Maître à penser

Chi ha in mente i grandiosi barboni di Parigi, che bloccano il traffico urlando della fine del mondo, viaggiano come signori in carrozze del métro che la loro puzza prodigiosa ha svuotato, si trascinano dietro quintali di pattume che hanno raccolto con sussiego negli angoli delle vie più alla moda, giudicherà modesto il personaggio di cui sto per trattare. Ma qui, appunto, non si parla di Parigi, o di qualunque altra metropoli: qui ci si contenta di curiosare tra le pieghe di un piccolo centro di provincia in disparte dal mondo, e questo è, come suol dirsi, quel che passa il convento.

Dunque, dalle mie parti è ben noto un ubriacone dal look vistoso e gli insulti brucianti urlati non si sa bene a chi. Anni fa si limitava a fare il giullare nei dehors, a importunare i turisti, a minacciare qualche divinità distratta. Lo si notava rimuginare improperi per la strada, con in testa uno scolapasta, o un cilindro viola, un colbacco, una cuffia da campionessa di nuoto sincronizzato, sul naso un (con rispetto parlando) cazzo di gomma, o una maschera antigas, cose così. Chi non lo conosceva girava al largo; chi lo conosceva lo salutava – lui, interrompendo la litania dei suoi insulti al mondo, ricambiava quietamente il saluto, per riprendere subito dopo a sputare ferocie. Il povero diavolo peggiorava immancabilmente con il passare delle ore, incespicava nel tentare mosse di kung fu contro i faccioni sui manifesti, tentava affondi seduttivi dinanzi a un lampione. In tutti i centri di provincia c’è almeno un matto simile, dà fastidio ma risulta innocuo, quando arriva si aspetta che se ne vada (nelle città più grandi li monitorano con affettuosa ferocia e ci fanno i libri, su matti così).

Ma ecco: qualcuno ha cominciato a intuire, nei suoi sproloqui, la presenza di insondate profondità. Si è detto: ma questo non è solo una macchietta, è un Personaggio. C’è della tragicità in lui, c’è dello spessore. Non è lo scemo del villaggio, è un Re Lear, un Principe Myškin, un Enrico IV! I suoi sproloqui sono diventati oracoli, le sue mattane delle performance perturbanti che rimandano a dimensioni ignote, a verità sommerse. I suoi famosi insulti (“Troie, pederasti!” detto indifferentemente a chiunque, di preferenza ai misteriosi abitatori chiusi nei palazzi patrizi o in quelli del potere) non sono insulti, sono sintesi iperboliche di un qualcosa: e la mente che ha partorito quegli insulti è una mente eletta, che vede quel che gli altri non vedono, e sa chiamare le cose non con il loro nome, ma con un nome che gli altri non avrebbero mai saputo scovare. Il matto è diventato un poeta, un aedo, un mistico, che sparge verità con l’indifferenza di una Pizia all’ora degli happy hour o delle apericene.

Tutto è iniziato quando qualcuno lo ha sorpreso mentre, di nascosto da tutti, sfoggiava uno sguardo assorto. Qualcuno ha voluto indovinare, sotto gli occhiali da Groucho Marx, sotto l’elmo da valchiria o lo scafandro da palombaro o il cappello da suora, lo sguardo interrogativo, la stanchezza dell’ispirato, la fatica del mistico. E ha deciso di farne un maître-à-penser. Hanno cominciato a ronzargli attorno fotografi indaffarati a coglierlo meditabondo, lo sguardo lontano, la bocca chiusa. Di tre quarti o di profilo, eccolo scrutare l’orizzonte, in cerca di una risposta a quesiti che l’uomo si pone da sempre: e qualcosa, nel suo atteggiamento pacato, fa pensare che abbia trovato la risposta. I suoi borbottii non sarebbero altro che il tentativo di consegnarcela anche a noi, quella risposta, ma come si sa la lingua umana è insufficiente a rendere le complessità della rivelazione, le parole umane non bastano, è per questo che lui borbotta, e magari si innervosisce per la frustrazione e a quel punto dà a chiunque del pederasta e della troia confondendo i generi.

Fatto sta: si girano film su di lui, nei quali si aggira pensoso per i dehors come un Omero e invece dei soliti insulti dispensa pillole di saggezza pronti per incartare cioccolatini, o guarda l’orizzonte con intensità, o fuma come un paroliere di canzoni esistenzialiste; lo si intervista su argomenti di interesse comune, dallo scioglimento dei ghiacciai allo scioglimento di qualche giunta comunale; fa una comparsata in un gialletto seriale ambientato in città, poi nel successivo, poi ancora nel successivo, e gialletto dopo gialletto acquisisce spazio o autorevolezza – nel primo, per dire, si limitava a un paio di battute pittoresche, sulla falsariga del mattoide in carrozzella del “Commissario Pepe” di Scola, mentre nell’ultimo aiuta le indagini con un paio di brillanti intuizioni. Le gazzette lo intervistano ancora – sull’ultima enciclica del papa, su alcune scelte di politica internazionale della presidenza statunitense, e ancora una volta sullo scioglimento dei ghiacciai, materia in cui, chissà perché, comincia a essere reputato un’autorità. Gli fanno tagliare nastri a inaugurazioni di locali; alcune scuole lo invitano a parlare di autorealizzazione; un’agenzia pubblicitaria lo assolda per una campagna destinata a incrementare il turismo di élite. Sugli ebdomadari locali colleziona più foto degli assessori più presenzialisti. Si scrivono libri su di lui, e a suo nome vengono pubblicate raccolte di aforismi che i librai impilano vicino alla cassa. Partecipa alla presentazione di tali libri, e in queste occasioni sfodera un inaspettato distacco: va e viene traballando come suo solito, ma si vede che è una posa, che qualcosa gli è venuto a mancare di sotto i piedi; torna a ringhiare i consueti insulti (“Tutti troie e pederasti, tuttiiii!”) ma con una spossatezza nuova, che impensierisce i pochi attenti.

Tutti lo adorano, comprese le categorie appena menzionate; lo adorano gli hipster, che lo hanno eletto a paradigma di moda anticonvenzionale, e da qualche tempo girano all’ora dello struscio con elmi da vichingo, nasi a forma di cazzo (con rispetto parlando), occhiali alla Groucho Marx e spolverini pieni di lucine intermittenti. Lo adorano gli intellettuali in cerca di maestri, che in lui vedono il Vate perduto e ritrovato, il Padre rinnegato e poi supplicato. È anche un bell’uomo, dice convinta qualche matrona del centro che sa guardare oltre e dentro gli strati incongrui di paccottiglia che lui si porta addosso come un paguro. Che vita deve aver avuto, che avventure! sognano i giovanissimi, che lo inseguono a frotte per immortalarlo con i loro smartphone di ultima generazione.

Lui, il fool, forse confuso o forse inebriato per tutta questa attenzione, ha perso smalto – ma pochissimi se ne accorgono. Va di repertorio, come un vecchio attore stanco della parte, non inventa più; prigioniero del suo personaggio, importuna sempre più stancamente gli avventori dei bar, che lo applaudono comunque, sempre meno convinto prende a colpi di kung fu i muri delle case o i faccioni dei manifesti, e sempre meno credibilmente lancia insulti alla finestra dell’ufficio del sindaco, con il quale la mattina brinda manco fossero cugini.

Che mi sta succedendo? pensa forse. Un brivido gli corre per la schiena, al pensiero di non essere più quello di una volta, quando faceva scappare i ragazzini e costringeva i gestori delle taverne a chiamare la polizia, e si sentiva un Prometeo le cui bestemmie erano temute nell’alto dei cieli. Che mi sta succedendo? Che mi hanno fatto? si chiede (forse) mentre stringe la mano di un ingegnere suo fan che gli presenta orgoglioso i figli, o mentre obbedisce alle richieste del fotoreporter che gli ha chiesto (per la seconda volta in una settimana!) di guardare serio l’obiettivo con un bicchiere in una mano e un randello di plastica gialla nell’altra (Il tuo scettro!).

Quando mette la mano in tasca per darsi una grattatina, sente pesare il carnet degli appuntamenti.