Non è stato il Covid

Un racconto giallo

In quel periodo le sirene non ci facevano un grande effetto. Ma non è vero: se era diventato un suono incredibilmente più familiare, ogni volta correva in climax blu sui nervi, e poi ci lasciava spossati in poltrona. Afflosciati nelle tute, nei pigiama. Scostando una tenda del mio appartamento potevo vederle passare per un attimo sul cavalcavia, quelle luci blu di cadenti e funeste comete, con la coda del rumore tirato da autisti d’ambulanza protesi nella corsa come ciclisti. Segnali che s’infittivano contro lo zafferano e il nerastro del tramonto o di già come pallottole tra i lampioni gialli della strada sopraelevata, completamente vuota. E però quella sera ci arrivò addosso con tutto l’urto dell’ululato. Ho pensato che toccava a qualcuno del condominio, e del resto se si parla in tivù di frenata con 600 contagi e 149 morti, più dell’intera Gran Bretagna in quel momento, come puoi pensare che via Osram n° 5 debba rimanere indenne. Nella cartina della città spuntano a ciuffi le bandierine nere come cattive erbe, dentro una villetta, al quarto piano d’un caseggiato, nelle case di riposo naturalmente. E nell’edificio si fa un vuoto, un buco come se un verme scavasse la sua strada: il virus intelligente lascia in piedi le strutture, le rende cave. L’ambulanza apre la bocca e sulla sua lingua bianca introduce un altro corpo verso il nulla.

E però, scostando la tenda con quel fare cauto così tipico della clausura, vidi un camion dei pompieri che allungava in obliquo, direi verso il terzo piano della scala C, il suo braccio meccanico. Poi sarebbe arrivata anche l’auto della polizia; risparmiando però il terzo tipo di sirena, appena sgonfia per inerzia.

La signora del terzo piano non faceva parte degli inquilini storici. Era in affitto da circa un anno e la si vedeva poco, forse per i turni da infermiera, forse addirittura perché passava altrove parte della settimana: le tapparelle del suo balcone, che potevo vedere dal mio, restavano sempre abbassate e uno stendino sbilenco prendeva pioggia, sole e polvere con immutata posizione. Una volta che le tenevo aperto il cancellino a scatto sul bugigattolo delle immondizie aveva appoggiato di striscio una mano sulla mia, aprendo un sorriso senza scuse. Una mano grande, quasi maschile, il sorriso di passata a e lo sguardo a strascico che certe donne sanno lasciare per l’aria. Pensai dopo, per associazione d’idee, ad un momento sospeso quando, da studente all’estero, incrociai una mattina la mia ospite berlinese sull’orlo delle nostre due camere, appena destati e prima della colazione: un gesto avrebbe potuto trasformare la conoscenza i quella che un amico chiamava, lodandone a fondo i vantaggi, un’amicizia a sfondo sessuale. Un gesto che non abbozzai nemmeno, come da dottorando, dunque in teoria più rodato, mentre in casa di una collega aspettavamo il nostro docente  

e lei mi lesse una poesia erotica dedicatale ai tempi della laurea, chiosando che a letto talvolta perdeva proprio la testa, di lì tutte quelle onomatopee: in quel caso la ricordo di spalle all’acquaio, un vestitino da estate posato sui fianchi massicci, gli anelli scintillanti sotto il getto del rubinetto. Anche allora il momento svanì, insieme a tutto il tempo necessario ad altro, ben prima che suonasse il citofono e il Maestro, con una bottiglia in mano, rimettesse in piega l’aria increspata dell’appartamentino. Una seconda volta incrociai la signora che rientrava molto molto tardi da un turno di notte, vestita in tuta fosforescente e con una faccia sbattuta di fatica, eppure capace di tirar fuori dal fondo delle occhiaie qualche barlume limaccioso e rapido nello stesso tempo.

Dunque non provai la costernata stupefazione di un Ingravallo di fronte alla sacralità violata di Liliana Balducci, quando venni a sapere che l’infermiera era stata trovata assassinata nel suo letto, pareva, in posizione sconveniente. Eseguiti tutti gli accertamenti del caso, il corpo scomposto troverà il suo posto nella processione dei camion militari carichi di bare che scavano solchi nelle strade notturne, emettendo un brontolio sordo e persistente. E lei, diversivo della Morte, sarà l’intrusa nella corona di rosario che si sgrana lungo il vuoto dei chilometri verso l’incenerazione fuori città.

La prima a tirare in ballo l’uomo misterioso è stata l’anziana che abita sullo stesso piano della vittima, porta dirimpetto, spioncino sulla striscia comune dove la luce giallastra illumina un alto portaombrelli da una parte, una pianta macilenta dall’altra. Due parole in entrata, a giusta distanza, con Grassi, che si è permesso poi una telefonata dal suo ultimo piano giù al terzo del delitto. Grassi è un personaggio interessante del caseggiato: ex-poliziotto, vedovo e con i figli sposati, affabile e felpato sfoggia un bel paio di baffi bianchi, gentilezze d’altri mondi, pacatezza nelle assemblee condominiali. Un omicidio sotto il suo stesso tetto deve considerarsi come strattonare il leone per la coda. Già prima del fattaccio giocavamo qualche partitina a scacchi su meet; poi ovvio, un omicidio nella stanza chiusa, nel condominio chiuso, nella città sigillata non può che assurgere a passatempo sovrano di questo tempo compresso e malato.

“Lei lo sa, signor Grassi, che io vivo da sola da tanto tempo ormai: sono vedova da vent’anni. Lei sa cosa vuol dire. Io vivo da sola e però sto bene da sola. Col mio gatto e le mie parole crociate. Il mio Otto è nato in casa, lo conosce, si spaventa di tutto. Deve vedere, forse l’ha anche visto, quando esce appena appena sul terrazzo, amoore! Il campanello di casa, per esempio, non so se glielo l’ho mai detto come l’ho fatto nascondere bene dall’elettricista, forse neanche lei saprebbe trovarlo. Tutto un lavoro costoso, permessi dall’amministratore… Eppure è così grosso, Otto, è viziato devo ammetterlo, è così grosso che rimarrebbe incastrato sotto la credenza se provasse a nascondersi lì. Comunque io vivo da sola col mio gatto e faccio la mia settimana enigmistica… magari qualche volta mi aiuto con l’enciclopedia, sa, ma solo un po’, raramente. Così capisce che nella mia pace i rumori spiccano. Senza silenzio io non posso concentrarmi e col rumore al povero Otto vengono le crisi. Non sono certo valzer di Strauss che vengono da fuori… adesso con tutto ‘sto macello di clausura ameno c’è questo aspetto positivo del silenzio, a parte le ambulanze. Io sono vecchia ma non sono sorda, come i signori di sotto, che sono anche più giovani di me. E sono anche un po’ scemi, poverini… robe molto brutte. Beh io non sono né sorda né scema. Per diventare scemi si diventa prima sordi e io non mi auguro di diventare sorda solo per non sentire qualche brutto rumore. Comunque, per farla breve, ho sentito quel bordello, un gridare lì nell’appartamento di quella poveretta, così silenziosa di solito; sono stati i giorni poco prima che chiudessero tutto, è facile da ricordare. A me interessano le parole crociate, la musica alla radio, mica i fatti degli altri, però capirà, da quel lato lì sembrava tutto morto, e invece quel giorno… e allora sono corsa a guardar fuori, che quasi inciampavo su Otto, poverino, e l’ho visto bene quello là. Ancora sulla porta sacramentava, poi è corso giù dalle scale come un diavolo e dopo poco anche lei con poco addosso. Non l’avevo mai vista prima, mai mai mai, l’ho detto bene anche ai suoi colleghi. Però sa, in questo condomino gli inquilini saltano fuori come funghi, cambiano, ci sono tante facce che non so neanche chi siano. Li vedi una volta, buon giorno buona sera, e poi spariscono; ma quello là, l’assassino, mi è rimasto incollato nella mente.”

Un uomo in felpa grigia e jeans, sulla trentina, dunque molto più giovane della vittima che gravitava attorno ai cinquanta, la faccia da lupo. Così mi riferì Grassi, aggiungendo che l’anziana riteneva che le visite durassero da un po’, benché lei, discreta ed indifferente com’era, non pareva esserne sicura, mentre in seguito alla lite, fattasi attenta, aveva verificato, dopo una breve pausa, la continuazione del rapporto: allo spioncino vedeva l’uomo irruente, ormai assai cauto, infilarsi rapido nella porta. Si deve immaginare l’anziana, intenta nei suoi giochi mentali, percepire la chiave che gira nella serratura alzarsi di scatto sulle annose ginocchia e precipitarsi allo spioncino. L’unica volta che l’aveva rivisto bene era stato un bel po’ di tempo dopo, ancora a sbraitare sul pianerottolo per farsi aprire, perché voleva tornare con lei; e stette lì fuori a schiumare, a rosolarsi, girare come un lupo in trappola, finché la porta s’aprì. E lui fischiò dentro di tre quarti. Certe donne non ne possono fare a meno, concludeva con il ricettivo Grassi, anche se vengono maltrattate, e così fino al peggio; cose viste spesso alla televisione, ma che mia più una pensava di trovarsi a pochi metri di distanza.

E così il viso bonario di Grassi, circonfuso dall’alone di luce di un lampadario a stelo come un indiano in levitazione, mi guardava intento dallo schermo, collegato con meet. Devo dire che la nostra confidenza, al di là di qualche sfidina a scacchi, datava a quando da dottorando mi incrociava con bracciate di romanzi gialli che non mi permettevano di aprire da solo il cancello. – Prego, prego – faceva lui, sbirciando i miei oggetti di studio. Al petto mi stavano rinchiusi a stento solo alcuni dei suoi omologhi, quegli investigatori italiani che faticavo a dominare nelle loro sterminata proliferazione e colonizzazione degli scaffali delle librerie. Immane tentativo di ridurre loro, le loro azioni e i paesaggi di sfondo a costanti narrative sotto lo sguardo comprensivo di Grassi. Ora l’ironia della morte di quell’infermiera, eroina del nostro tempo, per motivi tanto diversi e mimetizzata nel conto generale, un po’ mi distraeva, mentre tutto attorno si ripeteva, orrendamente monotono, il nuovo modo di finire. Alla mattina presto sul giornale, comprato con mille diffidenze e toccato con cautela, si cercava nella sequela di fotografie, spesso brutte, e di succinte biografie, il nome conosciuto; per mio padre, in grazia dell’età, era più facile: aveva solo l’imbarazzo della scelta, e mi telefonava i nuovi caduti di sua conoscenza verso le 9.30, quasi con una certa soddisfazione. Io ci trovai il mio oculista – non era vecchio mormoravamo di solito scioccamente – ritornato dall’ospedale di Como dov’era stato trasportato giorni prima. Senza più risvegliarsi, come altri più fortunati, in Sicilia o in Germania. Poi ancora con accanimento al telefono il giro dei sani, e dei molti malati, al volo per tenere la linea libera per il medico: la cura a distanza, la bombola d’ossigeno se c’è, il terrore che la febbricola s’impenni all’improvviso bloccando il respiro. E ugualmente una primavera tenace e brillante al di là del vetro, ormai intangibile; ci è già costata troppo nei primi di marzo, con la sua aria sbarazzina intrisa di contagio, per poterne rimpiangere il tocco. Vedo alla finestra parte del profilo del cavalcavia, molto netto allo sguardo fisso, ma che presto comincia a tremare come nella calura estiva, o nella febbre, perché si vive propriamente di allucinazioni. E più dietro l’immaginazione delle montagne: il picco, il picco che continuamente si sposta.

Insomma mettere la testa a un bel delitto di cui indagare un preciso colpevole valeva a stornare il delitto universale e metaforico. Con in più quel tocco torbido che come gorgo allora più che mai attirava i sensi compressi ed esasperati. Scrivevo di codesti versi: Come una Venere nello specchio / chiusa nel cesso del treno / s’iphona la mona / e al mondo posta / divino e terreno (Amori monocellulari). Lungo le pareti della sua bocca / l’iguana insanguinata sbatacchia / sotto i denti della trappola / fino al colpo / contro il ferro del provvisorio (Primo bacio). Una bocca così intensamente a cuore / che sullo schermo sembra sfocare / come un segnale che non dura / che presto riempiono di schiuma (Sfocata). I fari dell’auto come abbraccio / bolso di lattice sciolgon minacce: / un richiamo della vita selvaggia / quando il pezzo si desta / e la routine s’imbestia (Il richiamo). Le bamboline giapponesi / maneggiano certi arnesi / come joystick per Survive/ come cloche di Spitfire (Categoria oriente). Ciò che va oltre ogni dire è il crudele: / lo schermo passa a caricatura / dieci colpi di coltello alla mogliera / che nella pelle senti in moviola / mentre lieve l’anima s’esala. / Allora ti rovescio nel tinello / nel grido liscio che mette al tocco / la santa violentata dal barocco (Caricatura). La moglie che dorme col dito prova / un tipo poi scivola / lascivo Narciso in youporn in silenziosa / modalità d’aulir la rosa (Il Marito).

La clausura aveva del resto assai aumentato il mio consumo di pornografia, di già abbastanza intenso da quando ero rimasto single. Questo godeva lo stimolo dell’infermiera, che a sua volta ne diventava il punto di caduta. Lei la musa morta delle mie visioni poetiche; esplosa al momento di ulteriori informazioni fornitemi dal Grassi, che associavo a quei fugaci sguardi, alla mano appoggiata senza pregiudizio alla mano nei pressi dello stanzino dell’immondizia. Luogo eletto degli incontri quello, allo stesso modo dei dintorni del condominio, quando la signora del terzo piano scala A, che d’ora in poi chiamerò la Moglie, incrociò la maieutica silenziosa ed empatica del Grassi che stava facendo orinare il suo bassotto a pelo lungo in un’aiuoletta pubblica. Niente pietà per la morta, anzi un “quella là” a denti stretti che meritava approfondimenti. Lì per lì nella notte tiepida, giusto per non mollare l’osso, e poi la telefonatina più distesa in poltrona, “giusto per sfogarsi un po’” suggerì il Grassi.

L’Infermiera e la Moglie condividevano un muro divisorio delle due camere da letto e pare che la prima ad ore varie, e piuttosto tarde, fosse piuttosto “sonora nel piacere”, come si espresse il Grassi. E prolungata. Sembrava tutto finito, tanto che la Moglie aveva quasi di nuovo afferrato il sonno, quando all’improvviso riprendevano gli ansiti e i rantoli. Si sarebbe mai potuto interessare l’amministratore di condominio per tali intimi disturbi? O affrontare la coetanea de visu, a rischio di farsi piantare gli occhi in faccia, e magari rispondere di darsi un po’ da fare lei col marito suo, che non gli mancava, invece di invidiare la roba degli altri? Già il marito, buttò lì il Grassi. Dormivano in camere separate, non sentiva niente, benché fosse alla fine stato avvisato dalla moglie imbarazzata ed esasperata. Lei lavorava tutto il giorno, in ufficio, e da qualche tempo a casa, anche peggio tutto sul computer, nella ditta del padre, la stessa che dava da mangiare anche a lui, quello che da adesso chiameremo il Marito, in qualità di rappresentante, e aveva bisogno di riposare. O di fare altro, chiosò con me il Grassi, o quanto meno buttarla dentro ogni tanto come un cannoniere in disarmo che non ha perso il vizio del gol. Mica poteva ingozzarsi di sonniferi, aspettare con il cuore in gola l’ora fatale, così irregolare, derivante dai turni e dall’estro dell’altra, che l’attesa è quasi sempre anche peggio, popolata di fantasmi: qualsiasi rumore, che sembra e invece non c’entra niente, ti sveglia lo stesso con il polso battente. Un’ossessione forse, che calava come una nube scura già nel dopocena, nelle seratine di clausura, assediate dai numeri della protezione civile. Due mucchietti di cenere fredda sul divano, uno agitato da brividi di nevrosi, l’altro con gli occhi vitrei sullo schermo; per carità un ottimo cittadino, volontario della spesa che riforniva i suoi due vecchi genitori, quei due del secondo piano scala B un po’ rimbambiti a detta dell’anziana del terzo, ma anche altri condomini. L’energia spesa nel bene comune; e però siamo sicuri, ammiccava il Grassi sfocato tra le ombre del suo studio rimandate da meet, che fosse poi così sordo e spento? Appena cliccato sulla x del collegamento presi a rifletterci sopra, ma la mia attenzione in quel periodo era intermittente tra i video porno e i flussi di notizie. Adesso erano arrivati i Russi; alcuni politici ci ammonivano, noi delle zone rosse, di stare attenti a quei medici militari dalle strane apparecchiature che giravano indisturbati per le nostre contrade. Il vescovo sta fermo nello spiazzo vuoto del cimitero, benedice insieme alle autorità e a pochi uomini in nero a grande distanza, il Papa è solo nella cupissima piazza San Pietro: alla chiesa resta la forza delle immagini, ma chi l’ascolta? E dire che il tempo delle pestilenze era proprio il loro momento, ora domina il discorso degli scienziati; i religiosi parlano anch’essi solo della terra, non possiedono più una parola di metafisica, di conforto. Fanno donazioni agli angeli dell’emergenza e agli artigiani della solidarietà, medici e infermieri. Escono i libri che raccolgono le riflessioni di ogni giorno di scrittori che non smettono un attimo di illuminarci.

– Sai caro che io soffro d’insonnia e fumo parecchio, così sono stato molto in balcone di questi tempi, anche la sera con quelle belle temperature che parevano di giugno. – Ah -, feci io. A un certo della notte ti svegli per dei colpi forti e indecifrabili, come borbottii di uno scappamento pesante, oppure di tosse secca, ripetuti. Stranito non capisci se sono ancora in strada i convogli del lutto e dell’incubo, o se prestissimo un camminatore gira per l’asfalto bianco dei lampioni. O viene invece da dentro, qualche condomino per le scale, che appesta l’aria tocca i corrimano, le maniglie delle porte. E non smette, ritorna, passeggia e ripasseggia di sotto, il corteo dei camion non ha fine attorno, nell’intercapedine della casa, la casa che tossiche, la città. Apri la finestra, non c’è nessuno; ha smesso, cerchi di rimetterti a dormire, ammesso che ti fossi davvero svegliato. – Mi segui caro? -, disse il Grassi facendo del sorriso tutta una zip di grinze, – Mi sembra che perdi il contatto oculare. – Lo assicurai che era stato un attimo e di continuare pure. – Ebbene io di uomini con i capelli tirati indietro, gli zigomi alti, il pizzo e la faccia di lupo non ne ho mai visti entrare dal cancello qui sotto. Almeno una volta avrei dovuto, o no? – Eppure l’anziana… – Attento! Sempre di spalle, ti ricordi? Tranne quella volta che, parecchio tempo dopo il primo diverbio, sacramentava di rimettersi con lei: eccome se si vedevano regolarmente? Lo ha testimoniato l’anziana, come la chiami tu, seppure spiandolo sempre di dietro; ha continuato a sentirne gli effetti la Moglie, che si lamentava proprio che anche durante la quarantena quella porcona non aveva smesso di farsi venire in casa l’Amante, in spregio ad ogni divieto, in barba ad ogni controllo. Nemmeno nella quarantena ha avuto pace, mi ha detto testualmente al telefono. Ma ragiona: chi andava e veniva a tutte l’ore per la scala B a portar viveri e ad assistere i vecchi genitori senza più badante? –

Il Marito stava con la mano sulla chiave ormai dentro la toppa, ai piedi le borse con le cibarie per i genitori ottuagenari, quando sentì sul pianerottolo di sopra scoppiare l’alterco: come una bestia mitologica, mezzo casalinga e mezzo estroflessa, con una gamba già dentro e a orecchie ritte si bloccò nella metamorfosi. Si immobilizzò per ascoltare tutto e fece poi in tempo a scivolare nell’ombra dell’appartamento stantio nel momento che l’Amante prese a rompicollo le scale. Chi sa se acceso da un’improvvisa intuizione salì subito di sopra, magari con la scusa di un aiuto, di una sporta piena, l’offerta di prender dentro anche l’Infermiera nel suo giro solidale; e lei, furibonda e senza pasto, l’avrà afferrato direttamente di sotto conducendolo come un cane al guinzaglio verso il letto della consumazione e della vendetta. Oppure sarà stato solo un primo approccio, venuto al dunque in un tempo seguente.  Da allora comunque tra le provviste scaricate al piano di sotto avrà sempre fatto la sua comparsa una felpa grigia nuova nuova, atta a trasformarlo, specie agli occhi dell’anziana di sopra, come Superman in cabina, nella veemente figura dell’Amante. E proprio tale impersonamento lo avrà rivitalizzato, la possibilità di far gridare l’Infermiera alle orecchie nevrotizzate e ignare della Moglie di là del muro. Proprio lui, il Marito scarico, l’appendice dell’azienda del suocero, godeva di una donna sfrenata e con somma raffinatezza nel contempo mandava ai matti la Moglie. Esistono sì di codesti fottitori mentali, del piccolo male e della fiamma fredda come Yago, che vanno cercando Le Diaboliche di D’Aureville e la bellezza cerea del Bronzino, quella degli animali pietrificati dal genio della Medusa poetica di Marian Moore, la parodia crudele di Laforgue e comunque la distanza del Davide perennemente adolescente, glabro e molle di Guido Reni, mentre osserva quasi con curiosità la testa che ha testé tagliato dello sconciato e rozzo Golia. – E però si tratta pur sempre di camuffamenti -, mi ribatté il Grassi, – e l’eccitazione artificiale dei cinquant’anni non è pari al sano vigore dei trenta. Così, fatto il paragone e una volta rientrato in campo quel teppista del vero Amante, il sostituto sarebbe dovuto rientrare nei suoi modesti panni. – Intollerabile umiliazione! L’impossibilità di rinunciare alla droga di sé, o forse la naturale transizione tra il campo del sesso e dell’omicidio sulla comune base della pianificazione e della dominazione, ha indotto il Marito ad ammazzare l’Infermiera a gambe larghe e contro il muro comune alle due camere da letto. – Sempre, carissimo, che non l’abbiamo sopravvalutato, e abbia perso la testa per paura di un ricatto da parte di quel brutto soggetto dell’Amante, oppure si sia buttato con un ultimo gesto distruttivo d’impeto sulla sua vittima. – Un tributo postremo? Volontà d’autodistruzione? Il calcolo astuto del signor nessuno che può rimpiattarsi come un baco nella sua routine, addossando il crimine al super-sospettabile rivale? Mi posi una mano sotto il mento in atto di riflessione e di dubbio.

Alla fine venne anche il momento che quel greve incubo di ambulanze e carri funebri, ospedali da campo e appartamenti infetti dentro le case e la città sprangata un poco si sciolse. La luce della ragione portata nel caso del nostro condominio ci rese, me ed il Grassi, diagnostici e risanatori come virologi e responsabili della terapia intensiva; lui, il nuovo investigatore che sorrideva in mezzo ai suoi mille colleghi italiani, io pure, con l’umile transizione in carta dell’avventura che qui concludo, pronto ad entrare nell’empireo della letteratura popolare.