Huetor Vega

di in: Bazar

Julian Wasser, Eve Babitz and Marcel Duchamp

Egli distruggerà la morte per sempre

Isaia 25:8

 

1

 

Ah gli ultimi spasmi di umanità…

Erano loro che condannavano Huetor Vega a soffrire di un dolore che saliva dal retto e, attraversandogli in un baleno la metà superiore del corpo appesantito dagli anni, lo costringevano a una smorfia così innaturale?

Gli innumerevoli assalti del tempo ci possono trasformare in blocchi di argilla, possiamo perdere la formula che in gioventù ci ha reso padroni del mondo, possiamo perfino rinnegare la nostra esperienza passata, ma non è possibile perdere il sigillo che la felicità ha impresso nella nostra anima la prima volta che siamo entrati in Eraton.

Da quando quella smorfia umana si era stampata sul volto di Huetor Vega?

 

2

 

Me lo chiedo ancor oggi, a sedici anni di distanza, sedici anni spesi nel vano tentativo di ascoltare l’eco lontana del tramestio dei tacchi a spillo della mia ultima amante mancata, Magda, sulla ghiaia di questo piccolo cimitero.

I vivi non si rendono conto di quanto sia difficile per i morti restarsene tranquilli. Soprattutto per i morti da soli sedici anni, non ancora adulti, i morti come me, che non hanno molta esperienza, che stanno compiendo il loro apprendistato, che non hanno trovato il loro posto in questo mondo e che come vagabondi si aggirano di tomba in tomba alla ricerca di un maestro, di un vecchio morto che possa loro inculcare qualche lezione di vita, o meglio di morte, un vecchio defunto che mostri loro la strada della saggezza, che è un altro nome dell’oblio. La natura umana, soprattutto quella di un morto immaturo e frastornato dall’assenza di prospettive, non è in grado di sopportare il silenzio senza ribellarsi, senza dare un segno di vita, o meglio di morte, senza almeno fingere che il tempo faccia la sua parte. In altre parole, ai giovani morti come me l’eternità va stretta. Per questo non hanno altra scelta che trasformarla in un punto di vista. Così eccomi qui a ricordare e a morire, a morire ricordando. Ma lasciamo stare…

 

3

 

Huetor Vega! L’ultima volta che entrai in Eraton scendeva le scale della sua nuova casa che si arrampicava su una collina all’epoca della vittoria del comandante Balla d’Or contro i cavalieri rotanti di Al’ Husayni. Miliziano pluridecorato, giunto alle soglie della maturità, aveva deciso di investire i proventi di tante battaglie in un’avventura immobiliare. Purtroppo aveva costruito la sua casa su una cloaca a cielo aperto, cosa di cui si era accorto troppo tardi. L’impresa, dopo un anno, a causa di una bolla economica, si trovò sull’orlo del fallimento, che si verificò puntualmente di lì a poco, mandando in fumo non solo i suoi risparmi di guerra ma anche la piccola eredità che Myriam, sua madre – «ogni nome di donna è come il principio del mondo» –, gli aveva lasciato prima di morire.

I nemici avevano sacrificato con riti orrendi il suo corpo. Da quel giorno Huetor Vega, abbandonata la milizia e gli affari, non aveva fatto altro che scendere le scale del tempo fino a quando il tempo lo aveva condotto a un bordello sulla costa.

 

4

 

La morte della madre gli aveva procurato un picco di virilità. Che senso dare all’evento? Non avendo più niente da perdere né potendo conoscere la differenza tra un uomo di Eraton e il suo alter ego in carne e ossa, e desiderando inoltre non tradire la propria storia di figlio primogenito, scelse la via della fede.

La sua commovente quanto inaspettata primavera sessuale, giunta per altro nell’autunno della sua esistenza, non era che un dono che sua madre gli aveva concesso perché il suo «tesoro» – così lo chiamava quando faceva ritorno dai campi di battaglia, «il mio tesoro» – potesse vederla di nuovo per poi un giorno, mano nella mano, incamminarsi insieme verso la resurrezione. Huetor sembrava esserne sempre più convinto: il giorno del Giudizio Universale il corpo gli sarebbe stato più necessario di qualsiasi altro giorno della sua vita.

Penetrando ogni notte nei labirinti di una donna diversa, avrebbe avuto la possibilità di vedere il corpo di sua madre – «ogni corpo di donna è come il principio del mondo» –, non quello straziato dalle ferite, ma quello meraviglioso di quando Myriam, giovane sacerdotessa di Eraton, lo aveva concepito, il corpo che non aveva conosciuto, che non riusciva a sognare e che la memoria di primogenito aveva rimosso dopo quaranta giorni di lutto. Sperando nella fine dell’era tecno-messianica che gli era capitato di vivere, Huetor Vega cercava di ritrovarlo illeso mondo del sangue degli infedeli sbattendosi ogni notte una puttana che, come avrebbe presto constatato, si esprimeva sempre in un idioma diverso.

 

5

 

Non potendo contrastare il movimento cosmopolitico della prostituzione, esploso in tutta la costa occidentale verso la fine del secolo, aveva cominciato a sacrificare buona parte del suo tempo allo studio delle lingue. Durante il giorno, sebbene tramortito dagli effluvi mefitici che dal giardino salivano attraverso le tubature e inondavano ogni metro quadrato del suo appartamento al primo piano – una maestosa pianta di glicine si ergeva da terra fino al suo piccolo terrazzo come un inutile baluardo – tentava, con il capo stretto nella morsa delle mani, di sillabare alcune frasi in russo, in ucraino e in rumeno che, a detta di alcuni nobili della zona, rappresentavano il nocciolo duro del codice linguistico del bordello. Di notte, la testa in fiamme, disteso sul letto, accanto alla puttana di turno, ripeteva mentalmente quello che tra miasmi e conati aveva appreso durante il giorno.

 

6

 

Goleeeem – gli esplose in gola, mentre Marija, una delle prostitute più richieste, si stava già ripulendo le labbra con un lembo del lenzuolo.

Da dove spuntava fuori quella parola? Sua madre Myriam gli aveva imposto la lettura del Vecchio Testamento, ma lui, il suo «tesoro», non l’aveva mai presa sul serio: non si capacitava di come un popolo eletto potesse avere avuto una storia così disgraziata. I nobili di Eraton gli avevano forse mentito? Frequentava un covo di puttane ebree ortodosse allergiche alla loro millenaria precettistica e lui, per quanto blasfemo e sofferente ma pur sempre loro consanguineo, non se ne era accorto? No, doveva trattarsi di qualcosa di diverso. Una frase sentita per la strada o al cinema. Non aveva forse rivisto da poco Come venni al mondo di Wegener?

 

7

 

Huetor se lo sta ancora chiedendo, ma io che sono il Signore dei ricordi non posso dimenticare. Era stato l’alter ego in carne e ossa di  Schlusnus, il suo compagno di tante battaglie, a pronunciare quella parola qualche giorno prima.

Ebreo di Sarajevo sposato a una giovane musulmana, il padre di Schlusnus era dotato fin dalla nascita di una tale autostima che il giorno della calata in città dell’esercito serbo aveva appeso sulla porta della sua casa, miracolosamente ancora in piedi dopo il più lungo assedio della storia bellica moderna, un biglietto su cui aveva scritto queste parole: «Qui abita un genio. Prego non disturbare».

Si dice che avere a che fare ogni giorno con la morte affini il senso del comico. La mia posizione dovrebbe soccorrermi nel giudicare tale massima, tuttavia, vista la mia ancor breve permanenza in questo mondo, preferisco passare oltre come i due soldati discendenti dalla stessa famiglia di cetnici che si erano guardati negli occhi e dopo aver crivellato di colpi la porta di casa Schlusnus – tutti desiderano lasciare un segno del loro passaggio – se ne erano andati ridendo per la loro strada. Pochi giorni dopo, con l’aiuto di un amico contrabbandiere, il padre di Schlusnus e sua moglie Jlham erano riusciti ad attraversare il Tunnel e arrivare nel territorio libero sani e salvi. Dopo un mese trascorso come ratti in una cantina del quartiere ebraico di Novi Sad, passarono il confine ungherese a bordo di un camion che trasportava carne macellata a Budapest. Da qui il loro destino di profughi, a causa di una lite matrimoniale, sembrò subire un arresto. Lontano da Sarajevo, entrambi si stavano trasformando in blocchi di argilla nelle mani delle rispettive famiglie.

Il tempo sullo schermo sembrava essersi fermato, mentre la Storia procedeva a una uscita forzata.

Il padre di Schlusnus non si scoraggiò. Chiamò il capo rabbino e si fece mettere in contatto con la mafia ebrea che controllava una parte consistente del mercato della prostituzione. In cambio di qualche lavoretto di Jlham, la coppia ottenne un passaggio clandestino a Vienna e, dopo una notte nel Ring sotto la pioggia, giunsero nel sud della Francia, a Marsiglia. Ci furono alcune settimane di inutile attesa fuori dal consolato della neonata Bosnia-Erzegovina. Poi la coppia (il padre di Schlusnus si fece passare per un pappone) si unì a un gruppo di prostitute dell’Europa centrale in partenza per la costa spagnola. Il cargo giunse senza intoppi ad Algeciras. Scesero all’Hotel Octavius, il cui proprietario, come Dio ad Abramo, primo patriarca dell’ebraismo e dell’Islam (per cui anche Jlham non ebbe nulla da dire), rivelò loro che il viaggio era finito. La cabala di Sefarad aveva funzionato ancora una volta.

 

8

 

Huetor Vega lo aveva incrociato scendendo le scale del bordello. Non si era sorpreso. La smorfia umana che aveva stampata sul volto si era leggermente illuminata. «Che ci fa qui, Schlusnus? Sei in licenza?». «Macché» – gli aveva risposto il figlio del genio che, dal giorno in cui la fuga di suo padre era finita, andava sempre di fretta – «La guerra qui a Eraton non finisce mai. Non ti sei accorto che ci stanno trattando come dei Golem?». «Che vuoi dire?» – gli domandò Huetor. «Siamo loro schiavi. Nobili, guerrieri, prostitute, sacerdotesse, veterani: siamo tutti blocchi di argilla informe che possono plasmare a loro piacimento. Ma con me avranno pane per i loro denti! Io ho inventato Mutant Fighter! Tu stesso, subito dopo la morte di tua madre e il tuo ritiro dall’esercito, hai acconsentito di prestare il tuo corpo a Meyrink, l’invocazione del settimo e ultimo livello. Credono che un creatore come me, il cui padre è sfuggito ai campi cetnici e alle torture di tutti i muri, compreso quello del pianto, possa trasformarsi in un servitore obbediente? Stai attento Huetor, non so perché continui a salire e a scendere queste scale, ma non farti rubare l’anima da nessuno: né da tuo padre né da queste vestali di Baal né da quel loro astuto zimbello alto una spanna».

 

9

 

Quando era stanco, Huetor Vega pagava un porteño poliglotta di origine polacca chiamato a causa della sua infima statura El Niño affinché, seduto su un seggiolone accanto al letto, gli facesse da suggeritore. Per quanto si applicasse giorno e notte, riusciva a esprimere oscenità solo nella sua lingua. Così, spesso, aveva bisogno di un interprete. Scusa, come si dice «Vorrei fotterti fino alle viscere?». E «Succhiamelo?».

La presenza fisica di un terzo durante l’atto sessuale, per quanto necessaria, lo rendeva nervoso. La bassa statura del suggeritore unita al suo nomignolo lo metteva a disagio. Quale uomo può sopportare che il custode dei suoi coiti più silenziosi come di quelli più bestiali sia un infante seduto sopra un seggiolone?

El Niño, sebbene avesse viaggiato in tutti i continenti, non era mai riuscito a superare il livello quattro di Whorehouse. Le puttane con lui perciò non correvano nessun rischio. Nei momenti liberi se lo dondolavano sulle ginocchia, accarezzandogli la peluria bionda del collo. Non erano neppure costrette a intrattenerlo con strani giocattoli. E poi in questo modo si preparavano a diventare madri. Tutte, infatti, per quante precauzioni prendessero, un giorno sarebbero state redente dal seme di un uomo. Quel giorno avrebbero urlato di dolore, ma in seguito il piacere si sarebbe prolungato fino alla morte. E anche oltre.

 

10

 

Una sera Huetor Vega, che per una volta non aveva avuto bisogno delle prestazioni del Niño, finita la dolorosa messa in scena – scopare infatti per lui era diventato ormai una specie di traversata del deserto alla fine della quale il corpo di sua madre, invece di apparire nell’oasi del suo desiderio, amava come un fantasma far tintinnare il bicchiere di tè vuoto sul comodino – si era messo ad ascoltare quello che accadeva nella stanza accanto.

El Niño sussurrava: «Mi ami?». «Sì», gli rispondeva una delle ragazze. Poi un breve silenzio. Un bacio sulla fronte, probabilmente.

«Non pensavo che ci fosse nel tuo cuore un posto vuoto. Credevo fossero tutti occupati da quegli uomini sudati che scalciano sul tuo letto come se dovessero tirare le cuoia e che poi ti chiedono “Ti è piaciuto?”. Mi fanno tenerezza: tanta esaltazione per così poco. Tutto poi è solo un ricordo. E forse neppure quello. E poi c’è Huetor Vega, quello che cammina come se dovesse scendere sempre le scale e che ogni volta mi domanda: “Come si dice lo vuoi prendere in piedi?”, e che cerca sua madre morta dentro un buco, come se la tua vagina Marija (ah, era la voce di Marija, come aveva fatto a non riconoscerla?), fosse una tomba spalata di fresco con la terra ancora umida di pioggia e non un budello stretto, quasi sempre asciutto, dove infilarsi in gran fretta con il fuoco che incalza e dove colui che cerca sua madre morta assomiglia a un dannato che scavando nel ricordo crede di trovare un pozzo d’acqua santa all’inferno…».

«E non trova niente, vero El Niño?».

«E cosa vuoi che trovi? Lo spirito di Mortal Kombat ha avvelenato tutti i pozzi. E poi le cose che si cercano troppo a lungo non si possono più cercare: nel sesso c’è la morte del sesso come nell’amore c’è la morte dell’amore. Oggi tutti sanno che non esiste più nessuna maturazione, ma solo il ciclo «indaga, ipotizza, verifica». Ad esempio, tu Marija, una volta ti esprimevi alzando armoniosamente il culo all’altezza del ventre del tuo spasimante, provocando così quello che ogni artista deve provocare, un’emozione forte e consolatrice. Già da tempo ti dai supina e mezza vestita sul pavimento. Se cambi posizione è perché hai verificato che la tua ipotesi di intrattenimento era sbagliata. Così, allo stesso modo, il giocatore del tuo amante ridisegna il numero di probabilità del suo coito. Ormai è tutto un ping-pong di prove ed errori che al di là del grado di stimolazioni dei nostri e dei loro circuiti cerebrali produce un unico modello».

«Sì, d’accordo, El Niño, ma noi artisti sappiamo mentire. Non crederai mica che quello che faccio mi dia piacere?».

«Lo so che fingi, Marjia. Ma anche tutti i tuoi clienti sono figli di simulatori, tranne forse quel disperato, quel miliziano in pensione di Huetor Vega…».

 

11

 

Huetor Vega ascoltava quel dialogo come se una mano infantile gli rovistasse la scatola toracica e non vi trovasse nessun organo vitale.

Un disperato, eh Niño, solo perché cerco nella piccola morte del coito la grande morte dell’anima, e nella grande morte dell’anima il corpo di mia madre prima della resurrezione, prima del collasso di questo bordello e della mia casa senza fondamenta costruita sopra una montagna di merda che come tutto il mondo di Eraton sta affondando per troppa speculazione, non importa se prodotta da un piccolo poliglotta saccente o da un veterano fallito… Solo perché mi rifiuto di accettare, scendendo le scale della mia casa e di questo bordello, che sia tutto un gioco, perché cerco il corpo morto di mia madre dentro un corpo vivo di donna, perché attendo che il suo fiume di sperma mi risucchi fino a farmi nascere di nuovo, magari con un altro sesso… Io non sono un Golem! Ho prestato il mio corpo a un’invocazione, Meyrink, di Mutant Fighter, la creazione del mio amico e compagno di tante battaglie Shlusnus, posso premere delete e obbligare chiunque a fermarsi un giro o trasformarlo in un adepto della Mafia di Budapest, accompagnarlo nella Casa degli Incontri, costringerlo ad ascoltare tutto il giorno il Nano di Buenos Aires fino a fargli invocare il Suicida di Sarajevo o, al penultimo livello, Algeciras, costellare di nuclei terroristi mussulmani il suo percorso verso la Porta Occidentale, da cui si può entrare una sola volta per poi scomparire per sempre…

 

12

 

Dopo aver atteso inutilmente che nell’altra stanza le voci riprendessero a proliferare, si era rivestito in fretta, aveva lasciato il denaro sul comodino e si era rimesso l’orologio al polso.

Sua madre era apparsa come un fantasma e come un fantasma se ne era andata, portando con sé il cucchiaino d’argento che aveva fatto tintinnare sul bicchiere per tre volte. Era il segnale che sarebbe tornata e che la luce della resurrezione avrebbe ancora illuminato lo schermo del mondo.

 

13

 

Un’eco di quel tintinnio sopravviveva ancora nel padiglione infiammato del suo orecchio quando si congedò dalla prostituta di turno non senza prima averla baciata con tenerezza sulla fronte. Poi, facendo attenzione a non svegliare gli altri figli di Eraton, si fermò un istante davanti alla porta di ogni stanza del bordello. C’era un grande silenzio. Nessuno invocava di essere se stesso.

 

* Altri brani di questo work in progress sono leggibili sul sito www.massimorizzante.com