Finestre/ 1

Nei mesi scorsi i balconi sono assurti al cielo, in grande gloria; tuttavia le finestre continuavano il loro servizio, umili e decisive. Mi piace stare alla finestra, in senso letterale. A differenza del suggerimento metaforico non aspetto nulla: fermo il tempo nella natura, lo guardo passare con i passanti.

INTRODUZIONE

Nei mesi scorsi i balconi sono assurti al cielo, in grande gloria; tuttavia le finestre continuavano il loro servizio, umili e decisive. Mi piace stare alla finestra, in senso letterale. A differenza del suggerimento metaforico non aspetto nulla: fermo il tempo nella natura, lo guardo passare con i passanti.

Anche l’anziano e il nobile sfaccendato, protesi sul balcone o seduti a farsi un caffè, restano spesso inosservati, come il gatto che salta di muro in muro sulla testa dei turisti, sotto ignari nella calle veneziana. E però essi non temono l’ostentazione. Anzi come il magistrale Eduardo chiacchierano con altri balconieri, dentro città di mare con fili della biancheria lungo i vicoli e rimpalli goldoniani sulle piazze.

La finestra può essere ben più protettiva e discreta, con vetri o scuri, o per postura discosta. Sono stato un home boy, nelle case ho fatto le mie cose; e passato un tempo infinito alle finestre. Come Morandi ho memorizzato linee e atmosfere di ciò che stava fuori: betulle tremanti e cani notturni; il profilo della città sul colle (più o meno seminario, tetti piatti, torre, cattedrale con cima a piramide e campanile, cupola tonda, tetti) dietro al bicchiere appannato di un’orzata; un muro cieco degli alloggi popolari color cacchetta di gallina che progressivamente s’anneriva a spruzzi sotto il temporale.

Facile traslazione della malinconia, del sogno di qualche altrove e della svagatezza, la finestra, può viceversa stringere in osservazione notomistica, quasi spionistica, con annesso senso di onnipotenza. Piccoli sono gli altri, tanti contro uno solo, che li tiene nel mirino. Gli potrebbe pure sputare in testa e ritrarsi come un discolo, perché la finestra è pure infantile e retrovertita.

E soprattutto le finestre sono gli occhi della casa, come ogni bambino sapeva un tempo disegnare quando le case erano universalmente disegnabili: un semiquadrato con sopra a tetto un semitriangolo e dentro un altro semiquadrato a bocca, e due, più piccoli, che guardano. E per contro gli occhi sono le finestre dell’essere umano, aperti o chiusi sul mondo, percossi dalla luce e dai fatti, tramiti biunivoci del pensiero e delle impressioni: guardano e sono guardati, si dicono specchi dell’anima.

Le domande che ci poniamo ora, e che dovranno sempre rimanere all’attenzione pur se non ripetute sono: che cosa vede l’artista? Che significato assume la finestra, metafora del vedere?

1.

“Dove io debba dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angolati quanto grande io voglio, il quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto”; così Leon Battista Alberti, attraverso una coincidenza metaforica che non dovremo mai scordare da qui in avanti, impostava il rapporto tra il vedere l’esterno e il fare della nuova pittura. Al che Chiara Fagone correttamente afferma: “La finestra diventa quindi non solo modalità teorica per concepire il quadro ma anche per definire un modello moderno di visione del mondo.”

Nel Quattro-Cinquecento i ritratti con finestra non sono prevalenti, ma risultano comunque decisamente attestati. A prevalere è lo sfondo monocromo, che magari si sfa e s’accende tra Otto e Novecento; qualche attribuzione di rango, passione o professione, oltre al decoro o allo sfarzo degli abiti, connotavano il personaggio. Questi sta a volte tra dentro e fuori uno spazio poco definito, da quinta teatrale, o per così dire da quinta pittorica, da magione sventrata, cortile o semiloggia, come nel Novecento innumerevoli volte lo riprese Tamara de Lempicka: Ariette Boucard sdraiata su un divano di miele e insieme su un veliero e su una città; Tadeusz de Lempicki con paltò nero, sciarpa bianca e brillantina fascia fine anni Venti, appoggiato quasi a grattacieli svuotati e ferrigni.

Nero, marrone scuro, grigio fermi, dopo aver sostituito l’oro, talvolta tornano molto più avanti – nelle figure contorte, disseccate e smangiate di Schiele -, più spesso smottano, si dilavano e sfilacciano crepitanti in ritrattisti come Modigliani, variano nelle insistite e crudeli immagini di sé della Khalo, arricchendosi magari di saturazioni vegetali.

Soggetto profano ma anche sacro (la capitale Madonna con bambino 1437 di Lippi con prospettiva multipiano e scorcio) a Firenze, Venezia, nel nord Europa, questa iconografia si giova di una dialettica tra interno dominante e sfondo paesistico. Che è sfogo, apertura, metafora o pezzo di bravura. Leonardo nella Madonna di Monaco: ampio paesaggio roccioso, prima rossastro e rugginoso, e poi, innalzandosi ai monti più alti, dolomitico chiaro verso il ghiaccio del cielo; l’atmosfera della lontananza di tanta natura prossima che si dà nelle quattro finestre ai lati del capo biondo dorato, leggermente reclino della Vergine.

Più o meno coevo, forse un poco rimbalzato dal giovane maestro di Vinci, Il Vecchio e un bambino di Domenico Ghirlandaio al Louvre, che restringe il paesaggio alla più frequente striscia: a sinistra dei due volti in primo piano una strada sinuosa, l’alberello verde-oro e la collina con alberi a pompon verde-marrone, il monte grigio-azzurro sullo sfondo e l’ampio cielo.

Di media grandezza, un terzo circa della parete verde, a sinistra della Madonna leggente (Oxford, inizi del 500), Giorgione raffigura una basilica di San Marco piuttosto ravvicinata. Tiziano sfrutta spesso la feritoia del paesaggio che fa respirare l’interno (a Brera, già a carriera ben avviata, il Ritratto del conte Antonio Porcia); così Tintoretto che va di fretta ad accendere e sfumare la fenditura a destra del Ritratto di Battista Morosini oggi all’Accademia.

Anche Dürer è tra i grandi che amano usare la metafora mediata dal “come” inesistente della finestra. Celebre l’autoritratto del Prado dove, in lato a sinistra della figura, acque colline monti e cielo rimandano ai colori dell’abito e del viso. Un richiamo analogico cromatico e pure psicologico: eleganza posata dell’uomo e del mondo rinascimentali; mainstream narrativo tra fuori e dentro. Striscioline compaiono anche per esempio nel Ritratto di Elisabeth Tucher e nella Madonna con bambino di Washington. Mentre quella di Dresda inquadra ben dentro infissi chiusi uno slargo con carretto, cavallo e case; colori spenti dell’articolato interno prospettico che si uniforma alla stanza sul retro e al centro piastrellato.

A specchio il Ritratto di religioso del 1516, conservato a Washington, che nelle pupille contiene un minutissimo riflesso di finestre, caso forse unico di massima introiezione dell’esterno, quasi tatuaggio inevitabile della retina.

L’artista vede un volto, ma se è davvero un artista vede in verità l’anima del ritrattato. O la immagina, se si tratta di una situazione delle storie sacre, parametrandola alla propria esperienza (per esempio una madre e un bambino piccolo). Dunque lo sfondo monocromo e astratto è più sincero e anche adatto a far tralucere il carattere dalle fattezze. Già la camera, seppur traslitterazione dell’interiorità, può apparire superflua con i suoi dettagli distraenti o banalmente connotativi se non didattici. Il volto è la realtà esterna da interpretare: ciò che sta fuori alla finestra sembra in buona misura l’espirazione necessaria all’artista per non soffocare. Il confronto con l’esterno deve ancora svilupparsi.

2.

Eppure vi è della forza in quello spirito ancora stereotipato, come la vita imprigionata in un uovo che vuole schiudersi. Come la forma che domina l’artista con la sua solitudine, l’adolescente bisognoso di scrutare in primo luogo sé, poi gli altri, meno il mondo con cui dovrà però involtolarsi. Il motivo della duplicità interno-esterno, vario e parallelo, fa quindi capolino anche nella tradizione monocroma del ritratto di profilo, emblema della grandezza di Piero della Francesca. Il ferrarese Ercole De Roberti, nel ritratto “d’indifferenza quasi astrale “ (Longhi) di Giovanni II Bentivoglio, dipinge un profilo che guarda alla nostra destra, con copricapo rosso squillante e grande ala di capelli castani, mezzo busto damascato su grande tendaggio nero. Questo s’arrotola discreto aprendo la canonica sottile striscia (“peccato sia tanto ridotta”, ancora Longhi), sempre alla nostra destra, mezza di cielo azzurro e mezza più stretta di mura.

Anche le Annunciazioni e le Madonne in trono in qualche caso adottano la soluzione dell’apertura all’esterno. Per la verità il primo motivo si svolge di solito in porticati o logge, come quello poderoso del Perugino, favorenti il planare dell’angelo, che si trova poi, nel fotogramma successivo, a terra su un ginocchio nella parte antistante o di già apparso nella camera della Vergine giovinetta, rigorosamente sigillata a dire la purezza e la virtù. Proprio al Beato Angelico, sistematizzatore di questa simbolica, Antonio Tabucchi fa dire rispetto agli strani angeli che sono venuti a farsi ritrarre: “Non vuole stare al chiuso, non è mai stato al chiuso, dice che ha paura dello spazio chiuso, lo concepisce solo aperto, non sa cos’è la geometria.”

Sappiamo che alla donna da bene era interdetta la finestra, vetrina della prostituzione, e ne troviamo solo in compagnia di uomini, dentro una folla e se l’occasione è santa. La cappella Ovetari, della chiesa padovana degli Eremitani, contiene il Martirio dell’enorme Cristoforo di cui si trasporta per via il corpo. Sono gremite le finestre del gran palazzo dal rosso mattonato in primo piano, dove in quella a sinistra una freccia scagliata nell’occhio del giudice del Santo gli scaraventa la testa all’indietro, con la bocca spalancata nel grido nero. Un uomo e una donna soli stanno alle finestre di un altro edificio, in secondo piano, coronati da foglie di vite che lambiscono il capo.

Quanto all’iconografia, massimamente raccolta in sé, della Madonna, ormai madre, in trono, ci troviamo invece, nelle più belle prove, immersi nella natura armonica e signoreggiata.

E però il chiuso-aperto arricchisce la corrispondenza tra la dimensione improvvisa e ultraterrena dell’angelo e quella raccolta, pudicamente domestica di Maria. I finti visitatori celesti di Boccaccio entravano e si dileguavano dalla finestra e certo non va pensata come la cappa del camino per il diavolo delle fiabe popolari, tuttavia il velo leggero offre una disponibilità.

Petrus Christus tratteggia, a metà del Quattrocento, nell’Annunciazione di Berlino un ambiente riservato e composto proprio grazie ai dettagli delle due finestre con infissi crociati, doppie imposte listellate di legno con visione di colline e castelli; molto più evidenti rispetto al coevo Van der Weyden del Louvre dove l’occhio si fodera con i lussuosi arredi. La Madonna in sontuoso trono di Francoforte, tra San Francesco alla sua sinistra che sta su una soglia, e San Gerolamo a destra sotto la finestra aperta per un quarto in alto, ridimensionano l’ostensione al mondo riportando il ruolo di madre in primaria evidenza. Così anche Hans Memlinc, pittore tedesco educato a Bruxelles, grande utilizzatore del format in questione sia in ritratti profani che in Madonne con bambino o assise.

Sulle forme lungamente stilizzate dalla tradizione, quando non sclerotizzate, agisce il richiamo dell’esterno: la finestra porta il vento della novità. Forse fuori c’è ancora qualcosa che non si è visto e portato in colori o parole.

3.

La descrizione d’ambiente, è ovvio, ha sempre preferito luoghi chiusi. Lo sguardo non si distrae dalla cella dello studioso (a differenza che nell’architettura così ariosa di Antonello, dove San Gerolamo pare quasi un tassello colorato del sistema inorganico) o del monaco (le cattedrali e i refettori di Magnasco subissano di spazio e d’ombra le tante figurine esili come fuochi fatui). O dell’artista concentrato sul proprio fare; con un influsso fino al Dalì rosato-torbido del Ritratto del violoncellista Ricardo Pichot con finestra.

Le relazioni s’elettrizzano nei salotti settecenteschi e la musica suona meglio nella scatola serrata. Sala da ballo, sala de tè borghese, boudoir dove la bellezza ritoccata diventa più piena, ovattata e compresa di sé. E pure i luoghi del popolo – cucine, osterie, botteghe -, che abbisognano della ferocia d’un duro lavoro o dello svago grossolano, se non dell’abbrutimento, sono spazi concentrazionari. Tutti dentro per meglio alienarsi, al bar o in fucina. Si spia un mondo conosciuto e da condividere con piacere una seconda volta, oppure un piccolo formicaio contadino e operaio dove ingaglioffarsi, direbbe Machiavelli, sfrenarsi, di cui ridere o giudicare, riformare e innalzare. 

Stiamo nella versione letteraria del realismo, in cui predomina l’esterno da documentare e da spiegare, testimoniare. Un poco si altera l’equilibrio tra interiorità del personaggio e dato naturalistico del carattere; la scena sociale è più interessante dell’individualità.

Eppure la tradizione dell’interno con finestra continua: “Un interno che non abbia un esterno non sarebbe neppure un interno” (Hegel).

Nella famiglia ottocentesca, schierata tra divano e mobilia, si trova qualcosa di soffocante. Forse per questo Silvestro Lega tra le sue canore giovinette, un po’ inamidate nella routine borghese de Il canto dello stornello, piazza un’ampia finestra aperta sulla campagna toscana; la provincia dove, nella delusiva Italia post-unitaria, s’erano rimbozzolati molti patrioti-pittori del caffè Michelangelo. E le loro fanciulle, che già in Borrani cucivano nel 1959, spesso camicie rosse, davanti alla luce naturale, necessaria e ventosamente storica dietro ai vetri. La figura mediata dalla finestra vira con Lega all’antitesi.

Tutti i danarosi ma sagaci acquirenti d’ appartamenti girano le stanze, valutano gli annessi e connessi, spalancano la finestra. La vista sulla città. Così scelgono molti parvenû dell’Ottocento vie e piazze del centro, per sentirsi subito in mezzo, respirare l’elegante dinamismo della folla, per aver conquistato dall’alto come piccoli Rastignac la Parigi di turno. O scorci più tranquilli, mitigati già allora dal verde pubblico dove ricreare l’occhio. Tale l’effetto delle pigre contemplazioni di Caillebotte dalla sicurezza del proprio appartamento buono (Giovani uomini alla finestra 1875), pur senza una sigaretta fumata nel dopo pranzo.

A cavallo tra Ottocento e Novecento le avanguardie morbide e coloristiche dei Nabis e dei Fauves sconvolgono e in parte mantengono la rappresentazione della realtà. Sia Bonnard che Matisse nei loro interni hanno forte la presenza delle finestre. Per il primo si tratta della fase belle epoque detta intimista, perché non può essere interno senza il richiamo malinconico, forse piccolo borghese dell’altrove. La fanciulla turbata nei romanzi si torce le mani e cammina verso la finestra, dove anche troviamo il pensieroso amante; o, nei drammi borghesi di fine secolo, mariti e mogli dilaniati dai segreti per stornare la faccia dal colloquio e calmare i nervi.

A volte però la finestra diventa soggetto assoluto volatilizzando la stanza per le potenzialità coloristiche di richiamo: un’impellenza assoluta di buttarsi fuori dallo studio, nel turbine dei verdi e dei gialli debordanti de Le Mimose di Bonnard.

Il mediterraneo Matisse invece non resiste al richiamo azzurro del mare tra gli altri vividi colori della stanza (Interno con custodia di violino). E nella celeberrima Tavola imbandita del 1908, la piatta armonia in rosso della tovaglia e della parete, arabescate da rami e fiori blu, punteggiata dai frutti e dalle bevande gialle disposte dalla fantesca, si apre sinfonica in piena tradizione del bello sfondo, con i verdi uniformi dei campi, l’intenso blu del cielo, il rosa d’un muro lontano.

[1 – continua]