Per la poesia l’esilio non è un tema, e spesso non è neppure una condizione del poeta, è il nesso tra esistenza e lingua, è quel che porta la lontananza a farsi parola, la separazione ritmo. Ospitalità del perduto, e dell’irreversibile, nella lingua. La terra da cui il poeta è in esilio può avere l’abbagliante trasparenza della luce – alla quale “gli uomini preferirono piuttosto le tenebre” – o la fuggitiva inconsistenza delle nuvole, cioè della forma in continua metamorfosi. La terra da cui il poeta è in esilio può avere l’iridescenza del nostos, insieme seducente e impossibile, ossessiva e dolorosa (nostos-algos). O i lampi del deserto, che è deserto del senso, oltrelingua che silenziosamente invita ad abbandonare il paese stesso della poesia. La terra da cui il poeta è in esilio può avere il profilo del baudelairiano “vert paradis des amours infantines” o il richiamo delle “voluptés calmes”, il fascino della “vie antérieure” luminosa e tuttavia egualmente trafitta dal “doloroso segreto”. Qualcosa di quel che è perduto il poeta accoglie nella lingua dell’esilio: sia che con il movimento della leopardiana ricordanza tornino dal tempo irreversibile e bruciato parvenze, figure, voci con cui il poeta può colloquiare, sia che, baudelairianamente, l’altrove sia osservato e custodito nel qui, l’azzurro nella ferita, l’impossibile nel respiro della lingua. “J’ai arraché un lambeau à la robe qui a échappé comme un rêve aux doigt crispès de l’enfance”: è la chiusa della prosa di Yves Bonnefoy La vie errante, che dà il titolo alla raccolta. Con questo brandello di veste d’infanzia il poeta affronta il suo cammino di errante. Anche di questi fili colorati d’infanzia è tessuta forse quell’altra lingua che abita la lingua della poesia.
Maria Zambrano in Los bienaventurados descrive la fisionomia interiore dell’esiliato: alcuni di quei tratti possono riferirsi alla poesia. L’orfanità, per esempio, intesa come un galleggiare sulla storia resa quasi acquatica. La disponibilità verso la visione, come effetto dello sradicamento. La vulnerabilità estrema dinanzi alla vita, l’interiorizzazione del deserto. Sono tratti che la poesia modula con diversissimi accenti, fino al punto che potremmo attribuire a lei – al corpo della poesia – il verso di Bernard Noël: “nos lévres s’empoussièrent d’exil” (La rumeur de l’air). Ma l’esilio del poeta ha in sé una singolare ambivalenza. Da una parte la lingua della poesia, le rifrazioni dei suoi miraggi, la sua sognata e impossibile perfezione, la sua musica sono il solo paese che il poeta davvero abita, nell’orfanità, appunto, della storia, dell’appartenenza, la sola patria (patria di nuvole, Wolkenheimat, diceva Jean Paul). Dall’altra quel paese d’appartenenza ha un entroterra – un “arrière-pays”, diremmo con Bonnefoy – che è irrimediabilmente lontano, perduto, che è prima e oltre la lingua della poesia, e ha un ventaglio di forme, di richiami che sono lampi, epifanie, irruzioni: questo lontano entroterra è la lingua materna, cioè l’intreccio di silenzio e di vocali. Un sentire che è canto e battito, voce e ritmo. Una pedagogia materna presiede alla voce della poesia (una Mütterarztlicheit, diceva Hölderlin). Si tratta, ancora, di una lingua che per dirsi non ha bisogno della lingua, è mormorio del bosco o voce animale, suono del mare o del vento, insomma physis: nessuna mimesis può accogliere, se non mortificando, attenuando, quella sua vita nel linguaggio. Da questa anteriorità il poeta è in esilio. Un’anteriorità che, anche se declinata ogni volta in modi diversi, s’è configurata insieme come lontananza inattingibile e anima del linguaggio, fata morgana e sostanza della visione, abolizione del presente e suono del presente.
È Baudelaire che ha portato nel cuore della modernità l’assillo di un’appartenenza negata, di un azzurro avvilito, di una libertà celeste imprigionata. Ecco l’albatros, “exilé sur le sol”, che mostra nella sua goffaggine, nella sua sofferenza animale, l’altro di cui è emblema sacrificale. Per il suo biancore abbagliante fa pensare all’albatros-arcangelo di Moby Dick che appare un mattino a Ismaele sulla tolda della nave. Ma questo bianco abbaglio non significa più, dice solo l’irrimediabile lontananza dell’altrove. Ecco il Cigno dei Tableaux parisiens, poème che Baudelaire dedica all’esule Victor Hugo: il cigno con le zampe palmate gratta sul pavé asciutto, le ali bagnate nella polvere, lontano dal suo lago, nel cuore di una metropoli trasformata in un immenso cantiere, sventrata perché nasca la ville moderne. Dietro il cigno “comme les exilés, ridicule et sublime”, dietro Andromaca che specchia il suo dolore in un falso Simoenta, ecco le figure della dimenticanza, le silhouettes che salgono dall’oblio, dal margine, dalla non appartenenza, dalla negazione del nome, e chiedono ospitalità alla lingua della poesia: la “negresse” tisica, coloro che han perduto quel che più non ritorna, gli orfani, i marinai dimenticati in un’isola, i prigionieri, i vinti, ed altri, altri ancora.
Il cigno di Baudelaire, peregrinando nei versi di altri poeti, manterrà la sua condizione di esiliato, ma nei versi di Mallarmé la sua “blanche agonie” e il suo “éclat”, il suo abbaglio – così diverso dall’ “éclat” della passante – avrà il gelo cristallino dell’apparenza: il sogno e l’assenza sono come incantati nella forma, nel dominio della forma. Di ascendenza mallarmeana è la scrittura dell’esilio che sarà propria di Saint-John Perse (i quattro poemi che compongono Exil): alla violenza della storia, al suo tumulto, la scrittura dell’esilio oppone il farsi del canto, alla lontananza la presenza della parola che accoglie, descrive, invoca, al discorso pieno l’erranza del senso (come ha visto con grande finezza Stefano Agosti). Il mare, la pioggia, la neve, la straniera sono le figure che fluttuano in questa erranza, e infatti non radicano la lingua a un luogo, a un centro. E tuttavia, la solennità celebrativa del canto di Saint-John Perse non apre varchi nella lingua, ma solo nel senso, non va verso l’interrogazione ma verso l’esclamazione: è l’ approdo alla poesia, che è forma, terra, identità.
C’è un altro tratto proprio dell’esiliato, secondo Maria Zambrano: la ricerca dello sconosciuto che è in sé, dello straniero che abita dentro ciascuno. È a questo movimento che la scrittura di Edmond Jabès ha dato forma e respiro. Da Le livre des questions a Le livre de l’hospitalité (che segue il libro dedicato proprio allo straniero), Jabès ha rappresentato lo straniero come figura dello spaesamento, dell’estraneità alla lingua. Lo straniero è anzitutto l’altro che ciascuno può riconoscere in sé. Fine del nomadismo estetico. Questo spaesamento del sé si fa a un certo punto prossimità all’altro: è il ritmo della fraternità. Un ritmo che all’origine ha il riconoscimento dell’estraneità di sé a sé: “La distanza che ci separa da uno straniero, dice Jabès, è la distanza che ci separa da noi stessi”. L’esilio, per Jabès “in esilio”, è anzitutto esilio dal Libro, dal suo impossibile compimento, dalla sua voce priva di volto. Libro di un’assenza – assenza di Dio – che ha consegnato l’uomo al dolore del mondo. Si spalanca il deserto, figura della spoliazione di senso, del silenzio, dell’assenza di protezione, della lontananza dall’oasi. Del deserto la scrittura di Jabès ha narrato i cieli di pietra, le impronte cancellate, le voci che il vento agita – voci di profeti e saggi e martiri e poeti – ha narrato le vertigini, le tracce di un senso ferito. Nel deserto il pensiero affronta il suo limite, cioè l’impensato che lo sovrasta, la parola affronta il nulla che la consuma. “Parola di sabbia” dirà Jabès della propria scrittura. Parola esposte al vento della cancellazione, parola che non potendo dire il nulla, modula le metafore del nulla: il vuoto, il bianco, il deserto. La tradizione di un ebraismo fantastico e affabulatorio, ateologico e dialogico si unisce alla tradizione di una poesia che sperimenta la ferita e la perdita del senso, che è prossima al silenzio che abita la sillaba, e accoglie il bianco che circonda la parola. L’esilio è per Jabès la forma spaesata, incompiuta della scrittura: insieme estrema e irrisolta, affacciata sull’abisso e curva sul dolore del mondo, prossima al cielo – alle nuvole, all’impalpabile, al metamorfico – e prossima alla sofferenza del singolo, leggera e ferita.
Con un’altra parola ferita chiuderei questi brevissimi passaggi nella terra della poesia, con la parola di un amico di Jabès, Paul Celan. Una parola che la “schmerzliche Reim”, la dolorosa rima, frantuma, piega all’accoglimento del salmo e della negazione, del ricordo e della visione, della cenere e del nulla. La distruzione -della vita, del senso, della storia – abita la sillaba, e scompiglia l’ordine espressivo. Sullo sfondo, tra Die Niemandsrose e Atemwende, la terra dell’addio, cioè il perduto “paese di fontane”, il cielo, l’immagine della madre: la lingua non fa che nominare l’esilio. Esilio che è nel cuore stesso delle parole. “Mit Namen, getränkt / von jedem Exil”, “con nomi imbevuti di ogni esilio” Celan ha attraversato la terra della poesia. Un cammino aspro, solitario, che la prossimità di altri poeti, anch’essi esiliati o deportati-Mandel’štam tra i primi- se non ha mitigato, ha almeno riempito di suoni, di ritmi, di interrogazioni, facendo balenare il fiorire nella musica del nulla, le ali in ciò che pesa e che trattiene. E vorrei davvero chiudere con l’esergo che Celan pone ai versi di Und mit dem Buch aus Tarussa (in Die Niemandsrose), versi che hanno anche un cifrato riferimento al poeta dell’esilio Ovidio. L’esergo è tratto dal Poema della fine di Marina Cvetaeva e dice Tutti i poeti sono ebrei. Ossia: tutti i poeti sono in esilio.