Altri professori

Ma io non sono sciuro che le cose stiano come ce le dipingono. Non sono sicuro che i professori siano quelli che vediamo alla tv, sui social, sui giornali. Secondo me, ci sono “altri professori”. Che non sono però una nicchia, una élite, un gruppo di eletti. Sono i professori che leggono, scrivono, parlano spesso di tutt’altro che di attualità oppure, se parlano di attualità, lo fanno in maniera “inattuale”, sganciandosi dagli stereotipi e dalle macchiette, e dunque non rientrando a nessun titolo in un nessun format.

Jean Siméon Chardin, "Soap Bubbles", ca. 1733–34, Oil on canvas

Discutendo con Michele Ruele della sua nuova rubrica, Banchi, dedicata alla scuola e inaugurata su Zibaldoni e altre meraviglie lo scorso 14 settembre, mi è venuto in mente il titolo (solo il titolo) di un libro di alcuni anni fa di Marco Lodoli, I professori e altri professori. Ho pensato che in fondo in Italia esistono “altri professori”, o meglio professori altri, o professori diversamente professori, se preferite.

Ma altri rispetto a chi?

Da anni ormai, e con insistenza negli ultimi tempi, i media e la politica propagandano uno stereotipo relativo ai professori, ai maestri, ai docenti di ogni ordine e grado, legato ad alcune tipicità: fannullonismo, didatticismo, menefreghismo, sindacalismo, precarismo, e di recente pavidità e vigliaccheria (basta sfogliare i titoli del Corriere della sera di questi mesi). Il risultato paradossale di tale stereotipo tutto da studiare (il populismo c’entra, ma c’entrano anche tante altre cose), è che molto spesso i professori stessi finiscono per adeguarvisi senza batter ciglio, e dunque a parlare, agire e ragionare come se veramente fossero una manica di debosciati, sempre bisognosi di qualcuno che dica loro quello che devono fare.

Sono in soggezione dappertutto e con tutti, anche con il loro cane. Hanno paura di parlare, non hanno voce da nessuna parte, nessuno li interpella mai e nessuno conosce il loro punto di vista. Da quando è cominciata la pandemia, hanno preso la parola un po’ tutti in pubblico: i professori quasi mai, o, se lo hanno fatto, hanno assecondato le tipicità e gli stereotipi di cui sopra, impersonando il ruolo che veniva loro assegnato dal format di turno.

Ma io non sono sciuro che le cose stiano come ce le dipingono. Non sono sicuro che i professori siano quelli che vediamo alla tv, sui social, sui giornali. Secondo me, ci sono “altri professori”. Che non sono però una nicchia, una élite, un gruppo di eletti. Sono i professori che leggono, scrivono, parlano spesso di tutt’altro che di attualità oppure, se parlano di attualità, lo fanno in maniera “inattuale”, sganciandosi dagli stereotipi e dalle macchiette, e dunque non rientrando a nessun titolo in un nessun format. È gente – secondo me, una gran parte di chi insegna – che si sveglia al mattino e fa il proprio lavoro come un netturbino, un impiegato o un manager. Con senso, cioè, della necessità inevitabile e con fantasia. Due esempi di professori che nel corso di questa pandemia sono stati capaci di non farsi schiacciare dai proclami benpensati dei media e della politica, e a far sentire la loro (altra) voce con grande coraggio, sono Emanuele Coccia e Giorgio Agamben. Ma potrei citare allo stesso modo tanti scrittori di Zibaldoni, che in questi mesi hanno continuato a scrivere, e tanti altri che su altre riviste e in altri luoghi eterocliti si sono espressi e si esprimono in modi discreti o prorompenti, ma sempre defilati rispetto al vociare massificato. Si esprimono senza disprezzare l’attualità, lo ripeto, ma guardando molto al di là di essa, ispirandosi a una sorta di ultrafilosofia che si fonda sulla necessità e la fantasia.

Riprendendo a fine marzo Zibaldoni e declinandolo come Zibaldoni d’eccezione, in fondo era già questo che avevo in mente. Non tanto dare voce a chi non ce l’ha, ma scoprire un’altra voce che sta dentro o dietro (o sopra o sotto) di noi. E che è una voce possibile oltre ogni fissità, nella quale rischiamo sempre di cadere se ci facciamo incantare dalle sirene dell’attualità. Quando la ministra Azzolina ha dichiarato, con il suo abituale tono indolente, che “la scuola non sarà più come prima”, ho avuto la sensazione che l’incubo della straordinarietà continuerà a lungo, e dunque che sono pronti a cucirci addosso nuovi vestitini, a farci indossare nuove maschere, a farci interpretare nuove menzogne. Volesse il cielo che la scuola non fosse più come prima! Ma è evidente che il cambiamento che si prospetta non è nella direzione che hanno in mente quelli che guardano oltre, bensì quello che ottunde le menti e ingabbia tutto in schemi ormai inutilizzabili.

Zibaldoni va avanti per la sua strada “eccezionale” e dà il via a questa nuova rubrica con grande fiducia nella voce degli altri professori che prenderanno qui la parola non tanto per esprimere la loro opinione (finiremmo di nuovo nel calderone dell’attualità!), ma per far sentire la loro dirompente vitalità. Che è fatta anche di cose minime, di piccole idee, e di storie, di versi, di saggi critici. Perché se la scuola può cambiare, può cambiare soltanto a partire da questa immensa capacità creativa, umiliata e nascosta al pubblico soltanto perché il pubblico preferisce spettacoli e fenomeni da baraccone, e dunque facili lacrime o risate oppure odio e sentimentalismo a buon mercato.

Chi non si adegua a questo andazzo, legge Zibaldoni e altre meraviglie e ascolta gli altri professori che io spero costituiranno presto una lunga teoria tra i nostri Banchi. C’è poco altro da dire o da fare.