Dante è stato il più maestoso scultore di forme letterarie in movimento della nostra storia. In particolare i suoi esseri volanti, ipnotici o aggressivi, buoni soprattutto per la a spirale (come l’ibrido Gerione, nuotatore d’aria) e il precipizio (gli angeli del Purgatorio che piombano come aerei da caccia sul serpente o Lucifero che vien giù dai cieli al centro della Terra), si dimostrano sempre poderosi. Visioni dal tratteggio realistico. Quando invece il poeta dalla corpolentissima fantasia si deve ridurre agli uccelli in carne e ossa e non per similitudine, gli esce un giardino. Ci troviamo infatti nel Paradiso terrestre (Purg., XXVIII, vv. 7-21) dove matura la vegetazione e la fauna alata di un locus amoenus plurisecolare:
Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi ferìa per la fronte
non di più colpo che soave vento,
per cui le fronde, tremolando pronte,
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che gli augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogni lor arte;
ma con piena letizia l’òre prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,
quand’Eolo Scirocco fuor discioglie.
La suprema grazia dell’ambiente s’arricchisce del canto, “arte” degli uccelli, che s’intona con la brezza, del loro movimento “di ramo in ramo”, infine della “piena letizia”. Eppure, come dire, abituati alle arcate corporali dei volatori, ci sentiamo quasi in imbarazzo, come di fronte ad un modellino in scala perfetto quanto fragile. Un balocco sì lietamente fanciullesco ma assai addomesticato: lo spazio s’è ristretto, il moto educato alle buone maniere. Insomma si fa avanti la scuola, già si preparano i fondali petrarcheschi che fino a Tasso tutti i poeti non faranno che copiare ed impolverare senza sosta, sempre più dissanguati. Ci occorre allora il secondo sommo poeta italiano per rivitalizzare i nostri amici pennuti: “Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo. Non dico ciò in quanto se tu li vedi o gli odi, sempre ti rallegrano; ma intendo di essi medesimi in sé, volendo dire che sentono giocondità e letizia più che alcuno altro animale […] gli uccelli per lo più si dimostrano nei moti e nell’aspetto lietissimi; e non da altro procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per natura dinotano abilità e disposizione speciale a provare godimento e gioia: la quale apparenza non è da riputare vana e ingannevole”.
Così dunque il Leopardi delle Operette morali, nel travestimento del filosofo Amelio che un mattino, distratto dagli uccelli mentre sta compulsando, si pensa, ponderosi volumi, prende la penna e comincia a tracciarne l’elogio. Gli uccelli posseggono un’intrinseca letizia che a noi umani per un poco si trasmette. Essi la esprimono con “atti” e “forme”. L’atto principale su cui Leopardi si sofferma dopo questa introduzione che isola gli uccelli dalle altre specie animali, più serie, gravi e qualche volta malinconiche, è naturalmente il canto. Questo è una sorta di “riso che l’uccello fa quando egli si sente star bene e piacevolmente” e che viene tanto più valorizzato quanto s’irradia a pioggia dall’alto, come a cercare il maggior pubblico possibile, espandendosi negli spazi.
Appena prima il poeta della Quiete dopo la tempesta aveva sottolineato la maniera che gli uccelli hanno di tornar fuori al termine dell’acquazzone “cantando e giocolando gli uni con gli altri”, riaffermando quindi la stretta relazione tra il canto e il volo. Esseri sociali della gioia espansa con tutto il corpo leggero e vibrante per l’aria. Sappiamo bene che Leopardi più volte riflette angustiato sulla noia e consiglia il diversivo dell’azione e del viaggio; ebbene gli uccelli sono i supremi esempi dell’esotismo e della migrazione (“Passano da paese a paese quanto tu vuoi lontano in poco spazio di tempo e con facilità mirabile”), del transito verticale “dall’infima alla somma parte dell’aria”, dell’andare “per solo diporto” anche se sostanzialmente stanziali. Afferrati da un indiavolato morbino, quasi che la fragile struttura non potesse contenere il prorompente sentire, “nel piccolo tempo che soprasseggono in un luogo, tu non li vedi mai stare fermi della persona; sempre si volgono qua e là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si crollano, si dimenano; con quella vispezza, quell’agilità, quella prestezza di moti indicibile”.
Ciò li accomuna, secondo chiara intuizione poetica, ai bambini piccoli che gridano insieme, schiamazzano di gioia per ogni anche futile occasione, spensierati e spensieranti, si inseguono creando coreografie sempre nuove fin quando s’abbattono sfiniti dal gioco con il cascare del sole. Concrezioni di suono ed energia fanciullesca, gli uccelli spingono il pensatore sensista a un desiderio finale d’immedesimazione con il loro massimo di vita e perciò di perfezione: “Per le quali considerazioni parrebbe si potesse affermare, che naturalmente lo stato ordinario degli altri animali, compresovi ancora gli uomini, si è la quiete; degli uccelli, il moto”. Non certo però l’ipnotico e solitario roteare del “falco alto levato”, per citare Montale, pronto al precipizio, come l’aquila metafisica e regale di Manganelli ne Gli dei ulteriori. Qui stiamo dentro al gruppo canoro e anarchico delle traiettorie. Quando anni fa mi trovavo pancia in su in cresta al monte Spinale verso Vallesinella, venni letteralmente stregato e portato fuor di me da un volo basso e insistito di rondini poco sopra il mio capo: saettavano orizzontali a rischio di scontrarsi, sempre garrendo sparivano in curve lontane, tornavano poi più alte o più sotto di prima, e così e così in un tempo infinito saturando acrobatiche il campo visivo. L’anno dopo tornai apposta nel medesimo punto, che m’aveva così ben delucidato la relazione leopardiana su “atti” e “forme” degli uccelli, rivivendo la medesima esperienza. Una forma che bisogna in definitiva chiamare di tessuto. Portavano nel becco fili neri, quelle folli rondini, che restavano sospesi dritti, curvi, intrecciati nel cielo formando un mobilissimo intrico.
Lo stormo pare disegnare con più meditata pennellata, forse creando geometrie zodiacali, oppure originarie, che da sempre hanno stimolato gli auspici. Queste poche esibivano invece un furore confuso, vitale ed espressionista tale da rendere in breve il cielo gremito di linee sonore, come fosse un’immensa e grondante tela di Pollock. Sempre che anch’esse, lo si diceva prima, non cucissero insieme, con rapsodia da macchina meccanica sbullonata, un evidente arazzo colorato e comprensibile soltanto da una mente superiore e divina.
Altri due poeti nella tradizione italiana hanno seguito Leopardi nella desolata ideologia e nella passione per gli uccelli. Il primo è Giovanni Pascoli, che popola di una folta e varia rappresentanza i canti di Myricae. Non sempre però la loro presenza è lieta; talvolta suona anzi malinconica come il passero solitario o addirittura pare un “singulto”, un “pianto di morte” nel caso dell’assiuolo che fa risuonare la vuota notte di luna del suo iterato “chiù”. Non si potrà poi dimenticare tutta la mitologia del nido, che sembrerebbe mortificare le mie care rondini a orfani straziati e pigolanti (X Agosto). Il nido penzola da un “rosaio scheletrito” d’autunno, resecato da polpa e canti somiglia ormai a un arido guscio, simbolo di emigrazione, sbandamento, eco d’infanzia perduta. E però anche in Pascoli è possibile riafferrare un brandello dell’antico tessuto uccelli-moto-felicità ridente-fanciullezza: un breve inserto di Con gli angioli (vv. 5-6), dove compare una cucitrice giovinetta, e assai leopardiana nelle speranze, che senza motivo apparente si distoglie dal lavoro, alza il capo sorridendo con un intimo traboccare di vita paga di se stessa: “quand’ella rise; rise, o rondinelle nere, improvvisa: ma con chi? Di cosa?”
Poi, più discreto e sofisticato, verrà il già ricordato Montale. Non di rado tra Le occasioni e La bufera Clizia, oltre che divenire il girasole dispensatore di luce, stanca e ferita assume fattezze di essere volante che reca barlumi di salvazione o ultimi messaggi, cupi riscontri della storia. Qui ci limiteremo a seguire il volo più umile delle rondini, accostato per contrasto alla donna:
Il saliscendi bianco e nero dei
balestrucci dal palo
del telegrafo al mare
non conforta i tuoi crucci su lo scalo
né ti riporta dove più non sei
Il mottetto restituisce il volenteroso movimento di questi passeriformi minori a distrarre dal male. Il tessuto però pare un po’ slabbrato, non cattura l’occhio, al modo di uno spettacolo inane di destrezza e di composizione resta senza addentellati con la realtà della sofferenza e dell’espatrio. La forma della letteratura che dice razionalmente (e leopardianamente) il vero divorzia da quella naturale; nel momento in cui ricrea il tessuto non crede più al suo splendore, vira a seppia, in un bianco e nero esistenzialista. In tal modo, nel lockdown di primavera, gli umani osservavano dalla finestra le carambole dei nuovi padroni del mondo.
E allora ci sentiamo di spingere a fondo la cattività. Per esprimersi nel tessuto ci vuole socialità, infanzia, gioco, spinta, letizia immaginativa, rapidità, ma il presupposto non specificato consiste nell’essere liberi. Già il giardino, per quanto aggraziato, comincia la prigione ci disse il barone Cosimo Piovasco di Rondò, campione di movimento tra gli alberi e quasi essere volante che, ormai vecchio, scompare nei cieli spiccando l’ultimo balzo ed afferrando una mongolfiera di passaggio. La forma letteraria che si fa stereotipo si raggrinza presto vecchia, simile a una bella conchiglia non è più abitata da viventi. Quanto si trasmette per la sola via del significante ricorda il museo dove diecimila minerali stanno sotto teche di vetro e se ne può ammirare la minima differente sfaccettatura per interminabili ore finché, caduti al suolo, noi stessi non si venga imbalsamati ed esposti in altra sala.
Dicevamo di rendere estrema la cattività per svelare il pericolo d’una forma sclerotizzata. Meglio tornare infatti a confrontarsi con la realtà, magari anche atroce, per rompere carapaci costrittivi e riprendere il volo. Anche le negazioni, quando esplicite e ben delineate, possono, con il rinculo dello shock, riattivare la circolazione dell’elemento originario. In Perturbamento l’io narrante compie una serie di visite nelle infernali valli austriache così tipiche della rappresentazione di Bernhard. Presso un mulino si trova una grande gabbia con all’interno una cinquantina di uccelli. Spira un’aria sinistra dovuta alla mancanza di mangime e di acqua, al terrore degli uccelli che, all’arrivo del visitatore, si lanciano contro il muro di fondo della gabbia: “Due pappagalli gridavano insieme sempre la stessa cosa. Non riuscii a capire che cosa gridassero. Scoprii che c’era un tubo di gomma collegato alla fontana davanti alla gabbia e riempii d’acqua la tinozza, sulla quale si precipitarono immediatamente tutti gli uccelli. Eppure, tutto in loro aveva un che di ostile. Ostile in che senso? Pensai. Anche il loro piumaggio era ostile, perfino i colori, che variavano continuamente secondo il nervosismo degli uccelli. Solo un pazzo poteva aver messo su questo allevamento di uccelli, pensai, e ne era morto. Il figlio del mugnaio spiega che lo zio aveva via via riempito, da vent’anni in qua, la grande voliera, dedicandosi interamente ad essa; alla sua morte “erano cominciate le terribili strida degli uccelli”, sempre crescenti e tali da fare ammattire tutta la famiglia. Allora ne era conseguita la mattanza.
Queste pagine rappresentano un catalogo di ciò che di male può accadere a una forma, specie ad una vitale e inconsapevole come quella del tessuto. La privazione della libertà è naturalmente il peccato originale. Il collezionista che accozza maniaco le specie più diverse non può del resto non concepire una varia galleria di forme: collezione e addomesticamento si saldano fatalmente a tenaglia. Sotto tale pressione la forma, che mantiene ancora una scintilla della ribellione volatile, si snatura trasformando il lieto canto in strida spaventose, il creativo sviluppo delle traiettorie in una rissa scomposta di penne sbatacchianti contro le sbarre. Il sussulto dei condannati non viene però tollerato dagli sbigottiti delibatori delle quiete perfezioni e passano quindi al massacro. Gli uccelli restano tuttavia sempre meravigliosi e perciò vanno uccisi senza rovinarli, per poterli imbalsamare, impagliare ed allestire così un museo in uno stanzone del mulino: “Il figlio del mugnaio prendeva in mano ora l’uno ora l’altro di quegli uccelli bellissimi e lo teneva alzato in modo tale che lo potessimo osservare bene, poi ne descriveva le caratteristiche peculiari”. A completare la serie degli orrori perpetrati sulla forma interviene dunque la vocazione didattica ed enciclopedica. Nonché, si presume, il pensiero di poterci fare su qualche soldo, perché niente di meglio di una forma sgargiante ed esotica, perfetta quanto rigida, spiegata e stereotipa, per vendere della letteratura a un pubblico largo. Il narratore si allontana rapido a causa del tanfo dei cadaveri.
Rimettiamo ora in fila il nostro sommario schizzo sulla forma del tessuto. Dante inventa la beatitudine paradisiaca del verziere che Petrarca stilizza e i suoi imitatori ereditano restringendo sempre di più a tappetino volante e sonoro. La sensibilità settecentesca e romantica di Leopardi per il movimento muscolare, zuccherino e librato nell’infinito restituisce soffio di vita, anzi la sbriglia più che mai, alla forma anchilosata. Pascoli conferisce nuove tinte crepuscolari, la letteratura del Novecento, secolo del disincanto e di orrori totalitari, amplia la distanza con Montale e mostra l’intolleranza oscena, sadica ed anale per questa forma della libertà. Solo l’arte popolare la recupera con una buona dose di ingenuità e di talento: Nel blu dipinto di blu, per esempio, dà fiato alla spinta universale di “volare oh oh”. Viene ripreso il crogiolarsi panico delle rondini nel cielo, tanto da sporcarsi faccia e dita di blu come in un’onirica opera di body art. Il colore fa un po’ sfondo di Chagall, con bambini, uomini e mucche a illeggiadrirsi, trapanare l’aria, rotolarsi dentro e ruzzare fuor di se stessi come in un barile di mosto.
In quei villaggi russi in effetti si suona il violino e lo straccione in viaggio potrebbe essere pure il cantafavole o il santo ortodosso. Per restituire infine un po’ di speranza e di letizia alla nostra forma del tessuto bisogna chiudere il cerchio e tornare indietro. Ai fraticelli volanti del Medioevo o a quel Miracolo del Tintoretto e di San Marco che capriola nel cielo tra vesti rosate e un mantello che s’apre come un fiore zafferano nell’aria sopra la folla. Siamo ancora nella matta santità dei fanciulli, nella bambinesca follia di certi santi e, così ancora più indietro recuperando, ritroviamo nell’Odissea (V, v.50 sg.) la compagnia di Ermes creatore precocissimo di strumenti e volatore compiaciuto. Qui il corpo libero, disincarnato e divino, di cui oggi continuiamo a sentire la mancanza:
Trascorreva sulla Pieria, piombò giù dal puro sereno del cielo sopra il mare, e si lanciò poi sulle onde. Era simile a un gabbiano, l’uccello che dà la caccia ai pesci nei golfi paurosi dello sterile mare e bagna le folte ali nell’acqua salata. In quell’aspetto viaggiava Ermes su molte onde.
* I disegni che illustrano questo testo sono di Roberto Papetti, giocattolaio e fantasista, e fanno parte della serie “Dante infante”, in via di stampa su tela antica presso la stamperia Pascucci. Il salterello fa parte di una serie di 20.