La vita su tela

Dipingo la vita!, mi dice l’anziana pittrice accogliendomi all’ingresso della sua personale.

Io, di mio, non ci sarei entrato, nella saletta comunale in cui si esibiscono gli artisti del paese: ma la nipote dell’artista, mia collega un mucchio di anni fa, mi ha intercettato per la strada, e senza lasciarmi scampo mi ha invitato a visitare la mostra della zia piena di talento e a esprimere un giudizio motivato. Entro, rimpiangendo di non avere elaborato per tempo una scusa (ora me ne vengono almeno due tre, fondate su impegni immaginari o su problemi di salute ingigantiti, miei o di chi mi starebbe a cuore). Mi accolgono oli su tela dai colori vivaci, in cui giovani donne guardano da una finestra, vecchie fanno la calza, vecchi mungono vacche. O almeno, così pare.

La ex collega mi si affianca, mi tallona. Eh, eh? incalza impietosa, senza lasciarmi il tempo di articolare una risposta che esprima un generico interesse per la pittura (ma non per quella pittura) e un altrettanto generico elogio per una passione che, al di là dei risultati, allieta le giornate, rasserena gli animi, e via così.

Eh, eh? Allora, allora? mi pungola la collega, quando mi soffermo, senza sapere cos’altro fare, dinanzi a un dipinto che raffigura una scena d’interni, con bambini – almeno, presumo siano bambini.

Eh, dico. E, dopo una pausa: I colori.

I colori che?

Sono… intensi.

Intensi, sì, e poi?

Mi sposto dinanzi a un’altra tela.

Intensi e…

E?

E vividi. (Ricorriamo ai sinonimi, mi dico, magari la scema non se ne accorge. Infatti tace, confusamente compiaciuta.)

Sono colpito dalla luminosità, dico, per non dire che il quadro (questo come gli altri) è privo di ombre, tutto è esposto a una luce involontariamente impietosa, che azzera la profondità, inibisce i contorni. Non vi è nessuna illusione di tridimensionalità. Lo dico.

Pittura pura, dico, non ha bisogno di imitare la realtà, non ricorre a facili trucchi, ai soliti giochi di ombre per suggerire una tridimensionalità che non le appartiene. È impressionismo senza indulgenze e compromessi con la mimesi, come nemmeno gli impressionisti hanno osato praticare.

Questi sono bambini, sì? chiedo poi, perché davvero non capisco se siano bambini, coboldi o mucchi di stracci appallottolati. La mia domanda rischia di disorientare la ex collega, per cui corro subito ai ripari con un’altra considerazione.

E l’attenzione, direi anzi l’amore, con cui i corpi umani sono tratteggiati? Non conta più l’anatomia, ha perso ogni importanza il rispetto accademico delle proporzioni. Nessuno di noi corrisponde ai criteri d’equilibrio, alla sezione aurea, a quelle menate lì! Siamo corpi, ognuno diverso dagli altri, portiamo addosso per una vita intera difetti, cresciamo o troppo o troppo poco, ci gonfiamo come maiali, oppure ci dissughiamo fino a assomigliare ad attaccapanni, ci curviamo in avanti, perdiamo i capelli, le malattie ci deformano, nascondiamo le mani a cui le artriti intrecciano le dita, ci infiliamo in busti per correggere (invano) gobbe e scoliosi, i denti ci spunterebbero un po’ dappertutto a mo’ di funghi se non andassimo dal dentista dai sei anni fino ai venti passati! Ecco: questo vedo in queste figure.

La pittrice, che segue me e la nipote a una certa distanza, ed è emozionata e anche un po’ vergognosa perché è il primo giorno di esposizione, e lei non avrebbe mai pensato a una mostra pubblica, ma la nipote, che ha presente il suo stato depressivo strisciante ed è sempre alla ricerca di idee per svagarla, ha tanto insistito – la pittrice, dicevo, dice: Dipingo la vita!

Appunto, signora, la vita! insisto io. Proprio come la dipingevano Bacon, o Lucian Freud! La vita che è sofferenza, fatica, i corpi deformati dal male di vivere!

La vita però è bella, per me, tenta di opporre la signora.

Ma certo! Però vede, la sua pittura va al di là di questo. Suo malgrado, per così dire, rileva un’altra vita.

Stai scherzando, vero? mi sussurra la nipote.

Io non scherzo mai, scherzo io – ma lei non coglie.

Mi sposto di lato, davanti a una scena agreste. Animali brucano su un prato fiorito.

Per esempio, questi vitelli!

Sono cani.

Ma stanno brucando.

No. Puntano una preda.

Quale preda?

Quel fagiano.

Dove?

Quello.

La nipote indica una macchia colorata sula sinistra, perfettamente confusa con le macchie che rappresentano i fiori.

Eccoli, i cani veri! declamo. Quelli che pur restando fedeli all’uomo, hanno conservato qualcosa della loro natura ferina. I lupoidi cacciatori che nessuna selezione naturale ha mai del tutto modellato secondo i desideri dell’uomo.

Sono due setter inglesi, dice lei.

Comunque. E questi altri cosa sono? mi sbroglio passando davanti a un altro quadro, stavolta in interno. Sambernardi in un salotto?

No, questi sono maiali in un porcile.

Ecco. Gran bel porcile.

(Non assomigliano a cani, in effetti. Hanno musi purchessia, zampe generiche, un ventre qualunque, potrebbero essere qualunque animale, anche estinto.)

C’è un’idea molto forte di animalità, commento. Esprimono la quintessenza dell’essere bestie.

E questi gattini, invece…

Sono pagnotte. Questa è una natura morta.

C’è una vitalità latente che trae in inganno, in quelle pagnotte. Le senti quasi fare le fusa, dico. Lei, mi rivolgo alla pittrice, lei dipinge la vita anche nelle cose, negli oggetti, li sentiamo fremere, vibrare di vita!

Tra me, mi meraviglio di quanto mi sia facile mentire.

Questa però è proprio una fanciulla, dico davanti a un altro quadro. Vi si vede una figura femminile in costume tradizionale dinanzi a uno specchio. Mi aiuta nella decodificazione proprio il costume, perché la figura che lo indossa potrebbe anche essere un giovanotto, o un vecchio. Il titolo anche mi torna utile: “Vanità femminile”. Mi addentro in una tirata sul tema della vanitas che intreccio con quello delle tre età e con quello del memento mori, tutto molto approssimativo e inesatto, ma non importa, ho capito che l’unica cosa è parlare, parlare, parlare, per evitare altre domande.

Guardo furtivamente l’ora. È il momento di inventare un impegno urgente, sì, ma che valeva la pena di procrastinare di un quarto d’ora per scoprire un vero talento, potente, esuberante, che deve essere coltivato. Sul quaderno delle firme (siamo alla prima pagina, il mio nome è il secondo, dopo quello della nipote) firmo con uno sgorbio illeggibile, e come commento scrivo qualche sillaba altrettanto illeggibile (“eifruuvrblauo”). La nipote, che ormai ha mangiato la foglia, mi lascia andare, anzi mi saluta appena. La signora, confusa, indecisa se sentirsi lusingata o insolentita, mi dice di tornare, che non ho ancora visto i quadri non appesi, lo sgabuzzino nel retro ne è pieno.