ora, quando iniziò a pensare alle profezie, il ragazzo si ritrovò ad immaginare di tenere, parola per parola, ad un uditorio non meglio precisato, il discorso che segue, e che quindi possiamo riportare per intero quale specchio fedele dei suoi pensieri, senza paura di cadere nella confusione più completa. “Ecco, se uno di lorsignori”, esordì perciò dentro di sé il giovane dal suo palco immaginario, di fronte a un gruppo di ascoltatori che in qualche modo coincideva con la folla dei morituri e dei salvandi che gli scorreva accanto indifferente e lacrimosa – e bah, le belle illusioni! Già lo vedete che ZAC, com’è come non è la confusione già torna a irrompere come un branco di vagabondi in festa –– comunque, “se uno di lorsignori fosse stato informato, in giovane età, che nel giro di qualche anno avrebbe incontrato un uomo vestito in modo particolare, e che quell’uomo era l’uomo del suo destino, chi di voi, miei cari, sarebbe mai stato capace di riconoscere quell’uomo, una volta che l’avesse avuto davanti? Non solo: quanti di voi avrebbero ricordato quella predizione fino al momento necessario? Non si sentono forse ogni giorno ogni sorta di predizioni, non si avvertono forse continuamente oscure premonizioni che ci piovono addosso dovunque ci volgiamo? La gran parte di esse è falsa, naturalmente; ma se anche una, dico una sola di quelle che siamo abituati a considerare fandonie per superstiziosi, se anche una sola di queste fandonie dimostrasse di avere un fondo di verità? Voi sareste capaci di rendervene conto al momento giusto?”, e qui il giovane arrivò persino a figurarsi che dal suo pubblico immaginario si levasse la voce di una vecchia donna dell’est, secca come una fucilata tra le betulle, il cui spettro emerse dalla folla in cammino per fermarglisi davanti con un’obiezione che in fondo non c’entrava nulla, e con la quale il giovane si riaccoccolò definitivamente nel proprio disordine mentale, e nella corrente di persone che si allontanava dalla stazione, lasciandosi così alle spalle il punto da cui avrebbe ancora potuto raggiungere l’architetto Abrami.

Questa donna immaginaria, dunque, si alzò dal semiuditorio ambulante e oppose alla tirata del giovane, che “Il problema, giovanotto, non è se qualche predizione o, per usare la più trita formula, qualche leggenda abbia o meno un fondo di verità; perché io le dico che, se lei prestasse la dovuta attenzione, qualsiasi parola, e persino qualsiasi suono lei articolasse, anche il più apparentemente casuale, potrà e anzi dovrà, a lungo andare, rivelarle una qualche verità.”

“Dopo quell’incontro, la tua vita cambierà completamente”. Niente di più facile, la chiromante aveva ripetuto quella predizione centinaia di volte a centinaia di persone differenti. O forse no? Tentare di rincorrerlo sarebbe stato un voler forzare la profezia? Miloš continuava tuttavia ad almanaccare, “E se fosse davvero come una fiaba? se tu ora ti lasciassi sfuggire l’occasione di vedere se la profezia della chiromante era vera o no, forse perderesti l’unica occasione in tutta la tua vita di entrare in contatto con un’esistenza di tipo magico. E rifiuteresti questo semplice tentativo, solo per non considerarti un imbecille. Ma, se si trattasse davvero di una fiaba, se la profezia avesse ragione, imbecille saresti a non cercare almeno di rincontrare quell’uomo. In fondo, se anche ne uscisse fuori, come è probabilissimo, che tutti questi tuoi dubbi non sono stati che fumose fantasie, tu cosa ci perdi? Il peggio che potrà capitare è che l’architetto si dimostri alla prova dei fatti una persona qualunque, per nulla destinata a cambiare per sempre la tua vita. Ma se invece tu avessi ragione? Devi tentare: se hai sbagliato, non perdi nulla, ma se hai avuto ragione, e lui è davvero l’uomo del tuo destino…”, e ciò sia prova di quanto istupidita e napoleonificata si sia certa idea di destino. Tanto varrebbe desiderare di incrociare i propri passi con una tigre per poterne ammirare la bellezza.

Miloš non aveva perso il biglietto da visita dell’architetto, ma restava il problema dell’obbedienza alla profezia: è poi veramente corretto fissare un appuntamento con quello che in un qualche recesso del proprio cranio si reputa un emissario del fato? E però: però: fissare un appuntamento aveva il vantaggio di rendere solo parziale la propria credulità nelle profezie, come chi dicesse, “Vediamo un po’ queste profezie, come funzionano: ma, come il tempo è denaro, mica posso permettermi di aspettare che costui mi ricapiti davanti per caso; perciò tagliamo la testa al toro, fissiamo un appuntamento, e dopo nasca ciò che vuole, non è forse vero che si dice che si deve incontrare una persona, anche quando le si è dato un appuntamento, e non solo quando si crede alle profezie? La chiromante aveva solo detto che lo avrei incontrato,” cavillava con deliberata stupidera Miloš. Non si trattava (come avrebbe ahilui scoperto anche troppo presto) di una fiaba, e le profezie non esistevano, e tutta questa ruminazione in fondo non era che il preparativo di un gioco: e tuttavia Miloš, nell’accingersi a questo gioco, sentiva il bisogno di non contravvenire alla formula. Così era più divertente, e cosa ci si perde a divertirsi?

***

Miloš rise forte, mandando giù un altro bicchiere. “I meccanismi e gli ingranaggi mi piacciono moltissimo!” Decor fissava il fondo del proprio piatto, sconfitto. Un filo di fumo usciva dalle labbra socchiuse dell’architetto immobile, come se una qualche ampolla dentro la sua gola di bambola messicana si fosse surriscaldata e infine infranta.

“Là: là. Quella tendina. Quella, sì.”

Dietro il velluto liso c’era una copia in plastica di un mascherone di fontana romana. Accanto al tondo color pietra, la fessura metallica per le monetine.

“Una riproduzione fedele delle Bocche di Leone veneziane. Ci ficchi dentro una mano. Le prime tre dita, così. Non si preoccupi se in fondo c’è un po’ di umidità, ci sono state delle infiltrazioni. Dentro, dentro, non abbia paura, dentro… deve cercare una… lo capirà quando la trova. Su, provi.”

Decor, tuttora chino sul piatto, afflitto, si passò una mano sull’escrescenza ossea, come carezzandola. Maledetto dottor Decor! Non credevi che sarei arrivato fin qui, davanti alla bocca veneziana!, pensava sprezzante Miloš, quasi del tutto ubriaco davanti al grosso giocattolo.

L’interno era davvero umido, e sulle prime, affondando le tre dita nella gola di plastica come il presidente gli aveva ordinato, Miloš credette persino di sentire una bocca in carne ed ossa succhiargli l’indice e il medio, e fu per ritirare la mano, ma premendo un poco sotto la sostanza molliccia che gli era parsa una bocca vivente liberò infine quella che al tatto pareva una levetta o una minuscola manopola.

“Ecco, ora la sente, vero? La deve far ruotare, cerchi di sintonizzarsi…”

Dal suo posto Decor ebbe un singulto come se fosse stato trafitto da un attacco di vomito, ma Miloš non poté vederne le lacrime gonfiargli gli occhi mentre, girando la manopola, sentiva uno sfrigolare l’interferenza radiofonica di un carillon, lampadine colorate di autoscontri, e l’ombra di uno scoiattolo che si dileguava in uno scivolo chiuso, il minuscolo artiglio nero che sfrigolando radiofonicamente gli affondava le unghie nel cuore come cinque spilli voodoo…

Tratratratratràc, la piccola ombra si dileguò verso la cima degli alberi e tratratratràc fu il rumore del collo che si riallineava con le vertebre quando Miloš riaprì gli occhi, in bocca un rasoio di sangue, le proprie stesse dita conficcate tra le costole all’altezza del cuore.

“Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”, grattando con le dita grassocce il vuoto davanti a sé.

Le nocche di Decor avevano un colore quasi di madreperla, la mano contratta intorno al tovagliolo in uno spasmo di ragno morto.

“Ora scendiamo, vuole? Di qua, venga.”

Il locale sotterraneo era poco più grande della sala da pranzo, o forse tale appariva per l’assenza di mobili, se si fa eccezione per un tavolo e una sedia di legno, un paravento giapponese e una grossa cassa metallica al centro della stanza. Per le dimensioni, la cassa era una sorta di incrocio tra una bara per bambini e un’armatura o uno scafandro: senza alcun foro per cui le gambe potessero uscire, ne aveva però uno per il collo e uno per il braccio destro, dimodoché un adulto ci poteva entrare (o diremo, la poteva indossare?) senza troppa difficoltà.

“Non siamo ancora riusciti a venire a capo del perché la bioradiofonia della membrana di scoiattolo si attivi solo con determinati soggetti, l’aggeggio di sopra ci è servito appunto a capire se lei…”

Miloš capiva una parola sì e due no mentre il presidente e Decor lo aiutavano a spogliarsi e a chiudersi nella cassa di latta. All’altezza del cuore, come il presidente stesso gli mostrò mentre sigillava il coperchio, c’era un altro tubo, largo giusto perché ci potesse passare una mano. Mezzo a gesti mezzo a parole, l’architetto gli fece capire che avrebbe dovuto toccarsi il cuore attraverso la membrana di scoiattolo rosa di Schwarzschwarz che si trovava in fondo al tubo all’altezza del cuore. Non era che un primo test.

Il freddo delle pareti di latta della cassa contro la schiena e le natiche scoperte, e del collare che si chiudeva intorno al foro da cui passava giusto il suo collo, fecero riavere Miloš, che tornando a guardare l’aria afflitta di Decor mentre chiudeva l’ultima molla delle serrature manuali della cassa capì che anche lui aveva tentato il primo test in sala da pranzo, ma aveva fallito.

“…forse una lontana parentela con gli zingari di Schwarzschwarz, dovremo fare senz’altro un’accurata mappatura, ma prima il piacere, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi! Ora, se permette…”

L’architetto prese la mano di Miloš che penzolava fuori dalla cassa attraverso il buco per il braccio, e la accompagnò delicatamente dentro il terzo foro, verso il cuore.

“Le tre prime dita, mi raccomando. Conosce i vari dipinti e santini con il sacro cuore di Gesù o di Maria, no? Ebbene io credo quelle immagini siano il residuo di una antichissima partica cardiosciamanica che…”

“È pericoloso?”

“…e così non sono il solo a intuire in certe lactationes… pericoloso dice? “Certo che no, ecco, magari nelle prime fasi, quando ancora non eravamo certi in che modo… ma ora abbiamo capito ogni cosa, e, vede? queste viti qui, proprio all’altezza del mento, mettono al riparo da qualsiasi rischio in quel senso”, e mostrò ad Miloš alcune viti sistemate vicino al buco per la testa; Miloš annuì, ma, non avendo la minima idea sul funzionamento generale della macchina, ovviamente non poteva capire nulla del dettaglio che gli era stato mostrato.

Miloš finì di sistemarsi all’interno della cassa, che venne sigillata dall’architetto con una semplice maniglia, che lo stesso Miloš, come l’architetto tenne a mostrargli, poteva agevolmente aprire con il braccio libero (restavano per la verità le altre serrature, quelle chiuse da Decor). Dopo che la cassa fu chiusa, l’architetto considerò un po’ l’insieme con l’aria mezzo nauseata di un artista che sta per attaccare un blocco di marmo, poi disse, “Quando si sarà toccato il cuore attraverso la membrana, riuscirà, con sempre maggiore precisione, a sentirne il ritmo delle pulsazioni: è questo il nocciolo dell’uso di questa macchina del tempo; il principio è lo stesso del giocattolo radiofonico al piano di sopra. Il tipo di onda è assolutamente identico, solo che questa volta la membrana è doppia, c’è quella dello scoiattolo e quella del suo cuore, e il suo cuore è vivo, non lo dimentichi, è importante, creda, ci sono passato e nell’agitazione si può persino dimenticare di essere degli esseri viventi là dentro la cassa. Nel giocattolo di sopra lei ha lavorato con un cadavere di scoiattolo rosa, ma qui è diverso, perciò si prenda il suo tempo. Lo tocchi con la massima delicatezza. Sentirà aumentare gradualmente la sua sensibilità per i movimenti più impercettibili del suo cuore, e, quando avrà raggiunto un ragionevole livello di controllo, cosa che stimo avverrà nel giro di pochi minuti, potrà iniziare a manovrarlo per spostarsi indietro o avanti nel tempo. Il movimento è molto simile a quello che si fa quando si gira la manopola di una radio per cercare una stazione, ha presente?”, e mimò il gesto con la mano; “usi solo le prime tre dita: pollice, indice e medio. È come ha fatto di sopra, solo che la sintonizzazione induce anche un trasferimento d’–– ma che l’annoio a fare con queste tecnicaggini. L’ho usata anch’io oggi, sa? Quella stessa cassa in cui c’è lei, c’ero anch’io poco fa. Cu-lo nu-do. Lei ora non ci crederà, ma l’ho usata per venire proprio da lei, sul treno per Venezia, e lasciarle in mano quel biglietto da visita che l’ha portata qui: già: come nei film, giusto? La scena che a lei appare remota, per me è tanto recente quanto lo sono, nel leggere un libro, le pagine subito precedenti quella che si è appena letta”

L’architetto prese la mano di Miloš ed iniziò a infilarla con la massima attenzione più profondamente in direzione del cuore, “L’idea di lasciarle il mio biglietto da visita me l’ha data lei stesso… funziona così, è sempre così, ormai l’ho bell’e capito; per questo il dottor Decor qui–– insomma, tagliando corto è sempre il futuro viaggiatore a farsi vivo per primo, sebbene naturalmente dal suo punto di vista le cose siano andate in maniera del tutto opposta. Lei crede di avermi incontrato la prima volta per caso, su un treno; ma la realtà è che io, pochi giorni fa, ricevetti la sua lettera, e per me fu quello il nostro primo contatto; dalla scena che lei descriveva nella lettera, scena di cui io non avevo alcuna memoria, capii che lei doveva essere un viaggiatore che avrei dovuto incontrare nei prossimi giorni. E infatti, poco prima che lei arrivasse qui, io sono andato indietro, sono entrato in quel treno lanciato verso Venezia, ho parlato con lei, e dopo che lei si è addormentato le ho infilato il mio biglietto in mano: proprio come lei stesso aveva scritto nella sua lettera. Io non le avrei mai rivelato nulla sulla macchina, le pare? A un estraneo? Nulla, parola d’onore, se lei non mi avesse scritto quella lettera. E ora, tocca a lei toccarsi, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi”, concluse l’architetto finendo di mettere la mano di Miloš dentro il tubo, e togliendo ad Miloš ogni possibilità di chiedere chiarimenti sulla faccenda, che gli pareva inutilmente ingarbugliata, del viaggio nel tempo che l’architetto aveva dovuto fare per incontrarlo.

Al primo contatto, il cuore di Miloš ebbe un guizzo improvviso e viscido, come un’anguilla cui abbiano tagliato la testa, tanto che Miloš sobbalzò nella cassa, facendola traballare. Cercò la maniglia che gli era stata indicata per uscire dalla cassa. Ma era nudo dentro la cassa, ricordò, e non aveva voglia di farsi vedere così dal presidente. Sentì che qualcuno, forse Decor, gli passava un fazzoletto sulla fronte, prima ancora che lui si rendesse conto di essere madido di sudore.

“Faccia attenzione e non stringa troppo, per Dio!”.

Le costole che sembravano volerglisi spezzare da dentro per fuggire come un gigantesco insetto bianco, gli occhi dell’architetto che traballavano davanti a lui in una penombra vicina alla tenebra, Miloš allentò leggermente la presa, e allora anche il cuore iniziò a calmarsi, e finalmente in quel tremore frenetico Miloš iniziò a distinguere la regolarità di un ritmo, come un sentiero nei rovi, e seguendo quel ritmo riuscì, in un tempo che gli parve sbalorditivamente breve, a scomporre ordinatamente tutti i movimenti del proprio cuore riconducendoli a quella matrice, girando le tre dita come se cercasse una stazione radio con la manopola, proprio come aveva detto l’architetto.

La forma del battito era rimasta simile a quella di un pesce guizzante? I movimenti della mano erano solo un modo per rendere chiaro al proprio cervello ciò che nella realtà rimaneva un caos? Forse era così: girando impercettibilmente la manopola, gli sembrava di sentire ancora l’ombra del terrore del suo cuore intrappolato tra la latta e la membrana: non proprio come un’interferenza, ma piuttosto come una sottile crepa celata all’interno della superficie levigata del ritmo, come un filo contorto nella trama geometrica di un tappeto. Un singhiozzo.

Nella tenebra ormai imminente della stanza, i due corpi dell’architetto e del dottor Decor risaltavano contro le pareti quasi affreschi barocchi, il corpo di Miloš stesso ora privo dell’impalcatura del pensiero, nient’altro che un tremore radiofonico che si stava appiccicando e prosciugando per sempre addosso alle pareti del sotterraneo. Avesse potuto guardare dalla finestra, avrebbe potuto vedere traballare come una in riflessione parziale la facciata dell’ospedale dove sia lui che Decor erano destinati a finire i loro giorni, e i pappagalli accartocciarsi nei vermi di fiamme dentro il Giabba Sebastani e le manopole del macchinario azionate da una bambina col frac, e dietro di lei un ex acrobata, un diavolo volante che da giovane aveva mancato una presa scivolando in una gola senza fine azzurra…

Udì la voce del dottor Decor che sbottava, “Basta! basta! esca dalla cassa, stia attento! è un imbroglio, esca dalla cassa! non è un viaggio, ma uno scambio! è uno scambio, uno scambio!…”

Ma parlare di uno ieri o di un domani non ha ormai più alcun senso per Miloš, chi entra nel macchinario si ritrova catapultato un ubiquo e malchiuso oggi, e avvisarlo ed esempio dell’appuntamento perduto ieri è altrettanto insensato del prevenirlo che domani morirà. Invescato al paretaio bavoso dell’oggi, è nell’oggi che inevitabilmente farà franare ogni suo cammino, e sfarinando nell’oggi il suo stesso oggi sfarinando come polvere d’ala di farfalla sarà la sua ultima ora.

***

Miloš aprì gli occhi. Si ritrovò seduto nello scompartimento di un treno; in effetti, poco prima che Decor si mettesse a strillare, a poco a poco il rollio del suo cuore aveva assunto, sotto la guida delle sue tre dita, proprio la regolarità di un treno che viaggia in orario, per cui Miloš non fu troppo stupito di ritrovarsi seduto in quel luogo, mezzo ubriaco per il vino bevuto in casa dell’architetto, e le tre dita, sebbene già uscite dal petto, tuttavia ancora puntate sul cuore.

***

Miloš aprì gli occhi. Si ritrovò sdraiato nel letto di quello che sembrava un ospedale. Davanti a lui la porta della sua stanza aperta metteva su una corsia. La sua stanza era ad un capo, cosicché da sdraiato poteva vedere la corsia in tutta la sua lunghezza. Dal fondo vide avvicinarsi un carrello. Un’infermiera entrava in ognuna delle porte da un lato e l’altro del corridoio. Si fermava davanti a una porta, lasciava fuori il carrello da cui aveva preso ora una bottiglietta, ora una siringa, ora un ferro, poi entrava nella stanza. Usciva, entrava nella porta di fronte a quella da cui era uscita, e uscita anche da quella seconda stanza riprendeva il cammino con il carrello. Una macchia di sole colpiva gli occhi di Miloš. Aveva ancora le tre dita piantate nel cuore, e tirandole via da lì e guardandosele non fu troppo stupito di vedere che erano le dita di un bambino.

Ogni volta che l’infermiera attraversava il corridoio nella sua larghezza per entrare nella stanza di fronte a quella da cui era uscita, lanciava un sorriso a Miloš. Aveva i capelli corti e ricci e puzzava di pastasciutta in bianco, ed ogni volta usciva da una stanza sempre più vicina a quella di Miloš, come negli inseguimenti dei cartoni animati.

“Come stai?”

Miloš alzo gli occhi verso la voce, ma non versò alcuna lacrima di gioia quando vide seduto accanto alla finestra suo padre.

L’infermiera stava arrivando.

***

Miloš aprì gli occhi. Era seduto su una panchina, mezzo coperto di neve. Partivano da lui due file di orme divergenti, una che veniva, l’altra che andava. Alle sue spalle, le grida di bambini che giocavano in un cortile erano come il canto rauco di un rettile preistorico.

[continua l’11 marzo]

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