«Smettere di lavorare per gli uomini»?

Viviamo in un’epoca di sovrapproduzione sconsiderata, inutile, superflua. Perché, dunque, dedicarsi all’arte che, dall’alba dei tempi, rappresenta ciò che di più sconsiderato e superfluo esiste, dato che siamo già immersi in un mondo pieno di piaceri inutili?

1. Sono molto legato a Ray Bradbury (1920-2012), l’autore di Fahrenheit 451 (1953). Le sue Cronache marziane (1950) è uno dei primi libri che ho letto. Avevo nove anni. Ricordo molto bene la breve epigrafe: «È una bella cosa riscoprire la meraviglia, diceva il filosofo. La tecnica ci fa ritornare all’infanzia». Bradbury non voleva dire che nel futuro le macchine sarebbero state adorate da un mondo infantocratico. Ci suggeriva di custodire, di fronte al mondo delle macchine, il più antico dei segreti. Quanto a lui, non prendeva l’aereo, non ha mai avuto un cellulare e non si fidava neppure dei pattini a rotelle. Negli ultimi anni della sua vita si era convinto che l’umanità stava per edificare un futuro che egli aveva cercato di esorcizzare attraverso sessant’anni di lavoro letterario. Temeva un avvenire in cui tutto sarebbe stato controllato dai ritmi serrati che programmi e software avrebbero imposto a un’umanità che, avendo confuso la meraviglia con l’estasi, sarebbe stata costretta a rispettare per non essere distrutta o marginalizzata. Bradbury non voleva descrivere nei suoi romanzi di fantascienza il futuro del pianeta. Cercava di prevenirlo. Già negli anni Sessanta del XX secolo, si era accorto che si era disimparato a imparare: «Non si riesce più a insegnare ai bambini a leggere e ci si sta allontanando sempre più dall’esercizio di un pensiero critico».

2. Del resto, perché «esercitare un pensiero critico», se c’è gente che conosce i nostri gusti meglio di noi? Ogni giorno riceviamo nei nostri computer suggestioni su qualcosa che non sapevamo neppure di desiderare; si correggono i nostri bisogni in relazione a stimoli programmati secondo scelte che non sapevamo di avere fatto e ci lasciamo influenzare da tendenze create da queste stesse scelte involontarie. Viviamo in un’epoca di sovrapproduzione sconsiderata, inutile, superflua. Perché, dunque, dedicarsi all’arte che, dall’alba dei tempi, rappresenta ciò che di più sconsiderato e superfluo esiste, dato che siamo già immersi in un mondo pieno di piaceri inutili?

Qualche tempo fa ho letto che un certo Philip M. Parker, professore di scienza del marketing all’INSEAD, una scuola internazionale di business, e fondatore dell’Icon Group International, era l’autore più pubblicato della storia dell’umanità. All’inizio del 2019 i libri che portavano il suo nome erano circa settecentomila (di cui centomila disponibile su Amazon). La maggior parte sono dizionari o volumi molto specialistici, come Il mercato mondiale dei preservativi in caucciù, La sindrome di Ellis van Creveld, Il manuale officiale per l’autodiagnosi dell’acne rosaceo… Questi libri non sono generati da un semplice software, ma da un vero sistema di intelligenza artificiale concepito per scrivere su temi ad hoc. Il data-base del sistema è completo di contenuti e modelli che mirano a riflettere le conoscenze generali già fornite da un esperto. Allo scopo di non violare i diritti d’autore, il sistema è costruito in modo da evitare ogni forma di plagio. «Il sistema – affirma Philip M. Parker – aspira a creare opere originali che non devono per forza essere creative». In altre parole, qualsiasi contenuto può essere ridotto a una formula con cui si possono confezionare contenuti differenti all’infinito. Insomma, Parker ha concepito un algoritmo che simula il processo mentale che un esperto deve compiere per scrivere su qualsiasi soggetto. Grazie a questo sistema, Parker può produrre un libro ogni venti minuti a un costo variabile tra 0,20 e 0,50 dollari. In termini economici si tratta di un passo in avanti senza precedenti. E se si considera che i libri di Parker non esistono finché non sono prenotati, quel che si realizza ogni volta è il cento per cento di profitto con uno sforzo di produzione che sfiora lo zero.

3. «Che tipo di libri lancerà prossimamente?», gli hanno chiesto un anno fa. Parker non ha esitato: «Romanzi. Sa, anche se un romanzo è un lavoro di finzione, è noto che i romanzi rosa o i polizieschi si prestano a essere matematizzati. Sapeva che il mercato mondiale dei romanzi rosa da solo possiede una cifra d’affari di circa un miliardo e mezzo di dollari?».

Mr Parker, forse, ha ragione. La stragrande maggioranza dei romanzi è ormai così stereotipata che gli editors delle case editrici suggeriscono agli scrittori potenziali in quale modo scriverli. Sono tentati di trovare le stesse formule, gli stessi tipi, gli stessi colpi di scena in romanzi di genere diverso. Una storia d’amore, quindi, se si sistemano un po’ le sue componenti, si può trasformare, senza che il lettore se ne accorga, in un poliziesco. E viceversa. Penso al diagramma di Venn (Mr Parker lo ha sicuramente preso in considerazione): più i generi si incrociano tra loro, più è probabile che i modelli ricorrenti possano essere meglio osservati.

Penso anche al teorema di Borel-Cantelli che la figlia di un’amica, una studentessa alla facoltà di matematica e scacchista fatta e finita, mi ha spiegato qualche giorno fa dopo aver vinto in sette mosse la sua terza partita. «Nella teoria delle probabilità, se n eventi in serie hanno delle probabilità di essere addizionati, allora è quasi certo che il loro numero sarà finito. Se, al contrario, gli eventi sono autonomi (e perciò non addizionabili), è quasi certo che il loro numero sarà infinito». La mia traduzione è la seguente: un macaco che gioca sulla tastiera di un computer per un tempo indeterminato arriverà prima o poi a scrivere un’opera degna del Don Chisciotte. Se, al contrario, invece di un macaco piazziamo un programma algoritmico per un tempo indeterminato allo scopo di ottenere il miglior risultato con il minimo sforzo, allora si scriveranno libri solo alla maniera di Mr Parker. Il macaco, come ogni altro uomo, sarà vittima del caso, della noia, della distrazione, del desiderio di saltare da un tasto all’altro, di provare un po’ di piacere; insomma, sarà dotato di un minimo di slancio creatore. Forse, come il maestro Joseph Conrad, potrà perfino guardare a lungo dalla finestra, informando (a suo modo) sua moglie macaco che quell’attività è una parte fondamentale del suo lavoro. Purtroppo, l’algortimo di Mr Parker non può prevedere l’imprevedibile. È governato, almeno per il momento, da una forma di ragione talmente limitata e ottusa che non può neppure rifarsi agli istinti animali.

4. Tutto quel che gli europei e gli americani aspirano a realizzare, i giapponesi lo hanno già fatto. Forse a causa della loro maggior disposizione, completamente infantile, a meravigliarsi di fronte ai prodigi della tecnica.

Circa tre anni fa un romanzo di fantascienza scritto al computer ha passato la selezione di un concorso letterario, il premio Hoshi Shinichi. Questo premio ha una particolarità: è aperto alle opere degli esseri umani, ma anche a quelle composte da intelligenze artificiali, da extraterrestri e da animali. L’unica regola da rispettare è che le opere siano scritte in giapponese.

Il quotidiano Japan News ha pubblicato un breve estratto del romanzo realizzato da un’equipe della Future University Hakodate, diretta dal professor Hitoshi Matsubara, che lavora alla riproduzione artificiale delle attività creative del cervello umano. Il romanzo si intitola: Il giorno in cui un computer ha scritto un romanzo.

Eccone la mia traduzione umana: «Mi contorco dalla gioia sperimentando per la prima volta la scrittura. Sono eccitato e a causa dell’eccitazione non riesco a fermarmi. Oggi è il giorno in cui un computer ha scritto un romanzo. Accordando la priorità alla ricerca della mia gioia, ho smesso di lavorare per gli esseri umani».

Soltanto dopo aver riletto queste parole ho compreso quel che gli uomini desiderano per mezzo delle loro macchine: la pura gioia di non possedere un corpo, la pura gioia di vivere che solo un algoritmo, con tutta la sua rapidità e con tutta la sua leggerezza matematiche, può sentire e che noi, uomini e donne di questo pianeta, non potremo mai sperimentare fino in fondo. Ora tutto è chiaro: se, fino ancora a qualche tempo fa, l’arte poteva renderci immortali, oggi non ci resta che diventare noi stessi immortali. In altre parole, «smettere di lavorare per gli uomini»…