Ogni tanto, nel tardo pomeriggio, sento passi sul tetto. Mi affaccio alla finestra, e sulla casa di fronte vedo proiettarsi ombre in fuga lungo la linea di colmo. Mi arrampico allora fino al velux, metto la testa fuori, e scopro ragazzini che balzano da un tetto all’altro, si arrampicano sui balconi per superare qualche passaggio altrimenti impossibile, e si perdono su altri tetti del centro storico, fino a punti imprecisati, da cui dovranno pur scendere prima o poi.
Non tutti sono agili, leggeri. Ve ne sono alcuni che zompano come ippopotami, e sembra vogliano sfondare le falde e precipitare negli abbaini sottostanti, addosso ad anziane già con il cuore in gola per il baccano in avvicinamento. Per sovrappiù, calzano anfibi da seconda guerra mondiale, e reggono zaini in cui diresti che portano pietre, giusto per rendere la transumanza più percussiva.
Ehi! protesto una sera, affacciato al velux. Un ragazzotto mi è appena passato sulla testa.
Lui, già a metà aggrappato a un balcone dieci metri più in là, si guarda intorno.
Qui, sono qui! grido. Scendi subito da lì!
Mi vede, finalmente. Esita.
Scendi o chiamo i carabinieri! insisto, e per un attimo, a nominare i carabinieri, mi sento un personaggio di Collodi.
Impressionato da questa parola, il giovanotto desiste, cerca con gli occhi una via di fuga onorevole. Non la trova: per scendere dovrà tornare indietro e passare proprio sopra di me, che lo aspetto al varco armato di ottimi argomenti.
Ti sembra il caso? infierisco.
Ma sto recuperando il pallone, risponde finalmente lui.
Risposta fiacca, fiacchissima! rido. Non c’è nessun pallone su quel balcone.
In effetti no, dice lui.
Non stavi giocando al pallone con nessuno, di’ la verità. Eri solo. Sei solo.
Sì, dice lui, con il capo chino.
E ora…
Che fai, chiami davvero i carabinieri?
Sì, penso di sì.
Ma non ho fatto niente!
Sei su una proprietà privata.
Il tetto è proprietà privata?
Eccome.
Anche il cielo, anche l’aria?
Non divagare, ora.
Lui, cauto, mi si avvicina.
Chi mi garantisce, ad esempio, che non sei un ladro? dico.
Un ladro? si stupisce lui. E di cosa? Di lose?
Il tardo pomeriggio è piacevole, il sole ha intiepidito le lose, che ora rimandano un calore discreto che mette voglia di indugiare.
Ma senti, com’è lassù? gli chiedo infatti dopo un po’. Lui si è seduto sul tetto, a pochi metri da me, e non sa che fare. Forse aspetta che io mi ritiri per riprendere la corsa, ma io non voglio permetterglielo, anche se mi importa sempre meno quel che farà o non farà.
Com’è cosa?
Sì, com’è: la città, le cose. Che vedi?
Tetti.
E poi?
Altri tetti.
E giù, sulle vie, nei cortili, nei giardini?
Lui ci pensa un po’.
Non ci ho mai fatto caso.
Ma come? Sarà la cosa più bella, stare lassù e guardare il mondo!
Guardi, dice passando al lei, forse per adeguarsi al tono del discorso, ho scommesso con gli amici che…
E dove stanno gli amici?
Boh. Su altri tetti, immagino. O a casa. Insomma, questi miei amici…
Ho capito, lo interrompo. È una sfida, un rito di iniziazione. Ne ho fatti anch’io, cosa credi?
Davvero? Saliva sui tetti anche lei?
No, veramente no. Tenevamo in mano i cavi elettrificati dei recinti delle bestie al pascolo e facevamo a chi resisteva di più.
Lui mi guarda con un’espressione enigmatica. Chissà che pensa di me, dopo questa mia confessione. Fatto sta che torna a darmi del tu.
Vedi, io filmo mentre corro sul tetto, poi condivido il video con i miei amici, e…
Non stai filmando adesso, vero?
No, fa lui scuotendo la testa.
Insisto: perché non voglio finire in uno stupido video, sono molto attento alla mia immagine pubblica, eccetera eccetera.
Lui tace, non capisce, o non gliene importa più niente.
Devo andare, mi dice finalmente. O mia madre si preoccupa.
Se scivolassi giù, in uno dei cortili o giardini di cui non ti sei mai accorto, che direbbe tua madre?
Mi ammazzerebbe, credo. Cioè, mi ammazzerebbe nel caso non fossi già morto. Mi finirebbe come un cavallo ferito.
Resta a compiacersi della similitudine potente.