La stagione delle processioni

Francesco Lauretta, Tutto quello che puoi è niente, olio su tela, cm. 149x216, 2007

Ieri, fino a tarda sera, gli operai del Comune hanno piazzato gli altoparlanti sui balconi lungo la via centrale, poi hanno tirato cavi tra un altoparlante e l’altro, poi hanno fatto una o due prove audio. Gli altoparlanti funzionavano benissimo, come ho potuto constatare anch’io dal mio letto. Non è una sorpresa: da tempo so che è arrivata la lunga stagione delle processioni – religiose, civili, sportive, umane o animali, non importa. Essenziale è che si marci, prima la banda municipale, le autorità davanti, le bandiere, i ceri, e dietro gli appassionati, tutt’attorno gli sfaccendati. La cittadina celebra se stessa, sfila di fronte a se stessa, le vecchie generazioni dinanzi alle nuove, le nuove dinanzi alle vecchie, le bestie dinanzi agli uomini o viceversa. Gli altoparlanti amplificano il suono della banda, oppure quello dei cori. In mancanza di meglio, si mandano vecchi dischi di musiche locali, di quelle che fanno sussultare i cuori dei più anziani, purché dotati di auricolare.

Essenziale è che sia musica in quattro quarti. Il tre quarti non si presta al passo di marcia, fa incespicare, provoca confusione e proteste, ogni passo deve essere pensato, altrimenti si va giù, faccia a terra, o si scivola addosso a quello davanti, con il rischio di provocare il noto effetto domino che, con l’andazzo di oggi, finirebbe su youtube dopo due secondi. No, meglio, mille volte meglio il quattro quarti, che ha funzionato per secoli, ha guidato gli eserciti, vuoi mica che non possa guidare dieci assessori o un paio di confraternite?

Quale sarà il pretesto per sfilare, domattina? Il santo patrono? No, non è il giorno giusto. Un nuovo santo patrono? Non credo si usi cambiare così spesso – è già stato fatto qualche anno fa, un rapido cambio di guardia tra un vecchio patrono poco presente e forse mai esistito e uno nuovo, appena un paio di secoli sulle spalle, fresco di martirio, praticamente un ragazzetto. O sarà una ricorrenza civile, l’ardua difesa dalle mire di un nemico, una vittoria inaspettata, una brillante campagna militare? Improbabile anche questo, siamo da millenni terra di conquista, no anzi, nemmeno, di passaggio, di vacanze, ecco, di villeggiatura, la Storia (si noti la maiuscola) da queste parti è sempre passata di sfuggita, una lunga, distratta serie di mordi e fuggi, eserciti a gran giornate, o magnis itineribus, nemmeno il tempo per fermarsi a razziare, giusto la pipì al volo, al limite una bottarella e via. Un evento stagionale, allora? Le messi, che so, i fieni, la raccolta dell’uva, l’imbottigliamento dei vini, la posa dei tuberi? Vediamo, in che stagione siamo? In nessuna stagione, direi. In ogni caso importiamo praticamente tutto. L’inizio dell’anno accademico? Non abbiamo Università. Dell’anno scolastico? E che ci sarebbe da festeggiare, in tal caso? Nel dormiveglia (perché questa, signori, è la trascrizione di un dormiveglia, quando son lucido vedo un po’ più in là) vado avanti con altre ipotesi. Hanno posato l’ultima pietra di qualche annosa grande opera (o fabbrica, all’antica) cominciata un secolo fa? Han fatto santo a Roma uno del luogo? Gli occhi di una statua di Madonna hanno lacrimato? Si è scoperta in un ambiente isolato una specie ritenuta estinta? L’Uomo Selvatico è davvero tra noi? Stiamo per invadere la regione vicina e c’è da scaldare un po’ gli animi?

Tra me sogghigno, a immaginare i maggiorenti della città in coda dietro a una teca contenente reliquie, o alle bovine campionesse del latte. Li ho già visti sfilare dietro un gonfalone, gli amministratori compunti, le braccia conserte, lo sguardo basso – puntato discretamente sulla mano nascosta, che regge il cellulare, il pollice in agitazione sui tasti. Levano gli occhi solo per osservarsi riflessi sulle vetrine dei negozi, controllare il passo, sbirciare come cade l’abito, se il ventre non protende troppo, se qualcuno da dietro non fa scherzi. Si vedono marciare all’unisono, ombre riflesse tra i prodotti in vendita, i salumi, i cesti, la biancheria, le icone sacre taroccate, i fusi di carne gocciolante dei kebab, i capi d’abbigliamento della prossima stagione, i formaggi, le scarpe, i telefonini, tanti telefonini. Qualcuno, d’improvviso colpito da uno di quei prodotti, rallenta, incespica, poi riprende il passo arrossendo appena, lancia un sorrisetto che implora indulgenza ai colleghi. Li osservano le commesse dall’interno di quei negozi, impassibili, mute, le braccia conserte anch’esse.

 

Mi sono sempre chiesto (nei dormiveglia, quando anche i pensieri più oziosi pesano come rimorsi) come finiscano queste processioni. Prima o poi, rimugino, ne seguirò una, fino in fondo, fino a che il gonfalone non viene posato, la banda non tace, le confraternite non si sfaldano verso i bar, i reggitori di ceri non accatastano i ceri e si tengono le schiene doloranti, i preti non chiudono gli innari, i chierichetti non si sparpagliano a giocare, le campionesse del latte non vengono riportate sui camion, gli scout non corrono a cambiarsi, ed è tutto un rispondere ai cellulari o agli auricolari, un parlare da soli a voce troppo alta, un gesticolare al vento, un ridere forzato. I funzionari più in vista già li so fuggiti prima, al primo angolo di strada, una volta superato il centro cittadino e scemata l’attenzione del pubblico – simulano una chiamata urgente, levano le braccia in segno di scusa, ammiccano ai colleghi e si defilano in un vicolo, dove li aspetta un sottoposto con una cartella, o una donna che vorrebbe tanto trovarsi altrove.