Accipe coronam

Se la guerra ha per solito un volto terribile, la caccia è duplice: uccide e libera, cattura e rivela.

…noi fuggirem l’imaginata caccia…

Inf. XXIII, 33

Metafora cui fin dallo scoppio dell’epidemia si è fatto ricorso, prima ancora di quella bellica, è quella della caccia, che della guerra è sorella boschiva: e più leggiadra: sorella maggiore, diremo.

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(Quando pensiamo ai grandi saggisti (e tra le gioie della nostra vita c’è quella di conoscerne anche in carne ed ossa) li vediamo come una volpe che cammina sul ghiaccio: saggiandone, zampina qua zampina là, la consistenza, cercando con pazienza e astuzia una linea di passaggio (di necessità sinuosa e zigzagante). Tale ad esempio il movimento di Montaigne: un’inimitabile fissione di lentezza vegetale e scatto angelico sopra una corrente gelida dove chiunque altro si perderebbe. Noi non conosciamo quest’arte: meno prudenti e più pavidi, riusciamo al massimo a tentennare: come camaleonti storditi che dondolano su un ramo cambiando colore il più delle volte senza criterio, armati di una linguaccia appiccicosa cui s’invischierà giusto qualche sgherlo zanzarone. Tale è la nostra caccia. Chi legge perdoni dunque il passo claudicante di quanto segue: nonché gli sbalzi d’umore.)

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Svago per re barbari in tempo di pace, catasterizzata in inseguimenti di mostri celesti da parte di costellazioni antropomorfe, Orione in primis, al suo primordiale insorgere la caccia segnò una trasformazione radicale per la psiche dell’uomo primitivo: il quale da preda iniziò il cammino che lo avrebbe portato ad essere di gran lunga il più formidabile dei predatori.

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Se la guerra ha per solito un volto terribile, la caccia è duplice: uccide e libera, cattura e rivela.

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Fin da prima che si parlasse di epidemia, quando ancora il virus oscillava tra il racconto orientale di fantasmi e la fiaba di piccoli paesini nostrani, il governo e i media lanciarono una “caccia al paziente zero”. Un tantino minaccioso, si converrà: non era meglio dire che questo paziente – che non possiamo fare a meno di immaginarci con una specie di divisa col numero 0 stampigliato sulla schiena, mentre cerca una tana per scampare a questa caccia – che questo paziente lo si stava cercando? Perché parlare di una “caccia”? E quando lo trovi che gli fai? Te lo mangi? Ne appendi il trofeo in salotto? Ne fai un tappeto da safari disneyano, di quelli con le fauci spalancate? E così più recentemente si è parlato di “stanare” i malati invisibili, i temutissimi (e in segreto invidiatissimi) asintomatici… Di nuovo: quando avremo “stanato” un asintomatico che gli faremo? La parola “stanare” ci sa di musi di animali selvatici chiusi in un angolo, che una volta stanati cercano un’ultima difesa con le unghie e con i denti… L’idea di caccia produce cioè un’animalizzazione del cacciato che non può che creare, ancora una volta e tanto per cambiare, distanza tra cittadino e cittadino, tra cittadini e istituzioni.

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La “caccia” però la si è data anche al virus: col che si passa a tutt’altro terreno e ordine di considerazioni. L’idea di dare la caccia a un virus implica l’idea che il virus sia, per quanto impalpabile, un essere vivente: idea tutt’altro che pacifica. Molti anni fa caso volle assistessimo, durante un convegno di biologi in cui c’eravamo imbucati (cherchez la femme…), a un dibattito sull’effettivo statuto di essere vivente dei virus. In realtà, in quanto vagula stringa di DNA o RNA, un virus non si direbbe dotato di vita: non ha organi né organuli, né altre caratteristiche di ogni sia pur minimo essere vivente. Non si nutre di nulla. E tuttavia (questo dice chi lo ritiene un vivente) si moltiplica: muta: evolve. Tornano in mente le prime pagine del Doktor Faustus di Mann, in cui all’allibito narratore bambino viene mostrata una goccia oleosa in sospensione “nutrirsi” di non so più che minuzia. Vive o non vive ciò che compie solo una o poche delle operazioni del vivente? Delle varie posizioni difese in quel convegno noi sposiamo questa: un virus non è un essere vivente, è invece un essere convivente (e di convivenza col virus – non di caccia – parlano oggi anche quegli scienziati e quei politici che ci paiono più lucidi nell’attuale contingenza). Senza niente di vivo a sostenerlo, non si dà virus. Un virus, potremmo dire, è una sorta di aura nera che avvolge il vivente: e anche imprime ad esso vivente, come vedremo, un ritmo.

Per contro, dove c’è la vita c’è, c’è stato e ci sarà sempre un qualche virus: come sa qualunque anche superficiale lettore di Svevo –– e dato che abbiamo già disturbato un paio di scrittori, non possiamo fare a meno di annotare la ridicolaggine di certi paragoni con Boccaccio, Manzoni, piaghe bibliche e varia letteratura e videogiocheria apocalittica da King in giù. Sentendo dire che le sequenze della peste del Decameron o dei Promessi sposi “parlano di noi”, non possiamo fare a meno di chiederci quali edulcoratissime edizioni delle due opere abbia per mano chi venga anche solo sfiorato dall’idea di paragonare la peste con questa epidemia; così come, fuor di letteratura, troviamo raccapriccianti certi paragoni tra questa epidemia e lo stato di guerra: deprimente quanti altri mai quello avanzato recentemente da Arcuri (commissario nazionale all’emergenza), che ha candidamente sostenuto che la seconda guerra mondiale fu meno grave per la Lombardia (che notoriamente fu il fulcro del conflitto) perché le perdite civili sotto i bombardamenti degli Alleati (notoriamente l’unica causa di morte di civili durante la seconda guerra mondiale) furono inferiori a quelle provocate oggi dal virus: definendo tale riferimento numerico «clamoroso»…

In base a riferimenti simmetrici e altrettanto idioti, altri avrebbe potuto sostenere che la guerra fu au contraire molto peggiore, perché i soldati morti per il COVID-19 sono molti di meno di quelli morti in guerra; o che la Shoah è stata meno grave perché i lombardi morti nei campi di concentramento sono meno di quelli morti per l’epidemia… Siamo sbalorditi che nessuno abbia avuto da eccepire di fronte all’ottusità di un discorso che tradisce in Arcuri il più meschino disprezzo per i caduti di ogni catastrofe, epidemia o guerra che sia. Ma la domanda è un’altra. Come mai anche solo ci permettiamo simili considerazioni, quando in questo preciso momento in altri luoghi della terra ci sono davvero guerre e pestilenze letali, ci sono davvero orrendi sacrifici cui le persone sono costrette da tempo immemorabile, ci sono situazioni confronto alle quali morire di polmonite a settant’anni sarebbe né più né meno che un lusso, un sogno? Simili inumane manipolazioni di numeri ci sembrano sintomo di un morboso (e diffuso) desiderio di apparire, almeno per una volta, come l’innocente vittima sacrificale del male del mondo. Non lo siamo. Siamo l’esatto contrario.

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La caccia come inseguimento. Correre dietro a ciò che corre: tra le più pure immagini della caccia. Corre il predatore, corre la preda: ecco la caccia diventare precaria fratellanza tra i due: fino a che l’uccisione non ristabilisca brutalmente la gerarchia dei ruoli.

L’intensa concentrazione di richieste, timori, decreti, certificazioni, denunce che fin dai primi passi di questa epidemia ha circondato la figura del corridore ci è sempre sembrata, in ogni sua più minuta piega, irresistibilmente comica: e, come ogni fatto autenticamente comico, illuminante. Il breve esilarante video con la sequenza di inseguimento di un corridore da parte di un carabiniere lungo una spiaggia ci ha fatto tornare in mente gli inseguimenti dei film muti, o la fuga di Pinocchio dai Carabinieri; con una differenza: è evidentissimo che il carabiniere del video in questione non vuole avvicinarsi troppo al corridore perché ne ha paura… una situazione da cui Chaplin o Keaton avrebbero saputo cavare meraviglie. In realtà, inseguendo il Corridore, il Carabiniere dà la caccia al virus, e sia pure in allegoria: ecco il perché di questa bipolare ossessione per il corridore (da un lato si concede espressamente la corsetta – e non la passeggiata – , dall’altro il corridore viene demonizzato in maniera del tutto irrazionale); egli stesso, cioè il Carabiniere, diventa allegoria: eccolo là il virus, eccolo, il Male, che sgambetta impertinente sulla rena: eccolo finalmente incarnato, ammanettabile alfine: e il Carabiniere corre: un’estasi venatoria che può durare solo finché duri l’inseguimento, perché, quando poi il Corridore fosse raggiunto, il Carabiniere scoprirebbe che tutti e due in realtà stanno scappando dalla stessa Cosa: una Cosa che non corre affatto; e che non per forza è semplicemente il virus…

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Meno appariscente ma più duttile (e seducente) dell’immagine della guerra, la caccia trova ancora nuove forme: è da poco aperta la “caccia agli anticorpi” con cui si spera di accelerare la realizzazione del vaccino: all’interno degli scampati è forse rintanata la Preda più preziosa. Il liberato dal male come terreno ultimo di caccia… Che con questa sempre più interiorizzata caccia Homo sapiens stia oscuramente cercando (con le imbambolate gesticolazioni di scimmione che in ogni tempo hanno preceduto le sue più fondamentali conquiste) un passo ulteriore a quello, antichissimo, rappresentato dal primo momento in cui volgendosi verso un vivente vide una preda?

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E ora deragliamo un po’.

Dalla caccia all’uccisione dell’animale. «Che cosa resterebbe delle nostre tragedie se una bestiola letterata ci presentasse le sue?» così Cioran in un frainteso aforisma dei suoi Sillogismi dell’amarezza. Fraintendimento luminoso. Cioran parlava della vita degli insetti, che giudicava segnata da un grigiore e un’inutilità rispetto alle quali l’orrore di Edipo sarebbe una benvenuta distrazione. Ma succede che un grande scrittore resti tale anche quando viene capito male. Rispetto a quando scriveva Cioran (e saranno anche cambiati i tempi) ci sembra che oggi non avremmo il minimo bisogno di interpellare una bestiola letterata per trovarci circondati di tragedie degne del mondo degli insetti: ci basterebbe guardarci intorno: spesso senza nemmeno il bisogno di uscire di casa: un pullulare di smart-tragedies.

La frase di Cioran di solito è citata dagli animalisti: e allora la spaventosissima tragedia che viene in mente non è più la vita degli insetti ma quella ad esempio degli animali cresciuti in allevamenti intensivi, luoghi atroci per qualsiasi essere vivente.

Oggi la caccia come effettiva forma di sostentamento è qualcosa di raro: e spesso malvisto; da parte nostra riteniamo assai più dignitosa la morte di un animale selvatico che vivendo nel proprio ambiente incappi del più spietato dei predatori, rispetto a quella di miliardi di animali che fin dalla nascita vengono coltivati per lo sterminio in luoghi che alle loro coscienze devono apparire come immotivatissimi inferni.

(Sul fatto che gli animali abbiano una coscienza noi, col Vallortigara di Altre menti, non nutriamo dubbi.)

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Gli insetti. Nelle pagine finali di Spillover Quammen spiega il concetto ecologico di outbreak, “esplosione”: abbiamo un’esplosione quando il numero degli individui di una popolazione inizia ad aumentare in modo esponenziale, finendo per diventare dannoso per un certo habitat. Quammen fa l’esempio di un’outbreak di larve di Malacosoma disstria (un tipo di falena) nel suo quartiere: un’invasione che ha provocato la morte di quasi tutti gli alberi secolari che abbellivano la zona, letteralmente divorati dai bruchi. A interrompere bruscamente l’outbreak è stato un nucleopoliedrovirus che in breve tempo ha decimato la popolazione di Malacosoma. Quammen paragona quei bruchi agli esseri umani, e gli alberi del suo quartiere alla Terra. Da più di un secolo a questa parte, la specie Homo sapiens ha impresso a se stessa, grazie alle proprie forze sanitarie e scientifiche, un’outbreak che l’ha portata ad essere di gran lunga il mammifero di grandi dimensioni più numeroso del pianeta, cui va accompagnato tutto un corteo di animali (in ordine decrescente di grandezza: bovini, suini, ovini, volatili e vario pollame) allevati come scorte di cibo: complessivamente, una biomassa di dimensioni spaventose e in continuo aumento, e che, come è sempre più chiaro, rappresenta una concreta minaccia per la salute del pianeta. Una massa, inoltre, in grado di difendersi dai virus, che sarebbero il naturale corredo e regolatore ritmico per lo sviluppo di specie troppo prolifiche ovvero infestanti come è quella umana (onde non essere fraintesi, soggiungiamo subito che siamo ben felici che Homo sapiens abbia la medicina a renderlo più resistente ai virus, e professiamo il nostro massimo entusiasmo per lo sviluppo della scienza nonché per la sopravvivenza della razza umana).

L’essere umano, proprio in ragione della sua incontenibile febbre espansiva, del suo continuo bisogno di nuovi pascoli per i suoi animali, di nuove risorse energetiche per il proprio armamentario di aggeggi e fabbriche di aggeggi, non farà che continuare a espandersi come il più mostruoso dei parassiti: onde Quammen conclude che proprio perché preda di un’inarrestabile outbreak Homo sapiens sarà sempre più esposto a virus sempre più pericolosi: il virus come un ardore, tanto più intenso quanto più numerosa la specie. Il virus come qualcosa che in ultima istanza siamo noi a provocare.

Quammen si chiede per prima cosa come rendere l’uomo ancora più resistente ai nuovi virus che certo verranno. Anche secondo noi questo è un passo fondamentale: ma riteniamo che prima ancora sia necessario un nuovo tipo di umanesimo, che indichi all’uomo un posto a lato rispetto al centro del cosmo in cui aveva creduto di installarsi, e che gli insegni, unico tra tutti i parassiti, a limitare la propria espansione prima che nuove malattie lo devastino; a smettere di essere, lui stesso, la più grande devastazione. Occorre un umanesimo che insegni all’uomo che ormai essere la misura di tutte le cose coincide con l’essere il Male; che i libri sulla peste bubbonica o le piaghe d’Egitto, le varie apocalissi assortite, “parlano di noi” non perché anche noi ora siamo colpiti da una consimile piaga (non è così), ma perché da troppo tempo siamo noi umani la piaga che più di ogni altra affligge gli abitanti della Terra; che la grandezza dell’essere umano sta nella sua capacità di immaginarsi e trasformarsi: non in quella di essere un tiranno di mondi.

Questa necessità di cambiamento è indubitabile per quanto riguarda gli animali e le risorse del pianeta ma, fatto che dovrebbe toglierci il sonno la notte, lo è anche per quanto riguarda altri nostri simili: intendiamo l’immenso corpo di sfruttati del quale noi ci nutriamo, quotidianamente, da secoli. Un corpo che ci è sempre più prossimo, ma alle cui sofferenze persistiamo a essere indifferenti.

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Quando è stata annunciata la chiusura di Milano, centinaia di persone impaurite sono fuggite per raggiungere le loro famiglie lontane: e parliamo di un virus decisamente meno grave di altri che anche oggi imperversano lontano da noi. Ora che abbiamo avuto un assaggino di quello che può essere il male naturale, e abbiamo toccato con mano quanto la paura possa avere il sopravvento, saremo più compassionevoli nei confronti di chi fugge da flagelli infinitamente peggiori? Cercheremo almeno di ridurre il nostro peso sulle spalle di tutti quelli della cui carne da tempo immemorabile ci stiamo nutrendo, e che da decenni affrontano, anche e soprattutto per noi, sofferenze infernali?

Troviamo sconcertanti le parole del virologo Galli riguardo le possibili ragioni del basso numero di decessi nelle nazioni di quello che chiamano quarto mondo. Ci sconcerta che un virologo ritenga degna di attenzione l’ipotesi che un virus in grado di infettare esseri umani, pipistrelli, pangolini, tigri e chissà che altro diventi tutto di colpo schizzinoso riguardo intere etnie (“ipotesi” che peraltro si può smontare in tre secondi). È solo un’idea, ma potrebbe essere, invece, che nei continenti più poveri come ad esempio l’Africa (guarda caso la parte del mondo che nel corso del tempo abbiamo più spietatamente spremuto) i morti siano pochi anche perché l’aspettativa di vita si aggira, per la gran parte degli stati, poco sopra 60 anni (e in ben 12 è sotto i 60). Ovvero, ci sono luoghi in cui il COVID-19 è sì un problema serio: ma è uno tra i tanti problemi, e nemmeno il più grave. C’è chi non muore di COVID-19 perché non ne ha la fortuna: solo noi privilegiati raggiungiamo l’età più a rischio; ci sono paesi dove si muore piuttosto di inedia (3 milioni di bambini ogni anno), dissenteria (700.000 persone ogni anno), AIDS (nel 2018 470.000 vittime in Africa), malaria (400.000 morti ogni anno, il 90% dei quali in Africa), guerre, sfruttamento e mille altri mali confronto ai quali questo nostro è poco più di un pizzicottone sul popò da parte di quella mattacchiona di Madre Natura. Siamo talmente inebetiti dal terrore e dalla momentanea sospensione di alcuni dei nostri agi, che non riusciamo nemmeno più a concepire che altrove esistano altre e ben più tremende minacce di morte. Preferiamo dire, “Mah, forse i neri sono immuni”: una cosa francamente nauseante.

Sentiamo ripetere che a causa di questa epidemia la nostra vita “cambierà per sempre”. Nelle ore più buie, la nostra sensazione è che questo grande cambiamento consisterà soltanto in nuove misure di sicurezza per noi, perché il nostro modo di vivere continui a restare in piedi: questo almeno ci dicono cose come i gabbiotti in plexiglas proposti per risolvere il dilemma sempre più impellente delle vacanze estive. Sarà questo il grande cambiamento? Nient’altro che un rendere ancora più sicuro e impenetrabile il recinto delle nostre porcilaie?

Come ha scritto McCarthy in The Counselor, “Niente è più crudele di un vigliacco”.

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Come si evince (leggendo un po’ tra le righe) da un recente intervento di Inglese, dentro il cerchio incantato del nostro sistema economico non ci è più nemmeno possibile fare del bene senza che qualcun altro debba pagare per noi un prezzo altissimo per quest’atto di bontà. Ad esempio, l’anestesia locale cui abbiamo sottoposto il nostro capitalismo per proteggere le persone più a rischio è un’anestesia che ci peserà nel futuro: ed è un prezzo che siamo disposti a pagare: ma quello stesso prezzo sta già schiacciando in modo orribile e intollerabile milioni di persone dall’altra parte del pianeta (Inglese cita in proposito un articolo di Orecchio). I miliardi che ora scorrono attraverso l’Europa sono, inutile dirlo, miliardi che qualcuno prima o poi dovrà pagare: che anzi sta già pagando: lontano dagli occhi di noi europei. Come accade ormai talmente di frequente che nemmeno più ce ne accorgiamo, il prezzo delle nostre nobili azioni viene pagato mettendo per prima sulla bilancia la carne degli oppressi.

Perciò non condividiamo il conforto che Inglese prova di fronte alle scelte del nostro Paese in merito all’emergenza: non ci consola sapere che in fondo al nostro cuoricino di grigi esecutori del consumismo è custodita una fiamma umana. Lungo gli anni noi italiani abbiamo eroso il nostro stato sociale: nel nome dell’economia. Non troviamo granché rincuorante il fatto che oggi una sanità mutilata tenti disperatamente di salvare il salvabile. Lo troviamo ammirevole, ma triste. Mettere di quando in quando alcuni esseri umani davanti all’interesse economico è, quanto a gesti di umanità, il minimo sindacale: ma per tutto il resto del tempo la nostra società non fa che affondare gli artigli nel corpo dei soccombenti di ogni dove.

Forse anche noi siamo un male naturale. Quale sarà il nostro tasso di letalità? Di quanti sacrifici umani si nutre la nostra società per poter continuare a essere tale? Né in fondo occorre andare tanto lontano: per accorgerci di quanto il nostro mondo sia rapace e famelico verso gli indifesi e i deboli è sufficiente uscire di casa e aprire appena un pochino gli occhi.

Ancora una volta, non ci si fraintenda: stiamo seguendo diligentemente le direttive del governo, e siamo grati con tutto il cuore a quello che stanno facendo infermieri, medici e scienziati; siamo davvero tristissimi per le persone che stanno morendo a poca distanza da noi, e comprendiamo la paura e l’allarme nei confronti di questa epidemia. Non stiamo dicendo che dato che il mondo è un inferno non dobbiamo cercare di salvare chi ci è vicino. Stiamo solo dicendo: se il mondo è un inferno, non è più decente ormai dimenticare, nemmeno per un secondo, sotto nessuna circostanza, che di questo inferno noi siamo da tempo tra i più efficienti funzionari.

Se stiamo davvero cercando delle piaghe di dimensioni bibliche, dobbiamo trovare una buona volta il coraggio di guardarci allo specchio: come nel quadro stregato di Dorian Gray, vedremo finalmente il mostro, questo sì davvero spaventoso, che siamo diventati.

Siamo la strage degli innocenti. Siamo le cavallette e siamo la pioggia di sangue.

Diventarne consapevoli è il primo passo verso una sempre più urgente metamorfosi del Cacciatore.