Presiden arsitek/ 1

In esclusiva per Zibaldoni, dall’autore di In cuniculum, la prima puntata di un romanzo fiume in cui miriadi di storie vorticano intorno ad un unico antichissimo tema: la lotta contro un Mostro condannato a vivere in eterno.

di in: Presiden arsitek

a Simona Carretta

“C’era una volta un re.”

Tutti i venerdì, faccio la mia visita a Gianni Sherwood. Io e gli altri del personale non sappiamo perché si faccia chiamare in quel modo, né quale sia il suo vero nome (che si chiami veramente Gianni Sherwood, è per tutti noi un’ipotesi semplicemente ridicola); tempo fa, a carnevale, gli abbiamo fatto vedere un costume da Robin Hood, ma lui non ha battuto ciglio, limitandosi a palpare il tessuto verde con aria distaccata, come un ricco mercante di stoffe.

Quello che devo fare, durante la mia visita, è ascoltare le storie di Gianni Sherwood, nelle quali è stata individuata l’origine della sua malattia. Lui sembra divertito dal mio compito; non so se lo diverta il fatto di avere un ascoltatore o il fatto che io sia costretto ad ascoltarlo; non so se il suo tono, il tono del malato mentale, abbia o no un che di gratitudine o invece di derisione quando mi saluta da lontano, nei giardini o nella sala “Ri-creazione & Con-divisione”, o quando all’improvviso mi si attacca dietro le spalle, in fila alla mensa per esempio, o sulle scale, e mi grida o mi bisbiglia il suo saluto speciale per me, per ricordarmi il mio compito, e nel quale sto incominciando a riconoscere, oltre la malattia, la gratitudine e la derisione, oltre la mia costrizione e la mia paura, a riconoscere dico la spada o il pugnale o il coltellaccio della sua rivolta, anzi di tutte le rivolte:

“C’era una volta un re.”

***

I ricci vivevano nel vomito bianco. Erano molto numerosi e altri ne stavano arrivando, attirati da quella specie di fango latteo e molliccio. Non mandava un cattivo odore. All’inizio si pensava che l’uomo costretto a sputare tutta quella roba sarebbe morto o che ne sarebbe rimasto nient’altro che un involucro di pelle come un guanto di tutto il corpo, soltanto con qualche taglio laterale apertosi quando tutta quella roba bianca gli era uscita dal corpo. Forse, pensò il ragazzo, la lotta e il vomito erano solo simbolici, tanto più che il vomito non mandava nessun odore, e il corpo dei due lottatori si era deformato in una maniera del tutto inverosimile (si erano deformati, è ovvio che il giovane intendeva dire si erano deformati) mentre ora, sebbene fosse comprensibilmente provato, sembrava tornato in sé, perlomeno fisicamente.–

Quando il ragazzo si svegliò, il presidente era già lì. Lo guardava come se fosse perfettamente conscio dei ricci, del vomito bianco e della vittima del vomito bianco, come se fosse uscito dallo stesso posto (o dovresti dire reame?) da cui erano uscite quelle cose.

***

“Sarà la quinta volta che mi telefona… No… No… Guarda, no… Dice… Sì ho capito, ho capito, no… Dice… Continua a dire che gli si stanno incollando le ginocchia, che è ore che è lì nella sala d’attesa di un pronto soccorso e nessuno gli ha ancora chiesto come sta… No… No, non è andato per sé… Appunto, quello che gli ho detto anch’io, uno mica entra in pronto soccorso e subito tutti gli infermieri vengono lì a controllargli… A controllargli… Ecco, a fargli una radiografia alle ginocchia per vedere se si sono incollate, figurarsi poi, mi si stanno incollando le ginocchia, ma che cazzo sarebbe mi si stanno incollando le ginocchia… No, no… No, guarda, non puoi… no… no, infatti, anch’io ho provato, lui… ecco, appunto, ma non si riesce proprio… lui guarda è il Mozart… è il Mozart del non capire un beato cazzo… No… no… No,  io adesso sono in treno, ti richiamo quando arrivo lì…”.

***

Quando si svegliò, il presidente era già lì.

***

Quando mi sono svegliato, il presidente era già lì. Avrei sognato molte volte, in seguito, quel primo incontro, talmente tante volte che ormai non mi è rimasta più una sola immagine sulla cui autenticità io possa giurare. Ogni volta c’era una nuova variante allucinatoria (non era in treno, non era un presidente, io ero una donna, io ero un bambino, un vecchio, un insetto spiaccicato sotto i tacchi di un passeggero) ma sempre, in tutti i sogni, il presidente mi rivolgeva cioè mi rivolge la domanda che mi rivolse anche quella volta: “Anche lei è diretto a Venezia?” È come nella filologia, forse dovrei prendere tutti i ricordi e tutti i sogni e tutte le certezze e confrontarle tra loro, valutare il grado di certezza e verità in base a vari parametri: lo stile, per esempio. Lo stile. E lo stile che almeno non sia umano, perché quello che è umano non si può accettare senza combattere, e forse non si può accettare mai del tutto. Per questo esiste la filologia, per non accettare niente che sia umano, ovvero per non accettarlo del tutto. Dovrò confrontare lo stile dei miei sogni ricordi e certezze con lo stile della realtà che mi circonda, alla ricerca di sfasature, smagliature, costanti stilistiche, alla ricerca e alla caccia (ma cosa succederà se sarà poi la realtà a mostrare smagliature e sfasature con se stessa? la realtà è sempre uguale a se stessa ma non è mai uguale per tutti, direbbe il presidente con la sua bavosa risata di donnina giapponese, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!). Se l’universo esiste da sempre ed è infinito esiste un mondo per ciascuna di queste queste varianti oppure no? esiste un mondo in cui ogni singola variante si manifesta? Ma se esistono perché le chiamiamo varianti? Un papavero è la variante di un altro papavero? Dovrò raccogliere tutte le versioni e collazionarle, così si dice, farne un apparato critico, fare l’edizione critica del presidente in modo da liberarlo da tutto ciò che è umano, in modo da essere certo che non era, che non è, che non sarà mai umano, e così accettarlo. Errori disgiuntivi e congiuntivi. Esiste per la realtà la lectio difficilior? O tutti gli abbagli che abbiamo preso finora non sono dovuti ad altro che al nostro istinto a cercare sempre e comunque una lectio difficilior? La spiegazione più difficile tra varianti di uno stesso fatto è quella giusta perché non avrebbe potuto essere stata escogitata facilmente. Darwin conclude l’Origine dicendo che la mente umana è un parto divino, che esisteva prima della creazione, ed è questo che mi terrorizza più di ogni altra cosa, il fatto che anche il presidente abbia una mente umana, quel che si dice una coscienza, un’anima, preesistente alla creazione. A furia di risalire una versione dopo l’altra e di ricostruire gli errori e individuare parentele tra le versioni e eliminare i codici descritti arriverò a disegnare lo stemma dei miei incontri con il presidente e arriverò a ricostruire l’originale e forse a trovare il presidente e forse ucciderlo, anche se ucciderlo significherebbe riconoscerne l’umanità, e sarei daccapo. Ma quel che mi tormenta è ciò che si chiama poligenesi. Non un’origine ma molte. È la poligenesi che crea l’illusione della parentela, della discendenza, scombinando le cose. La poligenesi e la nostra fissazione a credere che di mamma ce n’è una sola, una sola origine. Molte origini, invece, molti originali, molti presidenti sovrapposti come un mazzo di carte o di banconote giapponesi. Quale può essere lo stemma quando tutti i codici sono l’originale? I filologi devono prendere in mano i libri usando guantini bianchi di cotone. Il filologo deve essere staccato da tutto. Prendono in mano le carte con i guantini di cotone così nessuno saprà mai che le hanno toccate e così le carte non si rovineranno perché più tracce restano più le cose si rovinano. Traccia e rovina sono la stessa cosa. Il presidente era già lì. Il presidente era ancora lì. Era già lì. Era ancora lì. Era già lì. Era ancora lì. Quando mi risvegliai. Quando ripresi conoscenza. Quando tornai in me. Quando mi risvegliai. Mi risvegliai. Mi risvegliai. Mi risvegliai. Era già lì. Già lì. Già lì. Ancora lì. Ancora lì. Quando mi risvegliai. Quando mi risvegliai. Al mio risveglio. Quando mi risvegliai al mio risveglio il presidente era già lì era ancora lì il presidente al mio risveglio era già il mio risvegliai il presidente ancora lì ripresi il mio risveglio ripresi il presidente era già conoscenza era ancora conoscenza il mio risveglio quando il presidente era già lì era ancora lì quando ripresi quando mi quando quando quando il presidente mi risvegliai era già lì il presidente era già lì quando mi conoscenza. Presidente poi, la cosa più stupida era proprio quel “presidente” sul suo biglietto da visita. Senza altre parole che spiegassero di cosa fosse presidente, solo presidente, come dire amante punto e basta, ma di qualcosa bisogna essere presidenti, e qualcosa bisogna per forza amare se si vuole essere amanti. Ma come tantissime altre cose anche questa in realtà non significava nulla, presidente non era un indizio, un appiglio per catturarlo o almeno per scappare da lui, per poter mettersi in salvo, tutto l’orrore veniva da lì, dal fatto che niente voleva dire niente, il presidente era impossibile da capire o era impossibile parlarci o è impossibile parlarci o sarà impossibile parlarci come sarebbe parlare a una zecca o a un qualche altro parassita cui le orecchie non servono a nulla figuriamoci le parole, ecco perché presidente senza dire nient’altro, un il profilo tagliente del suo biglietto da visita nella mia mano dopo che se ne fu andato solo perché io sapessi che era stato lì e la parola presidente così da sola perché io sapessi che non sarei mai potuto scappare da lui, né mai far finta di non averlo mai incontrato, proprio come succede quando ci si innamora. La gamma delle reazioni alle emozioni è limitata rispetto alla gamma delle emozioni stesse, per questo si possono fare i paragoni come tra il presidente e una persona amata, perché non è un paragone ma sono cose realmente equivalenti, basta mettersi alla giusta distanza, e se poi si va abbastanza lontano si trova che tutto quanto è uguale e che non esiste nessuna differenza. Il presidente era già lì.

***

(Trascrizione della trasmissione radiofonica I figli del Capitan Visiera, puntate dal 6 al 12 giugno; file audio sotto sequestro presso gli uffici della polizia municipale di Newton (distretto di Waltzwaltz); la trascrizione è attualmente agli atti del processo intentato dai famigliari delle vittime del videogioco NITA™ contro Tomaš Brušek; tra parentesi quadre vengono riportati i rari interventi dei c.d. Figli del Capitan Visiera, attualmente imputati per diffusione di materiale secretato e favoreggiamento.)

6 giugno. …(omissis)… Io e il mio violinista ci siamo persi (non ho mai avuto un “mio” violinista [PRIMO FIGLIO DEL CAPITAN VISIERA: “Vorrei anch’io un mio violinista” SECONDO F.D.C.V.: “Non l’ha detto bene, faccia sentire che la parola mio è virgolettata” PRIMO F.D.C.V.: “Un mio violinista” FIGLIA DEL C.V.: “Non vale fare il gesto con le dita” PRIMO F.D.C.V.: “Vorrei anch’io un “mio” violinista” SECONDO F.D.C.V.: “Tutti noi ne vorremmo “uno”” FIGLIA DEL C.V.: “Ricominciamo a leggere, altrimenti qui facciamo notte” PRIMO F.D.C.V.: “Ma se sono le cinque del mattino” FIGLIA DEL C.V.: “Non sottovaluti l’autore del “Diario”; come fa notte lui…” SECONDO F.D.C.V.: “Giusto. Capacissimo di fare notte a qualunque ora del giorno, sotto qualunque fascia climatica e/o fuso orario” FIGLIA DEL C.V.: “E poi i nostri ascoltatori vogliono sentire la fine–” SECONDO F.D.C.V.: “O una specie, dato che fino ad oggi–” FIGLIA DEL C.V.: “–prima di arrivare al lavoro” PRIMO F.D.C.V.: “Va bene, va bene, calmatevi” SECONDO F.D.C.V.: “Ma si calmi lei si calmi. Dunque, dove eravamo?…”]), però siamo vicini al posto dove dobbiamo arrivare: è una delle case allineate lungo la parete di roccia. Davanti alle case allineate passa un fascio di strade e sentieri semisepolti dall’erba e semiparalleli che a volte sembrano deviare nei filari di mele. È come se quella che dovrebbe essere una città fosse stata anamorfizzata in una struttura lineare in cui da una parte ci sono tutte le case una in fila all’altra, dall’altra tutte le strade come un lasco treccione di tagliatelle. Non necessariamente la ridistribuzione degli elementi della città ha conseguenze caotiche, mi dice il mio violinista con un tono che non so capire se sia ironico o no. Per quanto le direzioni possibili siano solo due (avanti o indietro) è facilissimo perdersi. Molte strade sono cieche, o si estinguono in sentieri e persino fossati.

7 giugno. Per potersi orientare, mi spiega il mio violinista (non so nemmeno cosa significhi dire che un violinista è “mio” [PRIMO F.D.C.V.: “Ecco appunto” FIGLIA DEL C.V.: “Silenzio. Mi sembra di essere una maestra dell’asilo con voi” SECONDO F.D.C.V.: “Ma io che ho fatto scusi”]; mi vengono in mente scene insulse di me che mangio in un ristorante di lusso con accanto il mio violinista che fa stridere un motivo prandiale) occorre avere un buon occhio per le distanze e per l’angolatura delle curve, cosa in cui il mio violinista si picca di essere molto versato, e forse è questo che significa avere un proprio violinista e in effetti, mentre proseguiamo su una strada che apparentemente si sta prosciugando o trasformando in un’andana tra i meli (davanti a noi i copertoni di altre macchine o mezzi agricoli hanno spiaccicato le mele cadute dagli alberi; seguiamo la scia zuccherina; ci sono molti insetti e io tiro su il finestrino; molte vespe e api; questo, penso tirando su il finestrino, è un segno certissimo che sto sognando; uno dei miei sogni ricorrenti riguarda me che cerco di sfuggire a sciami di vespe o di api; non dico niente di tutto ciò al mio violinista; lui odia quando faccio così) mi torna in mente una sera, in riva al lago di Garda, in cui il mio violinista, completamente ubriaco, aveva colpito con dei sassolini, per molte volte consecutive, una boa segnaletica di ferro ancorata molto lontano dalla riva, senza nemmeno guardarla, lanciando i sassi da sdraiato.

8 giugno. Si tratta di un calcolo balistico, mi spiega il mio violinista mentre la ruota anteriore destra rimane impantanata in un cumulo di mele e solleva quasi fino al finestrino una nube rabbiosa di terriccio mescolato a insetti e frutta spiaccicata, è esattamente come lanciare un sasso, devi aver ben chiara la distanza della casa che vuoi raggiungere e valutare correttamente l’inclinazione della strada che dovrai percorrere, poi, una volta che avrai imboccato la strada, non dovrai lasciarti scoraggiare dalle forme che prenderà la tua strada, come ora che sembriamo sprofondare in mezzo alle mele e alle vespe, sono i soliti trucchi zingari per far smarrire i visitatori, mi spiega il mio violinista (credo abbia imparato tutte queste cose, e magari anche sviluppato una mira molto precisa anche da ubriaco, da ragazzo, quando per imparare a suonare il violino era scappato di casa ed era andato a vivere in un luna-park nomade) e mi indica alcuni nascondigli mimetizzati tra i rami e le casse di mele.

9 giugno. Possiamo anche paragonare queste strade, mi dice il mio violinista abbassando la voce, e capisco che in questo momento, anche se ha deciso di rivelarmi un segreto che lui considera molto importante, è tuttavia lacerato tra la fedeltà agli zingari e la sua appartenenza a me, si può anche paragonare l’intreccio semiparallelo di queste strade ad una corda che vibra, sia quella di un vero e proprio violino o quella di un arco dopo che è stata scoccata la freccia, e accenna al fatto che alcune tra le melodie più antiche degli zingari sono in effetti delle mappe delle loro prime città. Alcune di queste mappe e di queste città esistono ancora oggi, mi spiega il mio violinista, solo che sono state inghiottite dalle città (dalle melodie) “reali”, per così dire, ma un occhio allenato può riconoscere nel piano urbanistico di una città (una melodia) “reale” le vestigia dei fasci di strade e sentieri su cui un tempo si reggeva la città (la melodia) degli zingari. E non sperare di divinarne la melodia negli Osolemio che gli zingari strimpellano in piazza sulle loro fisarmoniche nere, soggiunge il mio violinista con quel piccolo quid di dettagli di troppo che è il nostro segnale del trapelare di un segreto.

***

Nessuna delle storie che Gianni Sherwood racconta riguarda una persona che si chiama Gianni, né tantomeno la foresta di Sherwood. Però non è detto che le storie non c’entrino; quelli che lavoravano qui quando Gianni Sherwood è stato ricoverato sono andati in pensione, o sono morti, quindi può essere che quel nome gli sia rimasto addosso da una delle prime storie che ha raccontato, e che noi non conosciamo.

Il bello è che l’eziologia stessa del male di Gianni Sherwood è a propria volta origine di ipotesi e racconti.

(Eziologia! Quante arie mi do. Non sono nemmeno sicuro che anche questo, cioè tutte le storie sull’eziologia del male di Gianni Sherwood, non siano a sua volta un sintomo, un sintomo cioè del male di Gianni Sherwood, del fatto che il male di Gianni Sherwood ci sta infettando. Un contagio. Forse finiremo tutti per metterci a fare ipotesi su com’è che Gianni Sherwood è impazzito. Ovvero com’è che è finito qui, dato che impazzire o finire qui è la stessa cosa. Finora a dire la verità le ipotesi non sono un granché, il che dopotutto dovrebbe essere rassicurante. Quasi tutte finiscono con il cervello di Gianni Sherwood che viene mangiato. A furia di sentire ripetere la frase, si finisce col dimenticare che ha un significato solo metaforico, e la si prende alla lettera. È disgustoso. No. È divertente. No. È disgustoso. In fondo anche se si tratta di un contagio fa lo stesso, è un po’ come se l’autista di un’ambulanza andasse a sbattere contro un muro: abbiamo già tutto quello che occorre per guarire. Taccuini, ferri, tutto.)

***

Guardando le fotografie agli atti del processo, sulle prime uno potrebbe scambiare il laboratorio per il salone di un parrucchiere per signora, questo per via dei grossi caschi e delle poltrone regolabili su cui sono sistemati i tester/vittime (ossia, “tester” ovvero “game-tester” secondo la difesa, “vittime” secondo l’accusa; dato che durante tutto il processo la giuria, per non dare l’impressione di essere già incline a dar ragione all’una o all’altra parte, ha usato la formula “tester/vittime”, tale formula è rimasta tuttora per [evitare di] definire il particolare statuto, legale e/o “lavorativo”, dei soggetti in questione o, secondo bischizzato dal dottor T***š B****k alla fine del processo, “i soggetti in oggetto”); nella fotografia catalogata al n. 14, in particolare, i tester/vittime sembrano solo un gruppo di persone che si fa la permanente, o almeno lo sembrano fino a quando non si notano i ferri chirurgici disposti in bell’ordine sul tavolo operatorio, il tavolo operatorio stesso, l’assenza totale di specchi e cosmetici, i macchinari per la decodifica dei flussi linguistici che escono da ulteriori macchinari che potrebbero essere descritti come sismografi o meglio elettroencefalografi o (e dopotutto forse è quest’ultimo il paragone più azzeccato, anche se sia la difesa che l’accusa, ciascuna per motivi differenti, si sono astenute dall’avanzarlo durante il processo) macchine della verità.

***

Lo guardava con occhi come biglie di vetro tremule al vacillare del treno.

[continua l’11 novembre]

* Alcune sezioni di questa e altre puntate del romanzo Presiden arsitek sono comparse tempo fa, in altra forma e sotto altro nome, sulla rivista Nuova prosa diretta da Luigi Grazioli.