Teschi dimenticati

Da qualche giorno è in libreria il nuovo libro di Claudio Morandini, Neve, cane, piede (Exorma edizioni). L'autore ha offerto a ZIBALDONI un capitolo inedito del romanzo, presentato qui con una riflessione introduttiva.

di in: De libris

Quando un libro [Neve, cane piede, ndr] è finito, anzi è già passato attraverso il vaglio di molteplici letture e diverse paia d’occhi lo hanno limato, ricomposto, spulciato per bene, ed è giunto il momento di accompagnarlo in giro, nelle presentazioni, nelle interviste – ecco, proprio allora il libro pretende di essere ancora vivo, di avere altro da dire. I personaggi vi si agitano ancora, arzilli più di prima, ed esigono spazio e pazienza. Vorrebbero vivere altre avventure, o almeno essere coinvolti in altre situazioni. Si accontentano anche di poco, una comparsata in una paginetta occasionale, un cameo in un booktrailer, magari una rentrée in un altro libro. Sono come quegli ospiti che, accompagnati alla porta di casa, quasi congedati dopo una serata piena di chiacchiere, trovano lì per lì altri argomenti, e si riparte daccapo, in piedi, al freddo. Io non so mai dire di no ai miei personaggi: è capitato con “Rapsodia su un solo tema”, che ha generato inediti anche a distanza di anni, sparsi su riviste, su blog e su programmi di sala da concerto; è capitato con le partecipazioni straordinarie di alcuni vecchi personaggi in “A gran giornate”. Adelmo Farandola, il protagonista del breve romanzo “Neve, cane, piede” pubblicato con cura ammirevole da Exòrma è ancora qui, insomma, qui tra noi, nonostante la fine che farà: così, dopo l’uscita in libreria (il 26 novembre), non ho saputo rinunciare a mettere per iscritto un paio di episodi che avrei potuto inserire nel romanzo ma avrebbero alterato l’equilibro delle parti, o avrei potuto scrivere ma mi sono venuti in mente troppo tardi. Questa che segue è una di quelle pagine – chiamatele appendici, postille, extra, bonus o come vi pare. Da sola, qui su Zibaldoni, ha un suo perché, mi pare.

 

*

 

Con il sacco in spalla, Adelmo Farandola scende al villaggio. A metà percorso già si chiede perché è in marcia, dove va: la direzione è verso il basso, dunque punta a valle. E giù c’è il paese, ci sono le case, c’è la gente – anche se di sicuro non scende per loro. Ma per ritrovare il motivo esatto deve fermarsi, posare il sacco su un tronco di pino abbattuto, aprirlo. Dentro vi scopre teschi di animale, anzi di camoscio. Li conta, li riconta: sono una decina, lustri, belli, adatti a fare da soprammobile in una casa signorile. Li studia ammirato, indugia ad accarezzarne un paio, sente l’osso liscio, le corna decorate come sculture. E tutto senza bollirli, senza usare alcool o candeggina o altri prodotti da signorina: solo coltelli e, all’occorrenza, denti. Sono freschi i teschietti, gli pare che gli sorridano, che abbiano voglia di parlare, di ringraziarlo, ma non osino, sono timidi.

E dove li porto questi? si chiede. Era meglio se me li tenevo per me. Poi ricostruisce: in passato ha consegnato i teschietti cornuti alla donna del negozio, come si chiama, e lei li ha apprezzati, glieli ha pagati in bottiglie di vino e viveri e li ha venduti tutti ai turisti – c’era la fila fin fuori, sono andati a ruba. Gli pare proprio che sia andata così. Ecco perché scende, perché è lì con il sacco sulla spalla sul sentiero che precipita a valle. Lui quello fa: cerca i camosci morti nei nevai, li disseppellisce, li spolpa, secca le carni, o insomma ci prova, e i teschietti cornuti li ripulisce per bene e li fa vendere. Per quello scende. Quei coglioni di città ne vanno matti, si fanno tre ore di macchina per arrivare fin lì, stanno in coda fuori dal negozio e poi rimontano in macchina e si sorbiscono altre tre ore di autostrada – li vogliono in bell’ordine sulle credenze delle loro case signorili, i teschietti, o incorniciati come ritratti di parenti.

Rincuorato, Adelmo Farandola riprende a camminare lungo il sentiero scosceso, inciampando dove è già inciampato chissà quante volte, imboccando deviazioni che si era già detto non di imboccare più, scivolando sugli strati di aghi di conifera che in autunno restano a fermentare e si gonfiano insidiosi e ti aspettano come animali in agguato. Ogni tanto, nel bosco fradicio, un tanfo lo distrae, lo rallenta: e certe macchie opache, che parevano merde di vacca, si rivelano fungaie in disfacimento in cui niente è più distinguibile. Magari sono ancora buoni, si dice Adelmo, più per l’odore che per l’aspetto di quel marciume. Si china, ci infila dentro un dito, assaggia, aspetta una reazione: lo stomaco quasi subito approva, con un gorgoglio. Questo è buono, pensa allora il vecchio, questo non mi fa secco. Magari al ritorno ne raccolgo un paio, e stasera polenta e funghi, non ci sarà nemmeno bisogno di cuocerli, sembrano già cotti così.

Arriva al villaggio, bene o male, supera le prime case, gli orti in cui, a parte i cavoli sull’attenti, è tutto un deposito di avanzi e immondizie. Dà un’altra occhiata al sacco (to’, dei teschietti cornuti). Punta allora al negozio, che è da anni l’unico luogo del villaggio che visita.

– Lasci pure aperto, Adelmo – sospira la signora del negozio, quando lo vede entrare. È sola, dietro al bancone, sta leggendo un giornale. C’è un buon odore di dolci e di vino, lì dentro.

– C’è un buon odore – dice Adelmo.

– C’era, vorrà dire. Che cosa desidera?

La donna è diretta, e lui non riesce a guardarla negli occhi a lungo. Se facessero una scommessa a chi fissa più a lungo l’altro lui perderebbe subito, perché lei nemmeno sbatte le palpebre, ha uno sguardo pungente da rapace.

– Li ho portati – bisbiglia Adelmo Farandola, guardando altrove, verso certi manifesti ingialliti.

– I soldi? Bravo, se ne è ricordato, finalmente – fa lei.

– No, non i soldi – si confonde lui. Quali soldi, pensa intanto. Deve dei soldi? E per cosa? E quanti?

Lei tace, aspetta, le braccia conserte. Visto che il vecchio non reagisce, si addolcisce in un sorriso di incoraggiamento e sbatte una volta le palpebre.

– Non i soldi – ripete lui.

– Ho capito, Adelmo. Che cosa allora?

– I cosi. I teschi! – dice lui, allegro perché se ne è ricordato senza troppa pena. – I teschi!

Prende il sacco, lo posa sul bancone, ci infila le mani, raccoglie due di quei crani cornuti, uno per mano, li solleva, li accarezza con lo sguardo.

– I teschi – sottolinea.

– Ma le avevo detto che non…

– Sono belli, tocchi.

La donna resta a braccia conserte e si irrigidisce ancora un po’.

– Essere o non essere – sibila, con enigmatico sarcasmo. – Guardi che non ne volevo più. Gliel’ho anche detto.

Adelmo Farandola rimane con le mani protese, sulle palme i due teschi di camoscio dall’espressione perplessa e allarmata.

– Sono belli – ribadisce debolmente.

– Adelmo, io le voglio anche bene, ma non sono così belli, sa? Fanno senso. Non li vuole nessuno. Nessuno li comprerà.

– I turisti – suggerisce lui.

– I turisti li guardano schifati. Dicono che i bambini si spaventano. Io mi vergogno pure a mostrarglieli di nascosto, non voglio farlo più. Solo un tale, una volta, ne ha voluto uno. Ma era un tipo davvero strano, sa. La gente normale – e su questo “normale” calca la voce, come faceva da ragazza quando era supplente alle elementari del villaggio – non li può apprezzare. E se vengono a fare un controllo, se me li trovano sotto il bancone, o di là? Sa che mi possono chiudere il negozio? E poi…

Si avvicina di poco, strizza gli occhi, trattiene il respiro, quasi li sfiora con la punta del naso i suoi teschietti. Adelmo è colto da un fremito di spavento.

– E poi a questo manca un corno. E il cranio di quest’altro è sfondato. E non sono nemmeno stati ripuliti bene. Fanno proprio senso, sa, Adelmo?

Adelmo Farandola ritrae le mani, ferito, incerto. Li osserva a sua volta, li annusa. È vero, la donna ha ragione, uno è incrinato, l’altro ha un corno solo, e sono rimasti attaccati all’osso qualche tendine, qualche lacerto annerito di muscolo, un paio di peli. Quasi non si nota però.

– Lo dice lei che non si nota – gli legge nel pensiero la donna. – E non le importa che cacciare queste povere bestie è contro la legge? Quante volte glielo devono ripetere che non si fa, che si rischia una multa salata o peggio un processo? Il suo amico guardiacaccia glielo avrà ribadito un giorno sì e l’altro pure. Lo sa lei che quel ragazzo rischia di suo, a lasciar sempre correre?

Di che cosa parla adesso la donna? Il vallone è suo, suo di Farandola Adelmo, lo ha comprato lui, e tutto è suo lassù, dalle bestie ai sassi. Se vuole fare una strage di camosci è padrone di farlo, anzi quando tornerà su all’alpe prenderà il fucile, giusto per ribadire il concetto, e via ad ammazzare bestie: non ne rimarrà una viva, neanche un topo, neanche una cavalletta! Correrà da un angolo del vallone all’altro con il fucile, e quando finiranno le cartucce passerà al forcone, e quando si romperà il forcone userà le unghie. E dopo le bestie toccherà alle piante, e fino al più esile filo d’erba tutto sarà divelto e stroncato, e alla fine neanche i vermi nella merda potranno render grazie al Signore, neanche il muschio.

– Adelmo? Mi ascolta o no?

La signora gli sta parlando.

– Non si distragga che poi mi tocca ripetere.

 

Adelmo Farandola esce sperduto dal negozio. Il sacco è tornato sulla spalla, e lì sballonzola e snacchera sulla strada del ritorno.

E io ci faccio il brodo, allora, pensa il vecchio.

Poi, però, uscendo dal paese, appoggia un teschietto sul ripiano di una cappella, quella con la statuetta del tizio barbuto e armato di bastone che porta sulle spalle un mocciosetto dall’aria saputa. Compiaciuto per quel gesto che gli sembra bello (ogni tanto bisogna concederseli, i gesti belli), pochi passi più in là infila un altro teschietto sulla punta di un bastone piantato in un orto, così presidierà i cavoli. Ne lancia un altro a un cane, che gli risponde con un guaito di ringraziamento e dopo aver sgranocchiato con furia quella merenda d’osso lo seguirà languido, per un po’, sperando in un secondo premio. Un altro teschietto finisce in un prato. Un altro paio – com’è giusto – sono buttati dentro al cimitero. Da lì dentro, da dietro il muro, qualcuno lancia un improperio che fa ridere Adelmo e anche, più sommessamente, gli ultimi teschietti rimasti nel sacco.