Le stanze delle meraviglie/ 2

Oggi è il trentasettesimo giorno di epidemia da covid. Ci è stato raccomandato di non uscire, siamo chiusi in casa. Se non possiamo uscire di casa non possiamo certo viaggiare e, di fatto, tutte le comunicazioni, terrestri, aeree, navali, sono interrotte.

Di me posso dire che non sono un viaggiatore nel senso che si dà a questo termine, qualcuno che si è dato come suo scopo il viaggio. E tuttavia ho passato la vita viaggiando e vivendo altrove per lavoro. Se li sommo, sono quarant’anni, la maggior parte della mia vita, così che stare fermo è inquietante, ha qualcosa di improvvisamente definitivo.

Nella casa dove abitiamo, senza saperlo avevamo creato quelle che ora ci sembrano stanze delle meraviglie, piccole raccolte di oggetti, i più disparati, che provengono dai luoghi lontani dove abbiamo vissuto, e che ci riportano indietro, a quei tempi.

La nostalgia arriva a ondate, e oggi mi fermo a guardare questa, che chiamo la seconda stanza, considerando come prima stanza quella africana. E con un acquerello che comprai a Mosca, di Alexandr S. Vedernikov, pittore degli inizi del Novecento, torno sulle rive della Neva, dove sono stato in due momenti opposti, solstizio d’estate e solstizio d’inverno.

*

La Stella Rossa, il lussuoso treno che viaggiava di notte per San Pietroburgo, partiva dalla stazione Leningradsky di Mosca. L’addetta ai vagoni letto, che mi accompagnava allo scompartimento, indossava la divisa blu squadrata delle ferrovie, ma come la maggior parte delle altre impiegate ne aveva modificato la gonna in una minigonna aderente, che le arrivava appena al ginocchio.  Doveva portare le lenzuola? E il tè, la mattina dopo, al risveglio? pagando un extra, beninteso, aveva chiesto con aria arcigna, segnando le risposte su un blocchetto. D’altronde in Russia, in quegli anni, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, in cui anche la spazzatura poteva essere per alcuni la risorsa cui attingere, non sorrideva nessuno.

Dividevo lo scompartimento con un altro viaggiatore, un russo, che aveva ai suoi piedi una borsa consunta, di cuoio. Tutti gli uomini avevano sempre con sé una borsa simile dal momento che i negozi erano di regola sforniti e bisognava affrettarsi a comprare, laddove e quando si trovasse qualcosa. Saluti educati e, quando furono pronti, preparati con le lenzuola richieste, ci sedemmo in pizzo ai letti, uno di fronte all’altro, guardando fuori dal finestrino senza sapere cosa dirci. Ma appena il treno, dopo essere lentamente uscito dalla stazione, prese velocità, vidi il mio compagno di viaggio entrare in azione: stese la Pravda sul tavolino apribile sotto al finestrino, rimestò nella borsa, ne estrasse un affilato coltello da tasca, un salame che tagliò in fettine sottili, poi uova sode, sale, una bottiglia di vodka, due bicchierini. E dopo averli riempiti, mi invitò a condividere, “davai! davai!”, prego. L’atmosfera era di colpo cambiata. Una gran parte della notte, le otto ore tra Mosca e San Pietroburgo, le passammo mangiando salame e uova, fino a finirli, e bevendo, e conversando, io nel mio minimo russo. Chi ero? Come mai vivevo a Mosca? Era la prima volta che andavo a San Pietroburgo? mentre il bicchierino, non appena vuoto, veniva subito riempito. “Davai! davai!”. Si dice sempre due volte.

Finimmo anche la bottiglia. La notte di quel 20 di giugno del 1997 se ne volò via verso il giorno dopo, il più lungo dell’anno, il solstizio d’estate. Per la prima volta avrei visto una notte bianca, perché a quella latitudine, nel solstizio d’estate, il sole non tramonta mai.

Arrivammo all’alba a San Pietroburgo. Tatiana S., l’interprete, mi aspettava per accompagnarmi al mio incontro ufficiale sull’assistenza ai bambini nella Russia post-sovietica, cui partecipavano diverse agenzie. La giornata prese a scorrere con insopportabile lentezza, in un anfiteatro male illuminato e con un’acustica disgraziata, tra presentazioni e scambi di biglietti da visita e discorsi che seguirono, ufficiali e di militanza, che non finivano mai, e di cui riuscivo a seguire a malapena la traduzione che l’interprete mi sussurrava all’orecchio mentre mi tormentava la mancanza di uno, o due, o anche più caffè neri. E poi i miei pensieri vagavano altrove, fuori da quel luogo. Come stava diventando la luce col trascorrere delle ore? Era quella “opaca, fredda, incolore”, di cui dice Dostoevskij?

Fu come uno choc adrenalinico: le banchine del fiume Neva, con l’incrociatore Aurora, vecchio di centodieci anni, lì ormeggiato, il ponte, la Cattedrale Isaakievsky nello sfondo, tutto il paesaggio era bagnato o piuttosto immerso in una luce lattescente che, tenendomi in uno stato quasi alterato di sbigottimento, non sbiadiva, né sbiadì mai con il passare di quella notte in cui non pensai neppure per un momento di andare a dormire.

Ma un’altra volta era il solstizio di inverno, quando la luce del giorno a quella latitudine dura sì e no quattro ore, e l’oscurità della notte scende già nel primo pomeriggio. Faceva 25 gradi sottozero. Sulla superficie della Neva, fiume ora di ghiaccio, per la spinta delle correnti profonde, in uno spettacolo di bellezza non immaginabile, si levava un caos di lastroni, ammassi, come onde e correnti solidificate. Poteva ricordare il mare in tempesta, come lo vidi una volta traversando lo Ionio tra l’Italia e la Grecia, là un caos di spuma bianca soffiata dal vento, e di onde verdi a causa dei raggi del sole radente dell’alba, qui tutti i colori azzurrati e i riflessi iridescenti che l’acqua gelando può assumere.

Tutta Pietroburgo era ammantata di neve. Completamente coperte di bianco le banchine, i ponti, i palazzi, le chiese, e sotto le luci potenti della città tutto brillava.

[Testo tradotto dall’inglese e adattato da Barbara Fiore]