Moresco ricreato

di in: Captaplano

“Lei è il signore che chiude?”, mi ha gridato oggi pomeriggio un bambino, intento a giocare con un altro alla rotonda della Besana, temendo che io fossi il custode che chiude il cancello a una certa ora.

“No, sono il signore che apre!”, gli ho gridato in risposta, continuando a camminare a grandi passi sotto il colonnato.

 

Questo breve pezzo, un po’ aneddotico un po’ ironico, sta per tante altre pagine di poetica e di polemica che Moresco ha scritto negli anni (a partire dalla prima edizione di Lettere a nessuno, 1997 e Il paese della merda e del galateo, 1998) contro il piccolo nichilismo della letteratura contemporanea, autoreferenziale e ripetitiva. Il già detto del postmoderno e l’astratto spacciato per resa d’una porzione di realtà, proprio a fronte, come chiosa in Disumane lettere Carla Benedetti, sua interprete e sodale, di una situazione socio-economica e ambientale senza precedenti per l’intero globo. Il rifiuto d’ogni chiusura ideologica, strutturale, linguistica, a cui si contrappone la visione di un tentativo di continua apertura, è di per sé la più forte opposizione all’effimero e alle sue mortifere conseguenze che esaltano il qui e ora. I romanzi lunghi concretizzano quest’idea in una sorta di poema gestuale lucreziano, che non termina ma passa di testo in testo. Così Gli esordi, peraltro un susseguirsi iniziatico alle dimensioni religiosa, politica, letteraria, si affacciano già sui successivi Canti del caos, tenendo inoltre presente i numerosi rimaneggiamenti di una materia magmatica in perenne divenire:

 

Sei lo scrittore popolare increato che ha guardato negli occhi la potenza istantanea della nascita, perché tutto possa continuare a nascere, perché non si chiuda la ferita popolare della nascita e non ricominci il giro a vuoto della creazione creata nella storia e nel tempo umano e delle sue strutture oltrepassate e disattivate […] Gli esordi (pp. 1057-58).

 

Anche alcuni degli ultimi romanzi più brevi presentano lo sviamento della fine e quindi il contrasto all’effimero. Gli Incendiati (Mondadori 2010) mette in scena, in modo inedito per l’autore, una coppia di fuorilegge; una amore tragico e diverse sparatorie. Ci interessa perché la morte dei protagonisti, capitata per avventura in mezzo al testo (p. 118), non spezza la continuità priva di capitoli, né coincide affatto con la sua conclusione (p. 182). Crivellato dai proiettili, il narratore si risveglia all’obitorio, dove scambia queste battute con la donna, intatta e ringiovanita: “- Vieni! – mi ha detto ancora, mi continuava a dire. – Ma io sono morto! – ho sentito che le stavo rispondendo. – E anche tu sei morta! – Sì, ma io non posso stare neanche dentro la morte. -” (p. 119).  Da lì comincia un viaggio notturno attraverso l’est Europa ed una ripresa della lotta contro i viventi ammazzatori, terminata con l’autocombustione dei due amanti morti vivi; eppure la voce, che bruciando aveva gridato “Siamo una stella!” (p. 180), sopravvive in ulteriori ipotesi cosmiche, tutte all’insegna dell’apertura verbale al futuro:

 

E poi un giorno, forse, la sua luce ci arriverà, e allora, forse, ci sarà anche chi la vedrà, e allora tutto lo spazio si aprirà, si riaprirà, e allora tutto il cielo si accenderà, e tutto l’universo risplenderà, la fornace della vitamorte si squarcerà, esploderà, splenderà, e allora non ci sarà nient’altro che quella luce che ci sarà, fuoco e oro. (p. 182).

 

Per contro D’Arco, lo sbirro dagli occhi bianchi di L’Addio (Giunti 2016), viene richiamato dal mondo dei morti a quello dei vivi dal collega Lazlo a far luce sulle violenze contro bambini. Il fanciullo morto tra i viventi è protagonista anche de La lucina (Mondadori 2013) e sul tema ci torneremo tra poco; così come sulla morte che precede la vita, motivo accennato sul finale dei Canti del caos, torneremo abbondantemente in chiusura a proposito de Gli increati. Scrive Herta Müller che “il re di città fa in modo che non ci si accorga delle sue debolezze, quando barcolla si pensa che s’inchini, ma lui s’inchina e uccide.” Potrebbe essere una buona sintesi del racconto Il re del 2005, posto in coda alla raccolta di Clandestinità e La cipolla, già editi nei primi anni novanta, dal titolo comune Il combattimento (Mondadori, 2012). Si tratta infatti del ricevimento organizzato da una famiglia nobiliare in una casa di campagna e seguito con gli occhi di un bambino, figlio di lavoranti. La dimensione spazio-temporale sembra rimontare all’autobiografia fantasticata di Moresco, già conosciuta proprio in La camera blu, primo racconto di Clandestinità; fatto sta che il re in esilio, gigantesco e dal profilo di boxeur, cultore del cibo e del vino, raccontatore di barzellette, nel convivio dà segni inequivoci di amare anche molto le donne. Trascorsa la notte, il bambino vaga qua e là per le corti sempre più sgomento, tra luci accese, oggetti infranti, macchie di sangue, fetore di cadaveri e donne piangenti. Il re e il suo servitore, che è forse il vero re mentre l’altro ne è la proiezione oscena per dirla alla Žižek, si aggirano ancora all’intorno come in una fiaba dell’orrore. Qualcuno grida: “Lui può fare quello che vuole! […] Lui è il re!” (p. 280). L’unico cioè che afferma il proprio potere in quanto ultimo sui corpi straziati di uomini, donne e bambini, sulle macerie di ciò che lo circonda. Il piccolo osservatore gli è sfuggito allo stesso modo della vocina con cui dialoga e s’identifica nel monologo finale:

 

“Sì, sì, tu sei qui, assieme me. Hai anche tu gli occhietti chiusi, grinzosi. Io ti proteggo, avvolgo il mio corpicino gelato attorno al tuo per difenderti dai colpi, dal gelo, mi prendo prima io il ghiaccio sopra di me, creo all’interno del mio corpicino gelato una nicchia per te. Tu non sei solo, qui dentro, c’è un’altra bestiolina fredda, bagnata, vicino a te. Dove credevi di essere? Tu non sei lì, sei ancora qui, qui con me. Non sei ancora nato, ma nascerai. E poi, solo dopo che sarai nato tu, nascerò anch’io. Nascerò per te. Tu non hai altri che me. I miei occhietti ghiacciati non riescono a formarsi, il mio sangue gelato non riesce a nutrire il mio corpo. Nascerò cieca, deforme, non sviluppata. Sarò orribile e buona. Tu verrai vicino al mio letto, io ti accarezzerò la testa, ti ascolterò, ti parlerò, ti consolerò. Qui è tutto freddo, spaventoso, gelato. Le mie cellule, le piastrine del sangue… Come si fa a nascere in tutto questo gelo? Eppure tu nascerai. Ti lascerò scendere per primo quando l’utero comincerà a dilatarsi. Prima te e poi me, prima te e poi me, prima te e poi me. Contrarrò il mio corpicino informe appena accennato, raccoglierò tutte le mie forze, ti spingerò fuori coi miei piedini gelati… Ma tu nascerai, nascerai!” (p. 281)

 

I libri brevi fungono da anticipazioni tematiche e poetiche delle mille pagine de Gli increati (Mondadori 2015), definito “un magnete” (p. 800), che in effetti tutto ingoia e rimescola anche dei due precedenti volumi grossi; oppure disorbita frammenti successivi come L’addio. Luoghi, in cui il narratore più volte torna, come il seminario (prima parte de Gli esordi), la periferia metropolitana con grattacieli e svincoli stradali (la fine de I canti del caos), la villa dell’infanzia già in Clandestinità; personaggi dalla Pesca (la bambina che fa innamorare il protagonista a Ducale) al Gatto, prima sacerdote poi editore, una serie di figure presenti ne I canti: la Musa, il Traslocatore etc. L’incontro-epifania annunciato dalla frase “E tu chi sei?”, interessa singole figure – biografiche, mitiche (Manto), religiose (Lazzaro), letterarie (Pasolini, per la verità l’unica), storiche di diversi tempi (Ilaria del Carretto, Mao, Kennedy e King, lo scià di Persia e la moglie dell’imperatore moghul, Jan Palack), con una predilezione verso gli “insorti” (Guevara su tutti, e Most, Macnamara, Blanqui) – o cori di combattenti o di vittime (del Belice e del Vajont, piazza Fontana e Bologna, Chernobyl etc.). Troviamo poi diverse pagine programmatiche ed autoreferenziali (794 sg.), nelle quali si riconosce l’ambizione del progetto (“il più inconcepibile rompicapo di tutta la storia della letteratura mondiale” p. 817), quasi inconscio a se stesso e impari alle forze scemanti, fuori dal proprio tempo e “insubordinato”.

 

Far vedere fino a che punto tutto il mondo dei vivi sia sotto la cappa della morte, in questo termine e passaggio d’epoca, della riproducibilità della cosiddetta materia, anche di quella in pensiero, della clonazione e della fine del mondo degli uomini umani (p. 41).

 

Si tratta in effetti di un viaggio dalla vita alla  morte (parte I) e ritorno (II), per entrare nel misterioso stadio dell’increazione (III). Un romanzo, o poema, che ha veramente pochi termini di paragone: viene in mente Dante per la tripartizione, il tema metafisico (ma con un’ossessiva sottolineatura della permeabilità tra i mondi), gli incontri con guide da interrogare, il buio e infine la luce, il fuoco, la musica, la danza, la donna. Ed anche per l’uso di un proprio, necessariamente inedito, linguaggio: “Ma come si fa a raccontare e nello stesso tempo a increare, se il nostro linguaggio, le sue strutture grammaticali, verbali, sintattiche non possono esprimere e neppure concepire l’increazione, se possono avvicinarsi solo per approssimazioni, anticipazioni e invenzioni?” (p. 728). Di qui neologismi-chiave, soprattutto verbi all’infinito o al participio passato (“tracimare”, “incernierarsi”, “increare”) o aggettivi come “seminale”, ripetizioni di clausole (“morte che viene prima”, “spaccato in due”) con verbi al futuro (“quando ero vivo sarò”) a sottolineare che, come lo spazio del racconto, è saltato anche il tempo (la trama stessa è ricorsiva e non lineare); figure strutturanti dell’antitesi (morte, vita, immortalità, increazione) che sfumano nel parallelismo (i vivi non vogliono più morire, i morti non vogliono più vivere; vivo sembra essere il mondo dei morti, morto sembra essere il mondo dei vivi) e nel chiasmo (“se sei stata creata da me nella distruzione, se sei stata distrutta nella creazione” p. 990).

Indubbiamente il tour de force per il lettore sfiora spesso i limiti: si ha la sensazione del confronto con qualcosa di davvero inedito, ma ugualmente, sfibrati dalle ripetizioni e dall’enigma, ci si chiede se ne valga la pena. Affascina per esempio la visione in corsa del tenebroso mondo della prima parte, le apparizioni da Cantico dei cantici memoriale della Pesca (ad esempio il richiamo con le bolle di sapone a pagine 676), o del padre e di certe città turrite, mentre la lunga parte combattentistica tra “vivi prima” e “vivi dopo” (i tracimati) e poi tra questi coalizzati contro gli immortali, come gli infiniti dialoghi che mai concludono, inducono all’antico e bieco crocianesimo che andava scegliendo a piccoli sorsi la poesia nel grande organismo del poema.