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Un tempo il proletariato aveva la prole, il vivente del XXI secolo, almeno nel mondo Occidentale, ne fa a meno; non ha che il suo corpo e, benché questo corpo sia spesso sterile, egli desidera mantenerlo in vita. Un corpo chiede cibo, acqua, un tetto, medicine; ora chiede anche un vaccino.

C’è stato un tempo in cui le pandemie mietevano milioni di vittime; poi, diventavano malattie endemiche e latenti o sparivano senza far troppo rumore, come erano venute. I sopravvissuti stavano meglio, guadagnavano di più, acquistavano uno spazio vitale maggiore. Questa pandemia, invece, annuncia un esito diverso. Grandi affari già sono in corso: mascherine, vaccini, altro materiale sanitario, ecc. Tutti soldi spesi bene, s’intende, compreso il grande affare del secolo, i soldi prestati.

Resta da chiedersi: perché la scrittura del molteplice, dei mille rivoli, a un certo punto si disciplina per entrare in un libro? Come mai Di Luca distrae l’attenzione dalla biblioteca della dispersione e comincia a scrivere E quindi uscimmo a riveder la gente? Me lo sono domandato diverse volte senza riuscire a rispondere, probabilmente perché la domanda era posta male.

Nei mesi scorsi i balconi sono assurti al cielo, in grande gloria; tuttavia le finestre continuavano il loro servizio, umili e decisive. Mi piace stare alla finestra, in senso letterale. A differenza del suggerimento metaforico non aspetto nulla: fermo il tempo nella natura, lo guardo passare con i passanti.

Contagio, periodi medi di incubazione, guarigioni vengono analizzati senza la giusta prospettiva temporale come se il tempo fosse piatto, schiacciato. I dati giornalieri, i nuovi casi, i ricoverati nelle terapie intensive, i morti non vengono disallineati. Non viene attribuita la giusta casella temporale agli eventi.

Un mio vecchio professore, per intimidirci, ripeteva: “Tra me e voi c’è un abisso”, e nessuno osava contraddirlo. Poi ho ritrovato questa cosa in Maurice Blanchot: l’abisso incolmabile del rapporto docente-studente, l’abisso della conoscenza, del desiderio, della ricerca, che unisce docente a studente e viceversa. Non aveva poi tutti i torti il mio vecchio professore, sebbene fosse un po’ gonfio!

Ma io non sono sciuro che le cose stiano come ce le dipingono. Non sono sicuro che i professori siano quelli che vediamo alla tv, sui social, sui giornali. Secondo me, ci sono “altri professori”. Che non sono però una nicchia, una élite, un gruppo di eletti. Sono i professori che leggono, scrivono, parlano spesso di tutt’altro che di attualità oppure, se parlano di attualità, lo fanno in maniera “inattuale”, sganciandosi dagli stereotipi e dalle macchiette, e dunque non rientrando a nessun titolo in un nessun format.

Quante volte Dante cerca di abbracciare qualche cara ombra nel regno dei morti. È un gioco del pieno e del vuoto, una ripetuta sottolineatura gestuale dell’eccezionalità del suo viaggio, ma anche una profonda pena. Il poeta ci ricorda una cosa banale e fondamentale insieme: c’è bisogno d’un corpo per poter dare un abbraccio.

E quando, più normalmente, ci sarà un altro corpo da abbracciare, di congiunti, affetti stabili ed amici? Il massimo contatto della più estesa superficie possibile che aderisce. Quando l’abbraccio è reciproco un otto si disegna, mai perfetto perché ogni corpo è diverso e diversamente irregolare, ma quasi un’intersezione tra i due circoli. Spesso le braccia femminili tendono l’anello verso l’alto, quelle maschili verso il basso dell’ultima vertebra, a volte le rispettive mani, anch’esse intrecciate, replicano in piccolo la saldatura.

Tuttavia, gli scrittori non sono stati meno conformisti. Da rispettosi lacchè dei politici, a loro volta proni ai diktat della tecno-scienza, non hanno nemmeno provato a dire che forse la peste non veniva solo per nuocere, ma a darci una chance storica, quella di rallentare il ritmo della produzione, di abbandonare finalmente l’economia dell’abbondanza, di tentare una forma di vita dove il coraggio e la libertà non fossero compromessi in nome della cosiddetta verità scientifica.

Fotografia di Ezio Gianni Murzi

Tempi eccezionali, sì, non c’è altro modo per definirli, per descrivere l’alternarsi di sentimenti e il caos di pensieri che li stanno accompagnando. Improvvisamente reclusi, isolati, minacciati. Per l’esattezza, presi di mira. E circondati da un silenzio che è stupefacente, perché non siamo né in campagna né in montagna ma proprio nel centro della capitale. [continua]