Presiden arsitek/ 11

di in: Presiden arsitek

a Fernando Arrabal

 

Io mi limitavo ad ascoltare.

 

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Quando lei, come obbedendo a un ordine del tutto indipendente dal suo corpo e risalente a un tempo in cui la vita consisteva in poco più che un tremolio inghiottente, quando lei aprì la bocca per lasciarvi passare la lenta e centenaria sferula di polvere, non potei fare a meno di pensare all’antica figurina di Pac-Man intrappolata in un labirinto privo di uscita a inghiottire bocconcini luccicanti e variopinti spettri da tunnel degli orrori. Quando Pac-Man “moriva”, la sua bocca a spicchio si spalancava e spalancava fino a cancellare la circonferenza dell’intero corpo, come una specie di rivincita tragica nei confronti dell’orrenda “esistenza” cui era stato “condannato”.

In ospedale, prima di perdere conoscenza, mi disse di non ricordare se in effetti l’avesse mangiata o respirata (avremmo visto le lastre soltanto il giorno dopo). I bocconcini si mangiano, i fantasmi si respirano.

 

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Parte del fascino e della maledizione dei “labirinti” consiste nel loro evitare il più possibile la ripetizione. Più tardi un “labirinto” si rivela tale, più la vittima apprezzerà, proprio malgrado, l’abilità del suo costruttore (sempre naturalmente che si tratti di una vittima che abbia ben chiaro di cosa è vittima, fatto che oggigiorno è sempre più raro, e nel caso dei “labirinti” rarissimo, per il loro essere un’arte ignota ai più; ma in fondo ormai quasi ogni arte è ignota ai più, e ormai quasi nessuno sa più veramente di cosa è vittima). Nello stesso tempo, un “labirinto” deve in ogni caso prima o poi rivelarsi, e chi ci è dentro prima o poi deve, bene o male, capire di esserne vittima, e sia pure una vittima tecnicamente sprovveduta. Deve cioè comprendere che la ripetizione non è frutto di un caso (un costruttore di livello supremo saprebbe costruire un “labirinto” talmente vasto e perfetto da coincidere con la vita stessa della vittima, tale che la ripetizione iniziasse ad emergere solo poco prima della vecchiaia del prigioniero? possono esistere “labirinti” in grado di catturare le sorti di un intero popolo, di un’intera specie? l’architettura non mira, in fondo, a questo? a un qualche livello, ogni opera d’arte – forse ogni opera umana, forse ogni opera… – non mira a renderci per sempre suoi prigionieri, a inghiottirci in un’interminabile prigione caleidoscopica, un terrificante incubo gioioso? in ultima analisi, il “labirinto” allude al dubbio che la vita stessa, a dargli tempo sufficiente, non sarebbe che un insieme di ripetizioni, che l’intero universo non sia che un perpetuo ripetersi, senza principio e senza fine, nello spazio e nel tempo, di tutte le combinazioni. Il vecchio trucchetto dei mondi possibili, solo che gira che ti rigira, rimesta che ti rimesta, combinazione dopo combinazione, viene fuori che l’unico mondo possibile è questo. Esistono infiniti mondi: tutti però identici a questo; e contemporaneamente infiniti mondi in cui si svolge ogni istante trascorso o di là da venire di questo, ma senza variare mai, come in un gigantesco canone a infinite voci. Potessimo viaggiare sufficientemente lontano nello spazio, approderemmo alla nostra vita futura o passata; potessimo viaggiare sufficientemente lontano nel tempo, ci ritroveremmo nello stesso identico punto da cui siamo partiti).

 

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(Quarto estratto esemplificativo, in attesa di validazione come prova processuale presso il regio tribunale di Briwen, di una lezione di grammatica della sig.ra ***, docente emerita di Grammatica per Adolescenti presso il Pio istituto di S. Satiro per la Gioventù di padre Giorgio Giorgio):

“Analisi logica. Lo stesso che dire uomini e donne che si accoppiano. Co – pu – la – zio – ne. Coppie. Ho detto coppie? tutto da vedere, signorine e signorini. Lo dice anche Burroughs, le parole sono tutte una attaccata all’altra come in un’interessante composizione sessuale. Pensateci bene. E lo stesso è per le singole lettere, ma solo i migliori di voi sono destinati alle delizie della fonetica. È roba gustosa solo se la sai gustare, diceva il gatto leccandosi il— ma torniamo a noi. Ora state bene attenti: questa, cioè questa, questa è l’introduzione, tutti saltano le introduzioni e invece sono la cosa più importante, lo capite da voi no? Giusto? (gesto osceno: indice destro infilato in un anello formato da pollice e indice sinistro). Introduzione: più chiaro di così… Nuovi anzi nuovissimi libri di testo, metodi sperimentati solo nelle migliori scuole del continente, signorine e signorini; noi leggeremo il manuale di analisi logica e Pasto nudo insieme, cioè tutti insieme, qui in classe, e insieme, cioè i due libri insieme. Mai sentito parlare di Pasto nudo? Alzate la mano. Nessuno. Fate vomitare i cani, ma apposta ci sono qua io. Adunque (punte delle dita congiunte a formare una specie di gabbia con le due mani davanti al basso ventre). Pasto nudo è nato come propedeutica alla e superamento della analisi logica come la si insegna tradizionalmente nelle scuole, e questo ormai è un fatto risaputo anche in Oceania, come dicono nei film. Dunque notate. Sì, in certi film lo dicono, non in quelli che guardi tu. Notate vi dico. Pochissime parole si legano a due a due. Pochissime parole fanno coppia fissa. Sensazionale vero? Fa specie vero? Nevvero? Avete mai notato che vero? e non è vero? vogliono dire la stessa cosa? Ma torniamo a noi: altro che coppia no? Come? Come dice? Il nome e l’aggettivo, dice? Come due pappagallini, dice? Certo, ma quanti aggettivi potete attaccare a un nome? Si chiama gangbang, altro che pappagallini! aspettate solo di studiare la letteratura barocca e— gente capace di infilare un nome dietro l’altro dentro un unico aggettivo, fino a… ma questa non è letteratura, è grammatica. La grammatica è superiore alla letteratura, perché può farne a meno. Se puoi farne a meno, allora ne sei superiore. O era viceversa? Non importa, torniamo alle parole. Le parole non fanno coppia fissa, a parte in certe formule religiose o legali: tutto torna, vedete? Tutto torna: legge più religione uguale matrimonio, cioè la religione e la legge sono il tentativo disperato di intrappolare due parole in un armadio o in un recinto o in uno di quei box per trasportare i cavalli e poi— (occhiata lasciva al bidello, in piedi accanto alla porta) poi però arriva lo spirito santo, quello passa anche attraverso i muri, ve lo dico io, sì… oh, sì… (si ricompone quel tanto; il bidello è del tutto indifferente, stereotipo nella sua tuta blu e il vecchio campanaccio in mano; ma uno sguardo più attento riconoscerebbe i baffi posticci e un collo fin troppo delicato e sottile) Insomma. Parlavamo di rapporti di coppia e ci troviamo davanti un groviglio di cazzi e fiche. Fa specie vero? Cos’è, non vi piacciono le parolacce? Un groviglio sessuale, così va meglio? Santo cielo sono finita in una scuola di suorine e pretini, per quanto se solo conosceste i pretini che— ma torniamo a noi. Un groviglio di— quel che volete, fate un po’ voi il groviglio. Da un certo punto di vista potremmo vederla come una cosa grandiosa, no? E il bello è che fa specie solo se pensiamo agli altri vero? Gli altri sono tutti una manica di sporcaccioni, no? Giusto? Mentre con noi stessi è tutto un altro paio di maniche come si dice, vero? Noi siamo sempre i soli e unici che fanno e soprattutto pensano o (che poi forse è lo stesso ma non lo so) credono di pensare certe cose, vero? E invece anche la più santerellina delle parole— Come? Gli amici, dice? guardi non vorrei deluderla ma anche lì stringi stringi sempre di cazzi e fiche si parla, è solo che nell’analisi logica questo si capisce meglio, perché le parole sono più semplici degli uomini, capite? Sono dispositivi, capite? Che fanno tutto quello che devono fare e lo fanno fino in fondo sempre, non possono farne a meno. Sono efficaci, ma non efficienti. Il problema è che le persone sono anche efficienti, e questo a volte complica l’efficacia, che a propria volta— ma stiamo divagando.”

(…continua)

 

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Nella ripetizione anche il più ridente dei giardini finisce per rivelarsi, come ogni cosa, una delle tante sbarre di una gabbia. Né vale chiedere soccorso alla variazione: in una prospettiva sufficientemente lunga, la variazione finirà per rivelarsi nient’altro che un rimestare elementi che infine non potranno che portare alla ripetizione, per filo e per segno, verbatim ac litteratim. L’assenza di un finale per l’esistenza, complementare all’illusione che un’esistenza possa in qualche modo compiersi, fa parte dell’inganno congegnato per noi da chissà chi (in realtà non l’ha congegnato nessuno, non c’è nemmeno qualcuno che ci odi, nemmeno qualcuno cui siamo indifferenti: siamo come quei signori solitari che vivono nel cuore delle grandi città, letteralmente nel cuore, e che vengono trovati per caso, morti nei loro appartamenti dopo anni trascorsi senza che nessuno li avesse mai cercati): l’inganno per cui pensiamo sempre che stia per arrivare qualcosa di meglio che però non arriva mai. L’inganno per cui pensiamo che esista una fine che in realtà non arriva mai. Ma la vita eterna: ecco cosa è l’inferno, e la vita non può essere che eterna. La segreta speranza in una fine è tra i più atroci inganni, perché crediamo di temere la fine e con questo ci è del tutto impossibile separarci da lei.

 

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Quell’orribile risata di donna giapponese. Io mi limitavo ad ascoltare.

 

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Iniziarono a incontrarsi regolarmente, ma la partita contro lo Scacco Matto Napoletano, come l’uomo avrebbe dovuto prevedere, andava per le lunghe. Ogni giorno, nel primo pomeriggio, si sedeva sempre allo stesso tavolino del Capitan Visiera, ordinava un Pernod per sé e una birra per Gianni detto Gianni, e aspettava il proprio avversario. Gianni arrivava sempre e, dopo un piccolo inchino, iniziava a giocare. Il barista del Capitan Visiera non sembrava per nulla contento di quella situazione. Gianni detto Gianni, non si è mai capito bene perché, chiamava il barista “il Pistolero”, soprannome che dava molto fastidio al ragazzo. Tale circostanza impressionò favorevolmente l’avversario di Gianni detto Gianni: non trovando nulla di particolarmente offensivo in un nomignolo come quello, infatti, giudicò che Gianni doveva essere stato capace di insultare in maniera sottile e personale il barista del Capitan Visiera, e la cosa gli parve come un segno di distinzione rispetto ad un comune scemo del villaggio. Il suo idiota non era un idiota qualunque.

 

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I costruttori anestetizzano i rari sensi di colpa al pensiero delle loro vittima ipotizzando l’esistenza di una setta dei Catturati, priva di liturgie o sacerdoti, una setta di aspiranti vittime che vagano alla ricerca di “labirinti” in cui provare in vita l’incanto immobile della morte, di un’indeterminata “non-fine”. La certezza metafisica e garantita che il sogno sia tale da sempre.

 

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LO ZOPPO: “Non so dove sia mia moglie. Sì. No. No, no: lei… no, ascolti, eravamo appena arrivati in ospedale, aspettavamo l’ambulanza e io le ho detto… Io ho guardato mia moglie negli occhi e le ho detto, voglio il divorzio, e lei PUM. Pum, cioè è caduta in terra. (Gli cade la stampella; la raccoglie; viene invitato a sedersi) E fin qui ci può anche stare. Però poi l’han presa e l’han portata via. Non so dov’è, non so dove l’hanno portata, nessuno mi ha chiesto come sto, non mi hanno fatto salire per accompagnare quella poveretta. È sempre mia moglie. No. No, lei l’abbiamo vista passando in macchina, inseguiva le ombre delle… No. Io mi sono fermato. Erano rondini o topi. Ombre.”

 

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La sferula di polvere era scesa lungo la copertina del faldone quasi mossa da vita propria. Alcuni li chiamano “gatti di polvere”, ma il movimento con cui le era scivolata in bocca, frenata dall’aria morta dell’Archivio, mi aveva ricordato quello di un ragno che si cala dal soffitto.

 

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Le storie di Gianni Sherwood sono molto cambiate nel corso del tempo; quelle che raccontava prima che iniziassimo a usare i taccuini, però, nessuno se le ricorda più, ad eccezione naturalmente dei rapporti, e questa dei rapporti forse è la cosa peggiore, perché il primo a scrivere rapporti è stato proprio Gianni Sherwood, e anzi è stato proprio così che il primo direttore si è accorto delle storie e della fissazione di Gianni Sherwood. Non appena se n’è accorto, ha subito fatto portare via le matite al malato e ha fatto bruciare i fogli, come avremmo fatto tutti, “ma qualcosina si è salvato, grazie a Dio”, così dice il nuovo direttore, dice proprio “qualcosina”. E così c’è tutto un faldone “Grazie a Dio” di rapporti scritti da Gianni Sherwood, che non sono poi diversi da quelli che devo scrivere io quando vado a trovarlo, quindi un profano direbbe tanto valeva lasciargli le penne e la carta, ma non è così che si fa con le malattie, e poi non dimentichiamoci che anche Gianni Sherwood lavorava nell’Archivio.

Rapporto salvato “Grazie a Dio” numero 1 (scritto su un bigliettino natalizio dei Peanuts del 199…):

“(Estratto dal verbale n. 667 dell’Ufficio Prevenzione Addobbi)

Oggetto: annotazione in merito alle contromisure per arginare l’attacco della sfinge.

Nonostante le piccole dimensioni (è grande circa come una tarantola) la sfinge si è rivelata molto aggressiva, e quando uno degli inservienti ha provato ad afferrare i fianchi della creatura tra l’indice e il pollice per toglierla dal presepe, si è ritrovato la mano tutta scorticata dai morsi. Abbiamo provato a sistemare un cordone di pastori davanti al minuscolo mostro sperando che questo lo scoraggiasse dal proseguire: una misura del tutto fallimentare; i pastori infatti si sono rivelati dei buoni a nulla, pusillanimi e verbosi, e mentre la sfinge scarnificava le loro pecore (gli scheletri delle bestie sono sparsi nella zona nord-ovest del presepe, sulle rive del lago di carta stagnola) si sono limitati a stringere costernati le loro zampogne intrecciando qualche vecchia canzone natalizia, nella sciocca speranza di imbambolare la sfinge con la musica. Uno di loro è stato azzannato ad un ginocchio, e forse perderà la gamba. Comunque, il pasto abbondante ha se non altro provocato la sonnolenza della sfinge, che ora giace addormentata.

 

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(Quinto estratto esemplificativo, in attesa di validazione come prova processuale presso il regio tribunale di Briwen, di una lezione di grammatica della sig.ra ***, docente emerita di Grammatica per Adolescenti presso il Pio istituto di S. Satiro per la Gioventù di padre Giorgio Giorgio):

“Sono più simili alle bestie, almeno per come le vediamo noi. Un lupo è sempre lupo, un’ape sempre ape, un falco sempre falco. E una parola è sempre una parola. Non sono come voi o come me, almeno come ci vediamo noi. Voi ora siete così per come vi vedo, ma appena mi volto alla lavagna vi trasformate per come non vi vedo, ma vi siete mai chiesti quello che divento io quando mi volto alla lavagna? No vero? È questo il vostro problema: pappa pronta e tutto per scontato. Facciamo un esempio perché qui gronda tardezza: la parola piove. Capite tutti la parola piove, giusto? Anche se non piove, quando dico che piove vuol dire che piove, e non può voler dire altro, e lo vuol dire sempre, cioè non proprio sempre, vi ho detto una piccola bugia, ma piiiccola (gesto rimpicciolente con indice e pollice destro, accompagnato da una altrettanto rimpicciolente strizzata di occhi), e poi l’ho fatto apposta: l’ho fatto per farvi capire che con le parole è la stessa cosa, sono brave e fanno sempre tutto quello che devono fare, però resta lo stesso sempre fuori qualcosina, una piccola bugia, del resto anche la persona più onesta del mondo non riesce a dire sempre la verità, è impossibile, come per me prima cioè adesso, no era prima, insomma quando vi ho detto che piove dice sempre tutto quello che deve dire (notate: non bisognerebbe dire “vuol dire”, le parole non vogliono né possono volere un bel niente, loro devono e basta, come le persone molto oneste, cioè che fanno di tutto per esser tali, ma non sapete a quali cose certe persone sono disposte pur di essere – non apparire, badate, che andrebbe ancora bene, dico essere – oneste; cose terribili, non vorreste saperne la metà, e tutto solo per essere oneste, che poi tanto alla fine nessuno ce la fa; conosco persone che pur di essere oneste hanno letteralmente strappato il cuore— ma sto divagando) e invece non era del tutto vero, ma se avete capito la lezione non è mica che devo scusarmi per questo, perché non era tipo che volevo ingannarvi, è che è inevitabile dire in continuazione piccole bugie, presto con l’analisi grammaticale lo capirete anche voi, e capirete anche perché l’ho tenuta per ultima, l’analisi grammaticale, come la cosa più difficile; in vetta è facile stare, ma perché uno non è considerato abile se non ci arriva? Non sarebbe molto più difficile e ammirevole restare a un passo dalla vetta, in bilico sopra l’abisso?”

 

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“Non esiste la morte, ma soltanto la “morte”. Organico e inorganico: non è possibile alcuna comunicazione tra questi due mondi. Mi capisce, vero? La morte non esiste, ciò che è organico resta organico per sempre. Ma torniamo a noi. Come tutti i viventi, noi siamo destinati a deteriorarci, mi segue? ma una qualche parte del nostro cervello continua a risalire il corso del tempo, a convincersi che in realtà ci stiamo sviluppando. Uno dei desideri più (breve riflessione; uno schiocco di dita festeggia infine lo spuntare dell’aggettivo) stronzi dell’uomo è vedere i fiumi scorrere all’indietro, il fuoco ricomporre le rovine, i fiori rientrare nella terra. (Pausa. Occhi di bambola messicana traballano in riflessione parziale sul paesaggio che sfreccia.) Se le dicessi che una via esiste? Anche se naturalmente c’è un prezzo, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi! Lo vuole pagare? Ma badi (gesto articolato delle dita, come in un vecchio film del terrore; per un momento, tutto il corpo dell’architetto si direbbe proiettato in bianco e nero sopra uno schermo di lenzuola matrimoniali cucite insieme di un improvvisato cinema all’aperto) si può pagare solo con quello che davvero si possiede, non con i soldi, non con i soldi, non con i soldi, se c’è una cosa che nessuno veramente possiede sono i soldi, anzi, i soldi funzionano proprio perché nessuno li possiede, ma se lei vuole il paradiso e vuole vedere i fiumi scorrere all’indietro e i fiori risprofondare nella terra, allora deve pagare veramente. Deve davvero dare qualcosa; e indovini un po’? Il prezzo per il paradiso è il paradiso stesso, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi! Lo vede che l’uscita non c’è? Quante cose si imparano in treno! Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi! Da farci un’enciclopedia!”

 

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Gianni detto Gianni aveva anche altre bizzarrie, che l’uomo imparò a conoscere con il passare del tempo. Quanto segue non è che uno stralcio quasi arbitrario della lista di tutte queste (almeno a giudizio del suo avversario) singolari abitudini.

Un giorno, per esempio, Gianni detto Gianni stava togliendo la torre di regina, quando sembrò aver sentito qualcosa. Si alzò mettendosi una mano sudicia davanti la bocca, come colto in fallo; scosse un poco la testa poi si diede una manata molto molto delicata contro la fronte e sospirò, -Sono proprio una bestia, e chi ci pensa se non ci penso io? chi ci pensa a te poverino, se non ci penso io, bestia che sono! La bestia sono io!- Poi, scusandosi in modo estremamente lambiccato con l’uomo, si avvicinò a una sporta gialla e sollevatone con estrema delicatezza un lembo ci sbirciò dentro, e subito i suoi occhi si fecero lucenti di una dolcissima estatica commozione, e il matto iniziò a fare le mille strane boccucce verso l’interno della sporta, come se dentro la plastica, in un involto di fili di paglia e pezzetti di stoffa, si fosse rifugiato un animaletto che per la sua fragilità e la sua bellezza meritasse le più tenere attenzioni da parte del fortunato che il destino aveva eletto come suo custode. Da una seconda sporta Gianni detto Gianni tirò fuori un barattolo di patatine molto vecchio e sporco, estrasse una manciata di patatine ammuffite che sbriciolò nel palmo con un pugno, dopodiché con grandissima attenzione depose il tutto dentro il sacchetto; osservò per un po’ di tempo l’interno, con aria molto preoccupata, stropicciandosi le mani e puntandosi sui piedi come un servo da film muto, poi, dato che con ogni evidenza la bestiola si era finalmente decisa a rosicchiare quei bocconcini, molto sollevato fece un sorriso complice e disse all’animaletto invisibile, ma sottovoce, come per paura che una voce più forte di un bisbiglio potesse ammazzarlo o fargli andare una briciola di patatina per traverso alla gola minuscola: -Tenevi fame eh? Che bestia che sono! La bestia sono io!… Quant’è buono, vero? Fa’ la nanna ora… fa’ la nanna…- e infine si portò un dito sulle labbra abbassando premurosamente la plastica della sporta come se fosse una spessa trapunta.

Dopo tutte queste operazioni, finalmente tornò alla scacchiera; ammiccò al proprio avversario e si mise a canticchiare guardando le barche e l’orizzonte con burattinesca commozione.

-Fa’ la nanna…

 

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Il pescatore, aiutato da due angeli, ha sistemato la rete sulla schiena del mostro (a questo proposito, il pescatore desidera inoltrare una richiesta di risarcimento, almeno della rete, se non di tutto il pesce perduto durante questo periodo di forzata inattività); lo stratagemma del pescatore non rappresenta certo una soluzione definitiva, ma siamo ragionevolmente certi che farà rallentare il cammino della sfinge verso la capanna, lasciandoci così il tempo per riorganizzarci. Giuseppe e Maria sono stati messi al corrente del modo in cui gli eventi stanno precipitando; dopo una alquanto melodrammatica riunione, abbiamo deciso di agire così: i due coniugi, con un po’ di paglia e di sterco, prepareranno due minuscole palline da infilare nelle orecchie del neonato; inoltre a Maria è stata consegnata una corta mannaia cerimoniale, che la donna ha nascosto sotto la veste. Tutti infatti ci siamo trovati unanimi nel riconoscere come sia mille volte preferibile imbrattare di merda le orecchie del Bambino, e persino scannarlo, pur di impedire che la sfinge riesca a sussurrargli anche soltanto una parola.

Riferito per dovere d’ufficio da…”

Seguono le firme di tutti i pazienti dell’istituto, compresa quella di Gianni Sherwood.

 

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(… continua la lettera del prof. Favori al prof. Zanna):

I casi in cui un barsàla abbia attaccato un’imbarcazione sono piuttosto rari, e quasi mai hanno avuto un esito tragico, anche a causa di un handicap intrinseco della creatura; infatti, sebbene la violenza dell’urto, specie per una barca di piccole dimensioni, sia considerevole, non appena entri in contatto con l’aria la lingua del b. perde immediatamente la propria flessuosità muscolare e guizzante, e si riduce istantaneamente ad una sorta di tronco di legno marcito, che si stacca dalla bocca dell’animale e cade sul fondale, formando una caratteristica struttura pseudolignea spiraliforme, che si decompone nel giro di poche ore. La lingua di un b. mutilato può ricrescere, ma quasi mai con la stessa lunghezza e forza della prima: molto più spesso, un b. che abbia perso la lingua si ritrova con una tozza appendice semirigida, lunga al massimo un metro e priva di qualsiasi mobilità né forza prensile, utile al più per lambire debolmente qualche →alga o altri detriti di passaggio. Sempre più denutrito, il b. mutilato perde progressivamente anche la torsione del collo che gli permetteva d’individuare il bersaglio, e ben presto si riduce ad una sorta di marionetta mummificata, di cui è difficile stabilire quali movimenti siano volontari, e quali invece siano determinati dal mero moto ondoso.

(… continua)

 

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LO ZOPPO: (Raccogliendo la stampella che gli era caduta e rifiutando l’ennesima sedia) “Ha detto lei che erano rondini. A me sembravano topi. Era buio. L’ho fatta salire, cosa vuole che le dica, che la lasciavo in quella galleria a correre dietro ai topi e alle rondini? Io so cosa le succede quando le ombre… Ma no, non la conosco, non la conoscevo, io… Certo, poi abbiamo chiamato l’ambulanza cioè mia moglie ha chiamato l’ambulanza quando lei si è messa a… poi siamo arrivati qui e io ho chiesto il divorzio. E poi PUM. No. Preciso: anzi, sottolineo: voglio sporgere denuncia. Anzi, preciso. Voglio parlare con la polizia. Chiamate la polizia. Voglio sporgere una ben precisa denuncia, una denuncia… sottolineata. Capo primo: è stato impedito alla mia persona di salire per accompagnare una persona bi – so – gno – sa. La mia persona non è potuta salire sull’elicottero insieme ad una persona che aveva bisogno di me. È chiaro fino a qui? Alla mia persona è stato impedito di… Sono io, sono io la mia persona, che altre persone vuole che abbia, sto solo usando un linguaggio… Sono io, è l’unica persona che ho, la mia… Io parlo come mi pare, se lei vuol fare a non capire faccia pure, non sarà la prima… Alla mia persona è stato impedito di ottenere informazioni riguardo sua moglie, cioè la mia, sua cioè della mia persona… Sì, sua della mia, parlo arabo? (La stampella cade e viene raccolta) Alla mia persona viene impedito di salire sull’elicottero con una persona che ha bisogno di lei, cioè di me, cioè io. Alla mia persona è stato e ancora viene impedito in questo preciso momento di esercitare i propri diritti garantiti, e tutto questo in un ospedale senza che nessuno si sia ancora non dico immaginato ma nemmeno sognato di chiedermi come sto o almeno come sta la mia persona, anche se mi si stanno incollando le ginocchia e… Sì, infatti, e l’ultima volta mi hanno addormentato e quando mi sono svegliato non avevo più un pezzo di dito. Per questo ora sto così attento e misuro le parole con il regolo. Mai dire io, sennò poi col tuo corpo fanno quello che vogliono. Devi dire “La mia persona”, e così è come se li ammanettassi, capito? Non ti taglieranno via le dita come fossero fettine di formaggio. Sì, ti dico. Mi hanno impedito, a me, cioè alla mia persona, hanno impedito alla mia persona di vedere dov’era finito il suo pezzo di dito, l’han buttato nella spazzatura senza nemmeno chiedere alla mia persona cosa ne pensava… (Stampella)”

 

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Già durante il breve tragitto che aveva dovuto percorrere dalle quinte al pianoforte, il pallore del volto e il tremito delle mani (quasi ridicolmente tardoottocenteschi) avevano tradito la profonda agitazione del pianista, quella speciale metafisica agitazione che rende così simile il passo verso lo strumento al passo verso il patibolo, verso la momentanea indistruttibile barriera che nello spazio del concerto, qualunque cosa accada, qualunque sia il livello dell’esecuzione, lo separerà dal resto dell’umanità come in una specie di contaminatore in cui mescolerà la propria carne a quella estranea e perciò infetta dell’opera.

 

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(Sesto estratto esemplificativo, in attesa di validazione come prova processuale presso il regio tribunale di Briwen, di una lezione di grammatica della sig.ra ***, docente emerita di Grammatica per Adolescenti presso il Pio istituto di S. Satiro per la Gioventù di padre Giorgio Giorgio):

“Ed è così che le persone cambiano e invecchiano e diventano sempre più dure e cattive e alla fine muoiono, pensate solo a quanto eravate diversi quando eravate bambini, a quanto siete diventati più scaltri, e immaginatevi altri cinquant’anni così, a diventare ogni giorno più scaltri, fino ad arrivare alla furbizia perfetta che è quando si muore, ed è tutto per le bugie che non si può evitare di dire e di ascoltare, e sarebbe uguale o ancora peggio se passaste la vostra vita a cercare di essere onesti, pensateci bene, chi è più disonesto di un bambino? perché è lo stesso anche per il corpo e per tutte le particelle che compongono il corpo, capite, c’è sempre un qualcosina che resta fuori finché si muore, sempre, anche nelle cellule, anche nelle particelle, ma questo fatevelo spiegare bene dall’insegnante di religione, o da quello di chimica, uno e l’altro è lo stesso, o di scienze, se una cosa è scientifica vale per tutti, anche per Gesù Cristo, anzi forse soprattutto per lui, altrimenti sarebbe troppo comodo. Anche per Dio, ci scommetto il culo. Chiedetelo a tutti e due. No cretino, non a Dio e a Gesù Cristo, cioè puoi domandarlo anche a loro se vuoi, io dicevo all’insegnante di chimica e a quello di religione– ah sono la stessa persona? meglio ancora, come la trinità senza lo spirito— (sottovoce) Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? Cogliete il sottinteso? (voce normale) Le parole lasciano sempre fuori qualcosa, ed è per questo che cambiano: è l’etimologia, per capire quello che le parole non vogliono più dire (qui è quasi giusto dire che non vogliono, le parole non possono volere ma possono non-volere, però badate, solo se le infilzate mezzo morte dentro un vocabolario), ma perché a un certo punto una parola non vuole più dire quello che ha sempre detto? È per quel tanto di bugia che non possono non dire, qualsiasi cosa dicano, cioè dopo un po’ la bugia comincia a diventare talmente grossa da diventare la parte principale della parola, come quando arrossite perché vi hanno preso in castagna e non riuscite a pensare ad altro: e allora la parola si trasforma, prende un nuovo significato che è quello che all’inizio era la bugia capite? Ma di nuovo resta fuori qualcosa: la nuova bugia, e così via, e così via, e quindi le parole continuano a cambiare e i vocabolari etimologici a vendere copie, beati loro, come i beccamorti. Ma pensateci un attimo: voi non siete forse la bugia di tutto quello che eravate da bambini? I capelli bianchi o la pelata non sono la bugia delle chiome dei giovani, e viceversa? L’albero non è la bugia del germoglio, e viceversa? Vedete come tutto torna? L’uomo non è la bugia di Dio e viceversa? Vedete come tutto torna, qualsiasi sia l’insegnante a cui lo chiedete? Avete preso appunti? Cosa credete, questo è già il modo, queste cose non le troverete in nessun capitolo del libro di grammatica o del Pasto nudo, ve le dico io e voi dovete prendere appunti, o sarete sempre asini di natura senza che nessuna bugia venga a salvarvi.

(… continua)

 

***

 

(… continua la lettera del prof. Favori al prof. Zanna):

Alla fine, perduta ogni sia pur minima capacità deambulatoria (le rare volte in cui muta luogo di caccia, il b. si sposta correndo sul fondale, con un movimento simile a quello degli astronauti sulla Luna), il b. finisce con il diventare una potenziale vittima delle maree, nel caso che la caduta della lingua sia avvenuta troppo vicino alla costa. Infatti, durante la bassa marea, mano mano che l’acqua del mare defluisce e il corpo del b. entra in contatto con l’aria, l’animale segue le sorti della lingua perduta, e si tramuta in una statua grottesca, d’un materiale che come la lingua morta è anch’esso simile al legno marcito. Invertendosi poi il movimento della marea, e ritrovandosi la creatura nuovamente sommersa, il cadavere del b. si decompone molto velocemente, riducendosi in pochi minuti ad un galleggiare desolato di pezzi informi di varia grandezza, bocconi prelibati per le altre creature del mare. Non è ancora chiaro quale sia la durata media della vita di un barsàla, ma da studi molto recenti sembra che tale creatura possa essere estremamente longeva, al limite dell’immortalità.

(… continua)

 

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“La sfinge!” Esclama il nuovo direttore ogni volta che mi fa vedere il rapporto di natale, come lo chiamo io. “La sfinge! Capisce? Dobbiamo insistere. Provi con l’Egitto.” Annuisco, scarabocchio due cazzi sul mio taccuino e me ne vado. L’Egitto, sì. E i Peanuts allora? E Snoopy allora? Non si mette in posizione da sfinge anche lui, a volte, il bastardone? Perché non hanno chiesto a Schulz quando ancora potevano, quando ancora erano in tempo? Forse ora Gianni Sherwood sarebbe guarito, sarebbe fuori di qui senza le sue storie a confonderlo.

 

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Limitarsi ad ascoltare.

 

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Si avvicinò alla massa nera dello strumento.

Per molto tempo, l’uomo di stracci è stato sicurissimo di essere un feroce pirata. Un errore ingenuo, certo; ma in effetti, tutto ondeggiava davanti a lui, ondeggiava avanti e indietro e in su e in giù, e i suoi stracci (la sua carne) sventolavano al sole e al vento come bandiere di morte e di trionfo. E poi, ogni giorno l’uomo di stracci poteva sentire il rumore delle assi della nave, che stridevano sotto la pressione degli abissi. A volte, infine, l’uomo di stracci sentiva da lontano il rumore delle battaglie, la puzza di sangue che saliva allegra e feroce dal ponte fino in cima al pennone, e sentiva il corpo vibrare all’urto delle palle di cannone. Poca meraviglia, dunque, se si è convinto di menare vita corsara: si sa che gli uomini di stracci, come i bambini, credono ciecamente alle avventure.

Spentosi l’applauso, il giovane rimase a lungo fermo davanti alla tastiera, astratto. Dopo un po’, tirò fuori da una manica della camicia un fazzoletto di cotone bianco e si diede a strofinare ciascuno degli ottantotto tasti d’avorio e ebano, talvolta accanendosi con cura furiosa su l’uno o l’altro che gli paressero più sporchi, come se l’esecuzione di quella sera, e persino tutta la sua carriera futura, non dipendessero che da una microscopica chiazza di sudiciume sull’orlo, poniamo, del mi bis-acuto. I tasti premuti dal panno mandavano note tenui e casuali, sempre più acute, che con i colpi di tosse del pubblico sempre più perplesso parevano la stancamente provocatoria esecuzione un qualche duetto à la Cage. Infine, pulito a dovere anche l’ultimo tasto, il pianista rilasciò completamente le braccia, assorbendosi, a quanto pareva, in se stesso.

“Ma la perplessità del pubblico è stata lì lì per tramutarsi in costernazione,” avrebbe scritto il giorno dopo un anonimo recensore sulla pagina di cronaca locale, “quando il pianista, certo sopra pensiero, come un sonnambulo si è cacciato in bocca quello stesso fazzoletto che aveva strofinato sulla tastiera.”

Né il pianista parve accorgersi del proprio errore, nemmeno quando ebbe richiuso le labbra sull’ultimo lembo di stoffa. Il programma di sala si apriva con tre canonicissime e non-provocatorie sonate di Scarlatti.

 

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“Dov’è mia moglie? Le ho chiesto l’elicottero cioè il divorzio…”

 

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L’uomo non riuscì mai a sapere se in quel sacchetto ci fosse o meno un animaletto, come poteva essere un topino o un minuscolo criceto, e c’è da rammaricarsi del fatto che dopo la morte di Gianni detto Gianni tutti i suoi effetti personali venissero sbrigativamente radunati per essere mandati all’inceneritore, insieme con la misteriosa sporta gialla: sicché non si saprà mai se una bestiola, e che tipo di innocente bestiola, abbia trovato quel giorno la morte tra le fiamme. Però per lungo tempo uno degli incubi più frequenti riferiti dall’avversario dello Scacco Matto di Napoli è stato proprio quello di un topolino bianco che strilla disperato mentre fiamme molte volte più grandi di lui lo accartocciano.

 

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“La sfinge!”

 

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Cos’è che davvero si può dare?

 

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Ma ecco che, proprio prima di vibrare i primi accordi della prima sonata, il pianista di colpo sembrò riaversi dal proprio stordimento, e con un aria tra lo spaventato e il disgustato, strabuzzò gli occhi, si portò una mano alla gola e diventò paonazzo; poi, tossendo sempre più forte, sputò fuori il fazzoletto. Il quale mostrò di essersi tanto sporcato che grani di pulviscolo, illuminati dal faro puntato sul palcoscenico, uscirono persino dal naso del pianista mentre il pezzo di stoffa veniva estratto dalla bocca. Poco dopo, molte persone si alzarono dal loro posto e guadagnarono rapidamente l’uscita con passo seccato: era infatti risultato che il fazzoletto bianco era legato a una lunga corda fatta di foulard di seta colorata legati tra loro, di quelli usati dai prestigiatori nelle loro esibizioni.

 

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Cosa puoi darmi?

 

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(Settimo estratto esemplificativo, in attesa di validazione come prova processuale presso il regio tribunale di Briwen, di una lezione di grammatica della sig.ra ***, docente emerita di Grammatica per Adolescenti presso il Pio istituto di S. Satiro per la Gioventù di padre Giorgio Giorgio):

“È per questo che muoiono. Le parole, voglio dire. E anche le lingue, stessa cosa, ma le prime a morire sono le parole: dopo aver attraversato tutte le bugie loro concesse iniziano a morire, una alla volta, fino a che non arrivano nuove lingue e si riparte daccapo, fino a che anche tutte le lingue saranno morte. Come capire che stanno morendo? Lo capiremo quando in tutto il mondo non si parlerà d’altro che di mangiare e scopare, e poi più niente, perché per mangiare e scopare le parole servono poco, e alla fine si tornerà a fare come le scimmie e se solo qualcuno si proverà a raccontare o a riordinare in un’interessante composizione di suoni quello che ha fatto quando era da solo tutti gli altri saranno ormai talmente disgustati dal cumulo di bugie contenuto nelle parole e accumulato attraverso i secoli che o non capiranno niente o lo ammazzeranno. È vero che certe parole sono o sembrano quasi immortali. Perché quasi (sottolineo: quasi) non dicono bugie. E. O. Ma. Amore? Guerra? Morte? Sono come gli dèi. E. O. Ma. C’è chi dice che non siano nemmeno parole. Ma questi dèi copulano con le altre parole. Questo vorrà dire qualcosa, o no? Musulmani. Quattro mogli. Però per le parole è l’inverso. Notate bene. Noi cioè i musulmani quattro mogli, loro cioè le parole quattro mariti. Qual è la bugia detta dalla parola E? Ecco un bel compitino per i più grandi grammatici… lo cogliete l’aiutino? Chi mi chiedeva del prossimo tema di italiano? Qual è, qual è la bugia detta dalla parola E? Quando anche quella bugia sarà rivelata… Le prime società erano matriarcali perché non avevano capito come nascevano i bambini e pensavano che le donne avessero questo potere magico, e gli uomini servivano solo per uccidere. Non che poi adesso… In società di questo tipo, matriarcali o musulmane o tutt’e due perché no, finisce che i pochi più forti rappresentanti di un genere, non importa se maschile o femminile, si accaparrano la gran parte dei rappresentanti del genere opposto, insomma siamo in un rapporto di 4 a 1, e le conseguenze sono ovvie anche se non sotto gli occhi di tutti: omosessualità nei rappresentanti deboli del genere dominante, ed ecco come Burroughs entra in scena, vedete come tutto torna, religione, società, grammatica? Ecco perché si dice che adesso la grammatica è generativa. Chiaro no? Quindi: le donne, gli uomini. Chi sono le donne nelle parole? I verbi. Le azioni. Tutti penetrano i verbi, penetrano le azioni, quando tu per esempio sposti il banco, no davvero, sposta il banco così tutti quanti capiscono, ecco, vedete? ha spostato il banco: hai spostato il banco e così hai penetrato l’azione di spostare il banco, e il banco a propria volta ha penetrato l’azione di essere spostato. Capite? Tutti penetrano i verbi, e nella penetrazione i verbi si accendono. I poeti sono quelli capaci di creare accensioni cioè penetrazioni spaventose (vari complessi gesti osceni non facilmente descrivibili nello spazio di una didascalia), e le parole finiscono col dire talmente tanto ed essere unite e penetrate una con l’altra in modo talmente intricato e folle che finiscono per sprizzare fuori anche tutte le loro bugie, sì, ecco a cosa servono i poeti, a far sprizzare fuori tutto da quelle troiette in calore. In culo, in fica, in bocca alla stessa parola, e parliamo delle più tradizionaliste tra le azioni, di (gesto virgolettante delle dita ripetuto e fluidamente trasformato in un ennesimo gesto osceno) “normalissimi” sonetti di Petrarca, ma ce n’è per tutti i gusti e tutte le cosiddette età, ci sono anche le mani e gli orecchi ovvero le orecchie a seconda delle inclinazioni dei soggetti, naturalmente, e infine per gli stomaci più forti ci sono gli occhi, giusto, molto ben detto penetrazione negli occhi, esatto, ma normalmente per quelli occorre un poeta coi fiocchi. Ho sentito di un tale che riusciva anche a penetrarle dall’ombelico dopo averci fatto un buco con il coltello. Ah ah ah, è vero, occhi/fiocchi: non me n’ero nemmeno accorta. Ah ah ah. Sì. Ridete. Ridete, vi dico. Va bene ridere ogni tanto. Sì, ridere è ok, come dite voi ragazzi. Ah. Ora però torniamo all’analisi logica. Dicevo di quel tipo che ti penetra per l’ombelico dopo averlo bucato con un coltello. Anche noi potremmo farlo (guarda il bidello; sospira)”.

 

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La lunga corda variopinta usciva ininterrotta dalla gola del clown, e sembrava non avere fine.

 

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Cosa posso darti?

 

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I bocconcini si mangiano, i fantasmi si respirano.

 

[continua l’11 settembre]

PA11 - Fine