Immaginazione e «personaggi reali».
Su Proust

Poiché nella comprensione dei sentimenti di un personaggio reale non possiamo fare a meno dell’immagine che ci facciamo di lui, il talento del primo scrittore è stato quello di abolirne i tratti sensibili.

La passione per Proust sembra alimentare i riferimenti autobiografici, che in effetti abbondano in alcuni articoli usciti in vista del centenario della morte: c’è chi accenna a un incontro decisivo per la propria vita; altri, al momento della consegna del libro: le mani ansiose, il rumore delle pagine, la gelosa comprensione di un’opera che ai più resta impenetrabile. E i ricordi dei luoghi di lettura – nell’adolescenza o dopo – durante i lunghi mesi necessari a venirne a capo. Il fatto è che, a differenza di ciò che accade quando si affronta un tema generale (per cui un particolare può tornare utile), in questo caso il contenuto emotivo, più che all’esperienza di Proust, vorrebbe avvicinare il lettore a quella dell’autore dell’articolo, che non sempre è il mezzo più sicuro per arrivare al libro; a volte diventa un’occasione per ribadire un’idea esclusiva della letteratura: il lettore è invitato a immedesimarsi non in Proust – sarebbe troppo – ma nell’autore che ama Proust. Un’immedesimazione a portata di mano, che lo eleva dalla sua quotidianità orientandolo verso la grandezza (a distanza, ovviamente: l’umiltà, anche quando è poco convinta, è d’obbligo). Per quanto mi renda conto di rinunciare a un’ottima occasione, vorrei considerare questa parte già svolta e aggiungere solo qualche nota di lettura.

1.

L’opera di Proust porta alle conseguenze più radicali una verità letteraria elementare, ossia che lo stile non ha niente a che vedere con l’espressione di un’opinione. E, per quanto questo possa suonare come un’offesa alle convinzioni più gelose di tanti lettori appassionati, Alla ricerca del tempo perduto conferma che non si scrive per esprimere se stessi. La ricerca in questione è rivolta altrove, alla consistenza di un fenomeno, alla persistenza dell’essere umano nel tempo: alla coscienza che due diverse impressioni di felicità, una provata nel presente, l’altra nel ricordo improvviso del passato, vengono intuite per ciò che hanno in comune da un essere in qualche misura «extratemporale». In effetti, mentre lo stile, «come il colore per il pittore», è un problema di visione, le opinioni, sia quelle del Narratore, sia quelle che corrono per il mondo fatato e provinciale di Combray – risorto da una tazza di tè grazie al prodigio della memoria involontaria –, non sono solo parziali e ridicole, ma a una lettura completa dell’opera emergono come elementi del propulsore più robusto delle vicende sociali: l’equivoco, il fraintendimento quasi inavvertito eppure così diffuso da chiarire ironicamente quanto nel campo delle convinzioni umane raggiungere un punto fermo sia pressoché impossibile.

Come è noto, in Dalla parte di Swann, la famiglia del Narratore è convinta che Charlus, intravisto nel giardino della tenuta di Swann, sia l’amante della discussa moglie di questi, Odette. Lo sviluppo della storia ricorda invece che il formidabile barone, vedovo, è diventato – o è sempre stato – omosessuale. Ma più avanti, nella Prigioniera, il Narratore chiarisce: «Ogni tanto andava a letto con una donna, come un uomo normale può passarla, ogni tanto, con un giovinotto, per una curiosità analoga, inversa e, in entrambi i casi, egualmente malsana» (p. 1705). E, sempre nella stessa parte, (p. 1771), mentre parla con il professor Brichot e il Narratore, dopo aver ricordato che organizzava per Odette «certe festicciole spaventose, a cinque, a sei», alla domanda: «E Swann seppe mai che avete goduto i favori di lei?», Charlus risponde: «Via, che orrore! Dire una cosa simile a Charles? Cose da far rizzare i capelli in testa. Ma, mio caro, mi avrebbe ammazzato, né più né meno: era geloso come una tigre». Risulta perciò difficile criticare perentoriamente le opinioni della famiglia del Narratore, del nonno e della prozia. Questi si sbagliano su Swann, che credono un semplice borghese mentre è amico personale del principe di Galles; e così su Lengrandin, creduto privo di ingegno, quando invece, nel suo snobismo, gode di credibilità letteraria: eppure, di nuovo, nei loro errori c’è qualcosa di vero, che suggerisce oscuramente quanto Swann abbia dissipato le sue doti personali in un pigro dilettantismo. E si sbaglia il Narratore. Costretto dalla salute incerta a rimanere spesso in casa, consuma in anticipo ogni esperienza tanto da esaurirla mentalmente, formandosi un articolatissimo pregiudizio che cresce a dismisura prima dell’incontro con la realtà materiale: così, quando finalmente si trova a teatro a vedere la Berma, o al cospetto dello scrittore Bergotte, oppure ancora davanti alla chiesa di Balbec, l’intuizione sensibile non regge il confronto con le immagini della sua fantasia febbrile ed esausta. Cercando un riconoscimento impossibile, finisce per trascurare ciò che la realtà ha da offrirgli in quanto apparizione, manifestazione irripetibile. Si sbaglierà ancora, anche su Albertine e su Oriane de Guermantes; ma per fortuna avrà modo di ricredersi.

Le opinioni si perdono in un prisma di prospettive. Se l’espressione sociale della vocazione letteraria di Marcel – «se dessimo al narratore lo stesso nome dell’autore di questo libro» (p. 1607) – lo fa incerto e privo di vigore, la «visione» delle pagine della Recherche, o appunto il suo stile, non mostra cedimenti; in questi termini la comprensione nel tempo dell’individuo e della sua interiorità è già piena fin dalla prima parte, anche se arriverà alla completa espressione nelle pagine dell’adoration perpétuelle nel Tempo ritrovato. E altrettanto formata e solida è la concezione della letteratura. Questo passo, ad esempio, non finisce mai di sorprendermi:

«Erano gli avvenimenti che accadevano nel libro che leggevo; è vero che i personaggi che offrivano non erano “veri”, come diceva Françoise. Ma tutti i sentimenti che ci fa provare la gioia o la sventura d’un personaggio reale, non possono nascere in noi senza l’intervento di una immagine di quella gioia o di quella sventura; l’ingegnosità del primo scrittore fu l’intendere come, essendo l’immagine il solo elemento essenziale nell’apparato delle nostre emozioni, la semplificazione che consistesse nel sopprimere puramente e semplicemente i personaggi reali, sarebbe un perfezionamento decisivo. Un essere reale, per quanto profondamente muova la nostra simpatia, è in gran parte percepito dai nostri sensi, vale a dire ci resta opaco, offre un peso morto che la nostra sensibilità non può sollevare. Se una disgrazia lo colpisce, unicamente in una piccola parte della nozione totale che abbiamo di lui potremo sentircene commossi: e ancora, unicamente in una piccola parte della nozione che lui stesso ha di sé, potrà essere commosso. La trovata dello scrittore è stata d’aver l’idea di sostituire a quelle parti impenetrabili dell’anima, una pari quantità di parti immateriali, che la nostra anima può cioè assimilare» (pp. 64-65).

Poiché nella comprensione dei sentimenti di un personaggio reale non possiamo fare a meno dell’immagine che ci facciamo di lui, il talento del primo scrittore è stato quello di abolirne i tratti sensibili. L’essere reale, infatti, è percepito dai sensi, che cercano non di cogliere il sentimento, ma semplicemente di confermare la nostra immagine, di riconoscerla (anche se in termini di profondità non potrà mai essere confermata): nell’arte letteraria, tolto di mezzo l’essere reale, resta solo l’immagine che ce ne siamo fatti, pronta per dar forma al personaggio: i sensi non ci sono più d’intralcio, non trovano più una parte impenetrabile di sensazioni davanti alla quale fermarsi, ma una serie di parti immateriali, fittizie, più facilmente assimilabili. Il personaggio non è dunque un io-sperimentale posto su un vetrino come reagente rispetto al mondo che l’entomologo deve esplorare, ma un essere concreto, sia pure costituito anche di parti fittizie, che la nostra intuizione libera dai dati sensibili può cogliere e rivestire di sfumature. E questa creatura è il mezzo che dà spessore e consistenza alla resurrezione del passato per mezzo della memoria involontaria.

Così la madeleine nella tazza di tè ricorda la zia Léonie, il suo infuso di fiori di tiglio, il rapporto capricciosamente conflittuale con la governante Françoise e tutta Combray; i ciottoli diseguali del cortile di Palazzo Guermantes richiamano il Battistero di San Marco a Venezia e la madre del narratore; il cucchiaio sul piatto, i binari; il tovagliolo inamidato, Balbec, il suo albergo (e la stagione delle fanciulle in fiore). I personaggi sono colti a partire da queste immagini, fra la memoria storica, che è comunque in parte memoria delle nostre immagini, e quella parte insondabile, registrata inavvertitamente dalla memoria, che sfugge al ricordo e che torna in vita solo grazie al ripetersi pressoché identico di una sensazione, un recupero della memoria involontaria che si fa dato di coscienza.

Non tutti i personaggi, però, sono colti a tutto tondo. Lo sono meno quelli in cui l’affetto riduce la possibilità di dare forma a un’immagine più stabile nel tempo. Non lo è, fin quasi alla fine, Robert de Saint-Loup, il migliore amico del narratore; e soprattutto non lo è Albertine, l’amore più importante di Marcel, che un po’ come la Anna Karenina di Tolstoj mostra una bellezza e un corpo di volta in volta diversi (Tolstoj a un certo punto la ricorda grossa; in Proust le mani di Albertine sono «paffute, ma di una dolcezza sensuale»: la sua bicicletta, il tocco in testa, il manicotto indossato sulla spiaggia, o il suo essere nuda quando Françoise la scopre assieme al narratore valgono più della descrizione del suo viso, di cui conosciamo le guance rosse). Proust ha insistito più volte, nel corso del romanzo, sul susseguirsi di “io” diversi nel quale si compie la nostra vita, e sul modo in cui anche il cuore, crudelmente, subisce un cambiamento che ci fa indifferenti al dolore degli altri; ma se da una parte l’io-profondo e l’io-sociale giocano una partita il cui fine nel Tempo ritrovato va colto in una dimensione extratemporale, l’immagine mutevole del personaggio, lontana dal sembrare semplicemente il frutto della visione di una monade (il narratore), si arricchisce proprio dell’incertezza con cui di volta in volta è presentata. Proprio per questo arriviamo a vedere quasi per intero Albertine solo nell’ultima parte di Albertine scomparsa.

2.

Se la natura stupisce il narratore e i biancospini dalla parte di Méséglise hanno «un odore amaro e dolce di mandorle», un «profumo untuoso» che inebria, la scoperta della realtà umana – si tratti di persone o di manufatti – non è mai euforica, non offre rivelazioni se non in negativo, ossia deludendo l’immaginazione. Ciò che sorprende di gioia il narratore, in mezzo a un divenire inesorabile, è come detto l’intuizione di qualcosa di permanente. Nella Recherche i rapporti umani sono incerti e consumati della tortura del raziocinio e della gelosia; le relazioni amorose sembrano ignorare la fisiologia per produrre solo forme patologiche. Non se ne salva una: non quella fra la madre affettuosa e il padre sbrigativo e lontano del narratore, o quella fra Swann e Odette; quella fra il superficiale e infedele Basin de Guermantes e Oriane, per non parlare degli amori di Robert de Saint-Loup, che si tratti di Rachel, di Gilberte o di Morel. Il narratore ragazzo, che sembra ripercorrere con maggior coscienza e saggezza la strada di Swann, si innamora e, giocando a «fare la lotta», conosce i primi turbamenti e le prime gioie fisiche involontarie con Gilberte; poi, trasforma l’attrazione per lei in un tema per il suo pensiero, che vive le fasi incerte e frustranti della gelosia; per Oriane prova un invaghimento puramente intellettuale. Con Albertine conosce invece tutti i tormenti di una relazione intima e gelosa, nata più dall’idea dell’amore che dall’amore stesso (come in Swann l’amore per Odette era stato mediato dall’immagine della Sefora botticelliana), turbata in più dalla scoperta per lui inaccettabile della bisessualità di Albertine, che per Morel o per Andrée costituisce un vantaggio. Le relazioni più serene sono probabilmente quelle fra Charlus e il farsettaio Jupien, quella – per quanto è dato intuire – fra la figlia di Vinteuil e la sua amica, o ancora fra Andrée e il marito Octave, o fra Elstir e la moglie. Anche la meschina e feroce Madame Verdurin sembra vivere una spettrale complicità col marito. Per trovare un amore disinteressato e vivo bisogna forse cercare nel Tempo ritrovato la splendida tarsia della vicenda di una coppia, i cugini milionari di Françoise, grandi caffettieri che, ritiratisi in campagna dopo aver fatto fortuna, tornano in città per aiutare la moglie di un loro nipote rimasta vedova di guerra a mandare avanti la caffetteria. Milionari, si alzano alle sei per dare una mano a una nipote acquisita a cui non devono nulla (pp. 2178-2179).

Il lettore segue ogni vicenda attraverso gli occhi lucidi di Marcel, ma il carattere del narratore cresce in modo discontinuo: le sue convinzioni sono incerte, la sua fascinazione per la mondanità suona nostalgica. Verso la madre prova un attaccamento morboso e totalizzante. La nonna – l’essere più generoso del romanzo – sapendolo inetto alla vita sociale, nel soggiorno a Balbec lo assiste ad ogni passo e lo soccorre anche nelle operazioni più semplici. Timoroso senza essere pavido, estremamente riflessivo, critico senza ombra di insolenza, si adegua con disinvoltura agli ambienti che si trova a frequentare, siano i nobili ricevimenti dei Guermantes, sia gli ambiziosi e grotteschi ritrovi del mercoledì nel «piccolo clan» dei Verdurin. Si muove con elegante cautela, registrando ogni cosa: del resto, se lo “spirito” e la nobiltà formale dei Guermantes sembrano indiscutibili, è pur vero che le novità emergono dal salotto pretenzioso dei Verdurin: è da loro che Swann ascolta per la prima volta la sonata di Vinteuil, così come è in quel contesto che si muove il grande pittore Elstir, ancora poco noto e soprannominato «Biche»: ed è sempre lì che più avanti il narratore ascolta il Settimino, che gli provoca «una gioia ultraterrena» e la certezza che l’arte rivela una dimensione ignota alla vita quotidiana. Si tratta dell’ultima grande opera di Vinteuil, maestro di pianoforte e compositore geniale, completamente misconosciuto in vita e schiacciato dalla vergogna per i rapporti che sua figlia intrattiene con l’amica lesbica (anche se sarà proprio quest’ultima, dedicandosi infaticabilmente a decifrarne i manoscritti, a rendere possibile la fortuna postuma del compositore). Il passo più inverosimile sul narratore, viste la complessa articolazione della sua sensibilità e la forma fisica non sempre apprezzabile, è quello di Sodoma e Gomorra in cui Proust gli fa confessare le sue conquiste amorose in un’estate fra le fanciulle in fiore: «Contai che, in quella sola stagione, dodici di esse mi diedero i loro fragili favori. Mi sovvenni un altro nome ancora e furon tredici. Ebbi allora come una crudeltà infantile a restare su questo numero. Ahimé, m’accorsi di aver dimenticato la prima, Albertine, che non era più e che era stata la quattordicesima» (p. 1306). Questa confessione suona goffa, in una sensibilità così raffinata, tanto da apparire astratta. In effetti, tranne che in alcune eccezioni (Albertine, Andrée, Morel, Jupien, forse Charlus) si ha l’impressione che i personaggi di Proust non abbiano mai tratto dal loro corpo un piacere immediato.

Ogni cosa sembra perdersi in un labirinto prospettico, ma anche guardando gli eventi da una distanza maggiore la situazione non migliora: anche la grande Storia, ammesso che abbia una maiuscola, procede a strattoni. La Francia dell’affaire Dreyfus, con i sottili problemi di posizionamento della nobiltà e dei borghesi, lascia spazio al dolore della Prima guerra mondiale, prima avvertita sullo sfondo, poi presente con un bombardamento su Parigi vicino al bordello omosessuale messo in piedi da Jupien per Charlus. Si sa che Proust amava particolarmente lo spazio bianco prima del penultimo capitolo dell’Educazione sentimentale di Flaubert: nel Tempo ritrovato gli spazi bianchi sono più di uno, come i ritorni del narratore dalle case di cura in cui tenta di venire a capo dell’asma e dei suoi affanni (p. 2083: dopo un lungo ricovero ritorna all’inizio del 1916, ma, come riporta p. 2094, nel 1914 era già stato due mesi a Parigi; p. 2184, di nuovo in casa di cura; poi ritorna in città alla fine della Prima guerra mondiale). Proust non gli fa dire nulla degli anni in cui è costretto in clinica: non è di lui che il libro tratta. Appare invece sempre più nitida la sua vocazione letteraria, che supera le resistenze di ordine sociale e i confronti ridicoli con gli scrittori del momento: a questo proposito risulta irresistibile l’inserto di un finto estratto inedito dal Journal dei Goncourt, così preciso e fatuo, del resto opera di un grande autore di pastiche (p. 2072).

La vocazione è stata a lungo un interrogativo per il narratore, ma nell’ultima parte del romanzo, quando è intimamente persuaso del suo compito dalla serie di rivelazioni che resuscitano il passato, dimette ogni cautela ed entra alla matinée dei Guermantes, a quella sorta di ballo in maschera in cui tutti si riconoscono a stento, estremamente sicuro dei suoi mezzi. Ciò che accade al ricevimento assume la funzione di un contrappunto (il disfacimento dei corpi e perfino degli abiti), rispetto alle virtù letterarie che riportano in vita il tempo perduto. Scomparso l’alone favoloso di un’epoca ormai al tramonto, la grettezza e l’ambizione umana appaiono non più quali elementi dell’impercettibile e feroce gioco sociale, ma solo l’espressione meschina di una società che non ha saputo rinnovarsi. E fra tante maschere del tempo, il successo della più spietata, Madame Verdurin, divenuta incredibilmente principessa di Guermantes, non merita alcun approfondimento, è lasciato sullo sfondo. Come nel famoso passo della morte di Bergotte (pp. 1688-89), tutti gli obblighi sociali, che non trovano alcuna sanzione nel presente sembrano appartenere a un altro mondo, fondato sulle virtù, un mondo diverso dal nostro, un kantiano regno dei fini nel quale il narratore ipotizza che «ritorneremo forse a vivere sotto l’imperio di quelle leggi cui abbiamo obbedito perché ne rechiamo in noi l’insegnamento, senza sapere chi le abbia formulate». Con fiducia encomiabile da parte di Proust, che oggi appare eccessiva, la letteratura dovrebbe vegliare su questa possibilità di resurrezione.

Nota. L’edizione a cui si fa riferimento è Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, volume unico, Torino, Einaudi, 2017.