Desideri pomeridiani

«Ecco, vedi», disse Rita, «non ci si può mai distrarre un attimo che capita subito qualcosa».

«Questa è senz’altro una novità», disse Erin mentre Rita apriva la custodia di plastica floreale per rispondere al telefono, «Un giro intero del centro commerciale per tornare a casa solo con i sacchetti di ricambio per l’aspirapolvere».

D’altra parte, la stagione consigliava all’amica una prudenza inedita, frutto di riflessioni che per alcune esigenze di stile inducevano a puntare di nuovo sul fai-da-te. Un ritorno all’antico, per così dire.

Impegnata al telefono, Rita scrollò la testa:

«Ma sì, sì, d’accordo. Ci penso io».

Nelle conversazioni con l’ex-marito mostrava accenti più composti rispetto a quelli che usava nei racconti incendiari sul suo matrimonio; sentendolo poco, il tono di elementare cortesia doveva sollecitare finalmente in Giorgio un più concreto supporto materiale, nella maggior parte dei casi insufficiente. In realtà, in ciò che lui le aveva fatto quando se n’era andato c’era qualcosa di simile al taglio che la forbice del sarto apre nella stoffa: aveva messo in luce la povertà di Rita, i continui inciampi di un sentimento ormai non corrisposto. Dopo quasi un anno e mezzo capitava ancora, ogni tanto, che si svegliasse alle cinque di mattina come se fosse appena rientrata in una stanza d’albergo. Avevano trascorso insieme diciotto anni, per questo non riusciva a sopportare che Erin ne parlasse male. Ma Erin ne parlava male comunque.

«Ci muoviamo?» disse Rita riattaccando, «Devo andare a comprare un rasoio elettrico per capelli alla coltelleria», lo disse in fretta, prendendo la borsa con gli acquisti.

«Cosa c’è? Quello stronzo tirerà fuori i soldi, almeno stavolta?» fece Erin.

«Sì, ha detto di sì».

Entrarono nell’auto di Rita.

«Sarà stato gentile, come sempre. Del resto, non è che gli costi tanto».

Rita chinò la testa sul volante: «Ha detto che stava andando in banca col padre di Rosaria».

«Cosa fa adesso, chiede un mutuo?».

«No, non capisci? Accompagna Cesare. E lui è contento di farsi accompagnare. Rosaria non ha nemmeno idea di cosa significhi vivere nell’incertezza. Potessi io vivere una vita come la sua».

«Ecco, adesso arrivi a dire che in fondo lo capisci».

«Per me no, è chiaro: è stato un bastardo. Ma pensa a quante al posto mio ti direbbero di sì».

Se negli istanti immediatamente successivi alla telefonata Rita sapeva ancora tener ferma la sua posizione, un attimo dopo questa si sgretolava: un colpo di vento bastava a sfigurare la facciata. L’edificio rimaneva in piedi, ma diventava ogni volta più anonimo.

Erin era preoccupata che l’amica potesse perdere il suo umore.

«Il rasoio è per Enrico,» fece Rita, «dice che vuole tagliarsi i capelli da solo, che ormai è grande e non si fida più di me».

Mise in moto. Con l’agenzia chiusa il lunedì pomeriggio, ogni quindici giorni pregava Erin di uscire un’ora prima per andare a fare shopping. Nella maggior parte dei casi la giornata finiva poi in pizzeria (Enrico a cena sapeva cavarsela benissimo da solo). Per non dover chiedere niente al Centro estetico, Erin recuperava sugli appuntamenti saltando la pausa pranzo. Ora guardava dal finestrino. Da non crederci, pensava, quanto sia facile lasciar passare il tempo impiegandolo a girare così, senza preoccupazioni: che il divertimento stia ancora tutto in questo spreco, come negli anni della scuola superiore? Rita si dimenticava di Enrico e soprattutto di Giorgio, ma per lei tutto quel girare a vuoto non risultava in fondo molto più che una buona azione.

«Sai cosa mi secca un po’ nel dover andare alla coltelleria?», riprese Rita, «che uno dei commessi è uno stronzo».

«Ma perché, lo conosci?»

«No, ci avrò scambiato due parole. Non si capisce perché, ti guarda sempre dall’alto in basso. Dico, vendi forbici, il negozio non è neanche tuo, dove le prendi tutte queste arie? Il fatto è che conosco sua moglie, una bionda elegante che lavora come impiegata all’Ufficio provinciale del turismo. Ogni tanto per lavoro la sento al telefono. Chissà, forse le arie le prende proprio da lei, cioè, sapere che a casa ti aspetta una come lei può darti qualche sicurezza in più, non credi?».

«Beh, sì», fece Erin, «specie se sei un coglione». Aspettò un istante, poi riprese: «Ma scusa, perché il rasoio non lo compri su Internet?»

«Sì, lo so, ma il fatto è che Enrico lo vuole subito e, a dir la verità, ultimamente non è che mi occupi tanto di lui».

La coltelleria Tebaldi San Michele era uno di quei negozi che nel lindore pressoché assoluto e però caldo dei locali (le pareti rivestite di legno di noce, i tre addetti rigorosamente in divisa nera) offriva un invidiabile ventaglio di proposte che andava dal tosaerba alla bilancia di precisione, dal sempre utile sbuccia-mela a manovella ai servizi di coltelli inseriti nell’illusoriamente pratico ceppo di legno, regalo passe-partout per ogni ingombrante occasione familiare. Nel complesso, una serie di offerte che non solo rendevano la vita più comoda, ma che addirittura la miglioravano, e che a volte la potevano addirittura trasformare. A questo miravano forse i prodotti di maggior pregio e di difficile importazione, come una collezione di scimitarre e soprattutto, più in alto, deposte sopra l’apposito supporto, tre katane, improbabile opera del riluttante Hattori Hanzo. Insomma, un posto affidabile nella difficile arte di sentirsi migliori. Rita ne aveva proprio bisogno.

In effetti, tutte quelle lame avevano incoraggiato fin troppo l’ego di Fabrizio, capo commesso apprezzato da Mario Tebaldi, il proprietario sessantaduenne in camicia bianca che ogni tanto si affacciava nel negozio con l’aria di chi ha fin troppo da fare, prima di rientrare in ufficio (gestiva fondi comuni di investimento). Alto, con i capelli un po’ unti, Fabrizio sapeva parlare non solo dell’articolo e del processo produttivo, ma anche del fornitore da cui proveniva, della sede e della storia dell’azienda. In omaggio al grande principio che recita: «Tutto ciò che ha una durata, ha un valore», con tanti clienti queste elaborate biografie aziendali funzionavano alla grande. Nondimeno, in uno sguardo d’insieme con i suoi colleghi, Fabrizio sembrava uscito da una mediocre e superata serie televisiva americana. Per Erin, avere il trentatré per cento di possibilità di imbattersi in lui, voleva comunque dire godere del sessantasei per cento di possibilità di evitarlo, il che, in quel pomeriggio dall’equilibrio ancora instabile, poteva comunque valere qualcosa.  

Si fermarono nel parcheggio davanti al negozio. A Rita erano arrivati un paio di messaggi del commercialista a cui doveva proprio rispondere.

«Ti aspetto», disse Erin. Scese dalla macchina e si appoggiò contro la portiera. Guardando il cielo messosi finalmente al bello sentiva ritornare l’impressione di sprecare il suo tempo. Sapeva che si sarebbe riavvicinata a sé stessa solo se si fosse messa a fare qualcosa.

Rita lasciò cadere la testa sul volante tanto forte da azionare il clacson.

«Che è successo?» chiese Erin, riaprendo la portiera.

«Niente,» fece Rita, «non è successo niente. Le cose non vanno, ecco tutto».

«In che senso? È per Giorgio?»

«Non lo so. Ora il commercialista mi ricorda i pagamenti dei prossimi mesi. Mi sembra proprio di non farcela».

Erin se lo aspettava. In quelle ore Rita era arrivata almeno due volte a un passo dal tracollo, quindi quella alla fine non era che l’espressione più autentica del suo stato d’animo.

«Sai,» riprese Rita, «in questi giorni ho pensato spesso alla mia situazione, perché sono stata umiliata, ho perso, inutile girarci intorno. E te lo dico subito, è anche inutile dirmi che tanto ho Enrico, che ho un figlio intelligente e sano: ormai è grande, fra poco baderà a sé stesso, mentre io dovrò trovarmi un’altra scusa per tirare avanti». Rita si asciugò gli occhi col dorso delle mani, «poi, sì, certo, lo so, ti rendi conto che anche gli altri hanno i loro casini, che non se la passano bene, ma tornando a casa devi fare fronte ai tuoi problemi, non ai loro e anche quando stai un po’ con loro e condividi le tue rogne non trovi mai una soluzione definitiva, l’unica cosa che ti interesserebbe davvero».

Erin cercava di riprendere in mano la situazione: «Sai che ti dico? che io ti preferisco così rispetto a chi non se ne rende neanche conto. Ad esempio, ieri ho visto il giovane avvocato Bartel del Centro estetico: è uno di successo, che tiene corsi in Università. Mi diceva che trova insopportabile che gli altri si lamentino, come se tutti i loro casini dipendessero solo da un atteggiamento sbagliato (mentre tutti sanno che lui, per quanto bravo, è stato messo nel posto dove sta da un amico di suo padre, che gli ha trovato lo studio giusto senza che abbia mai dovuto penare un minuto, se non sui libri). Ecco, è il tipo che, se uscendo di casa incontra in strada uno che piange, come prima cosa pensa che gli sta rovinando la giornata. Poi è capace di parlarti di quello che non va nel nostro paese e della pace nel mondo, ma la questione resta, mi pare, no? Quindi cara fatti forza,» le accarezzò una guancia «alla fine tu piaci per quella che sei». Rita sorrise appena, poi controllò il trucco nello specchietto.

«Tutto bene?» chiese Erin.

«Sì. Possiamo andare».

Entrarono.

Fabrizio in quel momento non c’era: doveva essere sceso in magazzino. Un collega, uscito dalla porta laterale del negozio, si sorbiva le lamentele di un cliente spazientito che aveva davanti a sé il tosaerba, a suo dire nuovo ma per niente funzionante: «Me lo avete venduto voi». Nell’aria, un vecchio pezzo dei Bee Gees. Venne quindi loro incontro il più compassato Carmelo.

Rita spiegò in breve la sua esigenza e Carmelo, fatto un giro nella sala interna, tornò con tre rasoi per capelli diversamente inscatolati. La consueta e magnifica opzione ternaria tipica del negozio di livello: lo scarso, il top di gamma e in mezzo quello che in teoria dovrebbe proprio fare al caso tuo, ossia quello che il commesso ha già di fatto pronto per essere venduto. La scelta più economica sembra tanto povera da insinuare il dubbio che il rasoio possa superare il giro di prova: un oggetto di plastica opaco e anonimo, a stento sagomato – da cui spuntano timidamente le lame con il distanziatore –, chiuso in un sacchetto di nylon senza alcun supporto all’interno di una scatola dal coperchio ricoperto di fotografie coloratissime che ritraggono situazioni dal barbiere (quasi a dover ribadire che l’oggetto contenuto è davvero funzionante), provvisto naturalmente di un microlibretto di istruzioni redatto in sei lingue, compreso il greco, dove l’italiana è – non si sa come – assente. L’altro, il migliore, non solo il suo opposto siderale, ma qualcosa di sbalorditivo, ignoto perfino ai barbieri e alle parrucchiere. Erin, che di congegni del genere ne aveva visti più di uno, era sorpresa sia dalle dimensioni allungate che dal color amaranto metallizzato, corredato da un set di distanziatori olimpionico, da eccedere qualsiasi esigenza. L’articolo era ovviamente privo di libretto: questo, sempre aggiornato, era scaricabile nella lingua più gradita all’indirizzo in rete della casa madre, previo opportuno login.

La scelta in questi casi non è un’opzione possibile, gli estremi sono troppo lontani dall’esperienza quotidiana, come il venditore sa benissimo mentre tenta di qualificare il tuo bisogno non solo come effettivo, ma anche come ragionevole, che richiede dunque una altrettanto ragionevole risposta. E Carmelo, benché ostacolato da un carattere non del tutto espansivo, ci stava mettendo del suo per rassicurare Rita. Erin invece lo aveva già schedato dall’impaccio con cui aveva posato le tre scatole sul bancone.

Proprio mentre Carmelo, rimesso nel nylon il prodigio, lo stava risistemando nella sua sede di polistirolo, si vide ricomparire in negozio Fabrizio, con una serie di involti contenenti con tutta probabilità dei set di coltelli da cucina, ormai corredo indispensabile di ogni chef casalingo. In effetti, pensò Erin, ci sapeva fare. Accompagnava una professoressa di liceo in grigio, una di quelle esigenti che vogliono verificare fino in fondo la bontà del loro acquisto:

«Mica per me, sa. È un regalo».

«Ma si figuri. Capisco benissimo», rispose Fabrizio.

Sarà anche stronzo, pensò Erin, ma qui certo sa quello che fa.

Rita stava accennando a Carmelo che in effetti bisognava orientarsi sulla scelta più ragionevole, quando Fabrizio si girò verso di loro e a Erin sembrò che desse un’occhiata furtiva, quasi d’intesa, a Rita. A Rita?

Erin si avvicinò all’amica:

«Proprio uno stronzo, vero?» le sussurrò in un orecchio.

«No, ma che dici? Lo conosco appena» rispose Rita, schermendosi in modo non troppo convincente.

Carmelo andò a prendere della carta per la vestizione a regalo del rasoio. Fabrizio guardò di nuovo verso di loro.

«Se mi dici ancora che è un caso, ti mando affanculo», disse Erin.

«A dire il vero credo che si stia separando» fece Rita, quasi come un’ammissione.

«Ah, si sta separando. E tu come lo sai?»

«L’ho incontrato all’Associazione Famiglie in difficoltà. Ero lì per una consulenza. Ho sempre pensato che fosse uno stronzo, te l’ho detto, e non volevo vederlo neanche oggi, ma lì mi è sembrato cortesissimo. Chissà, forse è perché d’un tratto ha scoperto anche lui di aver bisogno di qualcosa».

Carmelo tornò con la carta e cominciò ad armeggiare attorno alla scatola.

«E come fai a saperla tanto lunga?» chiese Erin, appoggiando la schiena al bancone.

«Ieri Sandra mi ha detto che c’è in giro una voce circa sua moglie e il capo ufficio del Dipartimento Turismo».

Erin sorrise: «E dirmelo prima?»

«Non te l’ho detto perché tutta la questione mi sembrava assurda. Oddio, poi lei è sempre tirata a festa e che abbia molti ammiratori non è una novità».

Carmelo aveva quasi finito il suo lavoro. Fabrizio accompagnò la professoressa alla cassa e digitando l’importo sul registratore guardò ancora una volta verso loro due.

In quel momento entrò un uomo alto, sportivo, con un filo di barba accuratamente trascurata in cui Erin e Rita riconobbero Enrico Fillos, un attore di serie tv dalla straordinaria fissità espressiva.

«Non sapevo che vivesse ancora qui da noi» fece Rita all’amica, a bassa voce.

«Sì, è una delle nostre celebrità».

Portando il pacco verso la cassa, Carmelo arrivò presso Fabrizio che stava congedando l’insegnante. Rita ed Erin incrociarono Fillos che con la noncuranza tipica dell’attore, ignorando quasi tutto ciò che aveva luogo nel negozio, si stava dirigendo verso il primo commesso libero. Terribilmente incerto, Carmelo non riusciva a sciogliere il nodo fra le due opportunità che aveva di fronte, quella di approfittare di Fabrizio e di far fare il conto a lui (ma poi si sarebbe trovato nell’impaccio di servire l’attore) o quella di fare finta di niente, fare il conto alle due donne, lasciare il palcoscenico a Fabrizio e mettersi poi in attesa di un cliente, soluzione che razionalmente offriva qualche vantaggio. Proprio mentre stava per risolversi per questa seconda ipotesi, Fabrizio gli prese cortesemente il pacco di mano dicendogli «Lascia pure», gettandolo così nella più profonda costernazione davanti all’opalescenza liquida dello sguardo di Fillos, vagante per il negozio. Carmelo dovette segnalare la sua disponibilità all’attore con un cenno di capo.

«Avevate solo questo?» chiese Fabrizio.

«Sì, certo, solo questo», rispose Rita.

Fabrizio fece rapidamente il conto, poi aggiunse, guardando ancora la tastiera:

«Tutto bene?»

«Sì, grazie» disse Rita, aggiungendo, con sottile cortesia, «posso dire altrettanto?»

Erin sgranò gli occhi, senza incontrare lo sguardo né dell’amica, né del temporaneo cassiere, che si erano rivolti l’un l’altra.

«Beh, più che altro andiamo avanti» disse lui, recuperando risorse di gentilezza che a Rita sembrarono travolgenti.

«Speriamo di incrociarci in posti migliori rispetto all’ultima volta», disse lei, pressoché lanciata, passandogli il bancomat.

«Già. Perché no?» rispose Fabrizio.

Erin cercava di guardare da un’altra parte. Lui porse a Rita il tastierino per il PIN. Lei fece il proprio dovere.

«Grazie ancora», disse lui restituendo la scheda.

«Grazie. A presto» sorrise lei.

Erin la prese delicatamente per un braccio e, salutando con la mano, la accompagnò all’uscita, mentre Rita doveva ancora voltarsi completamente verso di lei.

Appena fuori, Erin le disse: «Posso dire altrettanto? Ma sei scema?»

«Ma perché?», disse l’amica, «c’è qualcosa di male?»

«Lo sai benissimo cosa c’è di male».

Rita si mise a ridere. Era la prima volta in tutto il pomeriggio perciò Erin pensò che, in fin dei conti, per quanto all’orizzonte potessero profilarsi alcune difficoltà, da quella situazione bisognava prendere quello che poteva dare.

Il cellulare di Rita suonò. Era Sandra, a quanto pare sembrava che fosse successo qualcosa di male a Sergio, uno che giocava a calcio con il figlio di Rita.

«Ecco, vedi», disse Rita, «non ci si può mai distrarre un attimo che capita subito qualcosa».

«Lascia stare, speriamo che le cose vadano per il verso giusto».

«Comunque» riprese Rita, «tornando a lui, con tutti i suoi difetti potrebbe anche rivelarsi una persona interessante».

«Saresti più onesta a dire che ti piace, non c’è niente di male».

«Sì, ecco: in fondo mi piace».

Seduta in macchina, dopo essersi riaggiustata la minigonna e aver controllato il cellulare, Erin pensava a ciò che voleva fare: qualcosa di gratuito, fosse anche solo per su cugina Romana, sempre in difficoltà.

«Credi di liberarti troppo tardi della cena con Rita?»

Erin rispose: «Non preoccuparti. Ci vediamo dopo».

Ecco, ricevere messaggi come questi, e devo dire di averne ricevuti tanti, risulta così trionfalmente rassicurante che ti sottrae a qualsiasi influsso negativo che possa aver condizionato la tua giornata.