Caccia alla Madonna

Francesco Lauretta, Idola, olio su tela, 1998

Visto che mi avanza qualche ora e stare in casa mi deprime, metto la giacca ed esco in cerca di Madonne. Non è difficile scovarne: la città ne è piena. C’è da chiedersi perché: capisco le figure sacre nelle cappelle dei crocicchi di montagna, là dove la vita un tempo era più dura e grama, le strade lunghe e erte, il dolore di vivere più forte; ma per cosa avevano bisogno di Madonne i paciosi borghesi di città? Fatto sta, dalle mie parti ce n’è a bizzeffe. Alcune sono ancora in buono stato, hanno colori vividi, facce ben definite, espressioni pugnaci, l’aria di chi ti ferma per cantartene quattro. Altre si vedono appena, le intemperie le hanno quasi lavate via dai muri, sono pallide ombre tra il rosa e l’azzurrino, e non sapresti dire se ti guardano benevole, o se guardano altrove. Altre ancora sono cadute sotto i colpi di spray degli imbrattatori notturni, che anche qui si danno parecchio da fare, sui muri del centro, e le hanno ricoperte di segnacci, scritte impertinenti, sgrammaticature, slogan demonologici, baffi e occhiali. Di altre Madonne, ormai scomparse del tutto, si sa che erano lì, su quel muro, in quell’edicola, ma ormai non si vedono nemmeno più, e solo qualche vecchio pio se le ricorda, e arrivato lì, in presenza di quell’assenza, rallenta, si segna, farfuglia qualcosa che potrebbe essere un accenno di preghiera, e riparte. Quelle messe peggio – di Madonne, intendo – mi sembrano però quelle restaurate, colorate di colori nuovi, nitide e esagerate come se ci avesse messo mano, che so, Jack Kirby: occhi contornati, bocche gonfie e rosse, guance rubizze, un’espressione di tragedia caricaturale, lacrime che vengono giù come sangue, quelle cose lì.

Qualcuna tiene il piede su un drago, o un serpente, o una creatura mostruosa tra il batrace e il felide: e sembra che ci siano capitate sopra per caso, e che non se ne siano nemmeno accorte. La bestia se ne sta lì sotto, l’espressione perplessa, non sa se reagire, non osa divincolarsi, tantomeno mordere: guarda in su, aspetta che l’altra faccia una mossa, oppure guarda avanti, come se cercasse testimoni, come durante gli incidenti (“Avete visto? Mi è venuta sopra lei, io non c’entro”). La Madonna, che pure è scalza, non tradisce ribrezzo: guarda avanti anche lei, placida. So bene che quell’espressione incerta è frutto, come tutte le altre incertezze, dell’imperizia dei pittori, di quei modesti imbrattamuri che sin dal Medioevo e fino a mezzo Novecento hanno battuto le valli più impervie per realizzare approssimative scopiazzature di opere più celebri e sofisticate. Riconosco con una sorta di affetto le magagne che erano i loro tratti stilistici: l’incapacità di fare le mani, le pose da impalati, le teste sproporzionate, sempre troppo piccole o troppo grandi, l’impotenza di fronte alla rappresentazione dei bambini, che vengono sempre fuori come nani, o omuncoli, o piccole scimmie, la pesantezza dei panneggi che sembrano sempre usciti da un bagno nel fango, le ombre incerte tra destra e sinistra, gli occhi spiritati. Sono queste incertezze che li rendono riconoscibili, questa impotenza che li connota: ecco il Pittore dei fianchi sghembi, ricercatissimo nelle cappelle del nord ovest; ecco il tocco inconfondibile del Pittore delle Smorfie, che costringe tutti i santi che dipinge a fare boccacce che non sai se di sofferenza o di gioia; ecco il Maestro delle Quattro Dita, che ogni tanto si dimentica del mignolo nelle mani benedicenti; ecco il misterioso Maestro delle Orecchie Messe un Po’ a Caso, che ha anticipato di qualche secolo il cubismo; o quello degli Angioletti Brutti, umanissimi mostriciattoli che svolazzano a caso nei dipinti sbattendo qua e là come grossi maggiolini contro i vetri.

Procedo nel mio giro. Una Madonna chiacchiera con un paio di santi, che l’anonimo artista vorrebbe vecchissimi: si vede che la signora è a disagio, rispetta l’etichetta e si mostra gentile ma è come se le fossero entrati in tinello due barboni puzzolenti. Un’altra Madonna tiene le mani larghe, i palmi verso il basso: e da quei palmi si dipartono raggi luminosi, una roba molto fantascientifica, superpoteri da disegno animato, che scivolano giù per il muro, si irradiano sui fedeli, sui passanti, e viene spontaneo girare al largo, perché non si sa mai. Una Madonna tiene in braccio qualcosa che potrebbe essere un corpo esanime (è un corpo, infatti, quello di suo figlio appena calato dalla croce, ma lo si intuisce solo perché si sa come sono andate le cose), e con il capo reclinato prova a esprimere un dolore disumano.

Insomma, mi piacciono le Madonne – più quelle lasciate andare in malora che quelle restaurate grazie alle donazioni di qualche mecenate preoccupato per la sua anima. Mi piacciono perché sono brutte, strambe, perché hanno fisionomie incerte, anatomie improbabili che nemmeno i pesanti panneggi riescono a coprire, perché non fanno davvero paura e non fanno venire sensi di colpa, almeno a me. Le vedi appese lassù, sul muro, avvolte in quelle vesti pesanti come carne, perennemente afflitte (afflitte per contratto, verrebbe da dire): e finisce che solidarizzi con loro, epassi a trovarle per dar loro conforto, in un certo senso, non per riceverlo. Poi, quando torni a casa, scopri di stare meglio, senti di aver fatto qualcosa di buono, e non ti levi per un po’ quel mezzo sorriso benaugurante che sfoggiano i boy scout.