Anni di studio

di in: Bazar

I.

Si era appostato nel sottoscala. Anche se ormai capitava di rado che una donna uscisse di casa per andare alla fontana, due di loro venivano ancora ad attingere l’acqua per i fiori. Così, il lunedì pomeriggio si metteva ad osservarle. Se lo era imposto quasi controvoglia. Di schiena, con il secchio in mano, parlavano di altre donne che si stavano separando, del tempo, delle giovani coppie. Nei loro discorsi c’era qualcosa di determinante che andava approfondito.

Non ci era arrivato per caso. Le case in quel quartiere rappresentavano un terreno ricco di risorse, quando il pensiero non andava ad altre questioni (infatti, quando il calcio o la scuola non gli occupavano il tempo, tornando a casa si infilava volentieri in un percorso a serpentina, per allungare la strada). Il lunedì pomeriggio, tuttavia, seduto davanti alla finestra del sottoscala, si era imposto di fermarsi, di mettersi a studiare.

Nei discorsi indiscreti la padronanza dei contenuti arriva ad esprimersi in misura tale che a volte sembra avere origine, più che da una personale esperienza, dall’appartenenza ad un diverso ordine di realtà. La cosa più singolare delle donne era che, raccontando un aneddoto, non sembravano parteggiare per l’una o per l’altro della coppia, ma per il desiderio stesso, per ciò che ciascuno dei due aveva manifestato (e per gli espedienti che aveva messo in atto al fine di soddisfarlo).

Sentiva profondamente che, in qualche modo, anche lui ce l’avrebbe fatta. Si fermava dieci minuti, un quarto d’ora. Prendeva nota. Poi restava ancora un po’, da solo, a riflettere.

Dopo gli obblighi scolastici, scendendo per i campi, cominciava a prepararsi per l’incontro che avrebbe dovuto disputare il giorno dopo. Aveva in mente un piano, ma non era in grado di venirne a capo. Si estenuava nella tattica, oppure, quando decideva di lasciare tutto al caso, si sentiva quasi preda di una sopraffazione: se la cosa aveva successo, non sapeva più quel che gli era accaduto. Nelle confidenze delle due donne c’era, invece, una consapevolezza concreta e piena di sorprese. Era come se fosse il loro corpo a parlare.

Vicino al campo sportivo, si era fermato a guardare le fronde di un pino. I rami verdi, le striature biancastre.

II.

Suo cugino abitava in un’altra frazione, a tre chilometri da casa sua. Era andato a cercarlo nel pomeriggio, un po’ per svago e un po’ per chiarirsi le idee. L’aveva trovato in garage. Con un vecchio strofinaccio ripuliva il telaio di una bicicletta da corsa da alcune gocce d’olio.

“Dato che non riuscivo più ad andare avanti, il lunedì pomeriggio mi sono messo a studiare. Studio le due che vengono a prendere l’acqua per i fiori sotto casa nostra”.

Il cugino aveva tolto dal banco la bicicletta, l’aveva raddrizzata e rimessa a terra. Ora sistemava la sella. Si era trovato a parlare così, d’un tratto. La maggior parte delle idee del cugino non avevano niente a che fare col contesto familiare, erano cresciute in lui grazie a frequentazioni del tutto autonome (studiava ingegneria). Per questo aveva voluto sentirlo. Appoggiata la bici, aveva raccolto gli attrezzi e gli aveva risposto senza guardarlo. Era stanco.

“Io ho sempre dato una mano alla sorella di Luca a piegare la biancheria. Per me è stato importante. Non c’era niente da studiare. Bastava vedere come la prendeva in mano. C’era poco da dire. Ci si capiva al volo”.

Guardava fuori del garage, il vecchio cortile. C’era una sapienza nelle mani delle due donne: una sapienza segreta, inconsapevole, pronta a farsi espressione.

Il cugino per un periodo aveva frequentato una ragazza slava che lavorava come domestica in una casa vicina. Dopo essere stati sorpresi, lei era stata mandata a lavorare più a sud. Lui aveva acconsentito a svolgere un lavoro pomeridiano, a fare ciò che gli avevano imposto, senza credere ad una parola di quel che gli era stato detto sul proprio avvenire.

Avevano pagato il datore di lavoro perché lo sorvegliasse; ma di quel che pensava, di quel che faceva sulla strada del ritorno, non dava conto a nessuno.

III.

Osservazione n. 14

In questi giorni, giocando con due delle mie compagne, mi pare di aver finalmente capito una cosa che devo ancora chiarire. Per ora mi è venuto di fissarla così: il contatto fisico svela la familiarità di tutte le cose. Fino a poco tempo fa pensavo che ogni cosa vivesse la propria estraneità a se stessa e alle altre cose, una condizione per cui anche i progressi della conoscenza, nel loro sviluppo, non potevano che comprendersi in questa direzione. Ora mi rendo conto che nello stesso tempo coesiste anche l’ambito della familiarità, per cui le relazioni fra le persone, fra le cose, fra le persone e le cose possono intendersi anche in un altro modo. È strano che questa idea mi sia venuta così, d’un tratto, del tutto involontaria (e che non sia dipesa direttamente dalle mie esperienze personali). Potrei dire, però, che è nata da un momento di gioia. Credo che in futuro questa possibilità potrebbe portare altro frutto.

IV.

Nevicava ormai dalle nove di mattina. Era arrivato tardi, convinto che la partita non si sarebbe giocata. Invece, all’ultimo momento l’arbitro aveva deciso diversamente. Mancava da tempo, per questo aveva deciso di salire fino al campo, di mettersi sulle gradinate. Dall’altra parte, sotto la tettoia, c’erano solo i dirigenti delle due squadre. Sul campo gli addetti avevano spalato la neve lungo le linee, poi di nuovo ricoperte. Si giocava con il pallone rosso.

Per intere stagioni era venuto a seguire gli incontri. All’epoca non c’erano neanche le ringhiere lungo le scale. Osservava i gradoni, la rete, le inferriate, lo spogliatoio.Non aveva parlato con nessuno.

Non ricordava l’ultima volta che ci era entrato, erano trascorsi molti anni. Si era trasferito, era andato a vivere con una donna, aveva fatto altro. Fra la giovinezza e la prima maturità si pone spesso una sorta di congedo silenzioso: questo rende col tempo tanto remota la prima stagione, che qualunque ritorno abbia poi luogo, somiglia sempre ad un’esplorazione in una terra straniera. Per questo si era tenuto in disparte, dietro la rete. Pensava che lì, sotto l’ombrello, in mezzo al bianco, i dirigenti l’avrebbero potuto scambiare per un ispettore, o per un commissario arbitrale.

La sua squadra si era riversata in attacco. Sotto la neve, il terreno si stava facendo sempre più pesante. Nonostante se ne fosse andato senza quasi rendersene conto, sentiva quanto fossero durati quegli anni, mille episodi gratuiti.

Ripensava al giorno in cui era stato invitato ad intervenire in un convegno. Arrivato nella grande sala – le teche di vetro dei campioni disposte lungo le pareti – si era registrato e seduto nella penultima fila. A metà della mattinata, una ragazza, in piedi, appoggiata alla parete, si era messa a parlare con un dirigente e così facendo si era volta quasi del tutto verso di lui. Parlava con tale disinvoltura, con tale sereno disinteresse per quel che le accadeva attorno, che si manifestava in pieno accordo con i propri desideri. Anzi, gli era quasi sembrato di vedere davanti a sé finalmente una volontà pacificata. Lo aveva colpito questo improvviso manifestarsi di una serena disponibilità, di una disponibilità modesta, ma consapevole. Ne era rimasto sorpreso, perciò l’aveva avvicinata.

V.

Erano trascorsi tre anni dall’ultima festa. Seduti dietro la casa, seguivano il ritrovo di famiglia. Il cugino era rientrato da un viaggio all’estero, compiuto per la ditta di forniture meccaniche presso la quale lavorava. Il pranzo era quasi finito. In basso gli zii, vestiti di nero, correvano avanti e indietro con uno o più bicchieri. Un altro si era messo a fare cappellini di carta con i vecchi giornali. Li numerava: i bambini dovevano indossarli e passarseli, a turno, al segnale stabilito. La luce cominciava a calare. Anche lui aveva compiuto un viaggio all’estero, a Salisburgo.

Ad un certo punto della riunione familiare, si imponeva sempre l’argomento delle liti tra confinanti. Come di fronte al tempo, al dolore, al piacere, al desiderio, nello spazio della conversazione si era più che mai uguali anche davanti al diritto di proprietà (nei suoi aspetti più esclusivi). Di qui l’entità della discussione.

Mentre le zie lavavano i piatti, osservava la ringhiera che era stata da poco sostituita.

Se ne doveva andare. Ora i bambini si scambiavano il cappello numerato e tenendolo in mano chiedevano agli adulti di indovinare quale numero fosse toccato loro, ma pochi stavano al gioco. Erano nel mezzo della discussione. Si seccavano, nessuno rispondeva nel merito, manifestando un aperto disinteresse verso la proprietà dei beni mobili: nessuno di questi, infatti, per quanto nobile sia, può avvicinarsi alla nuda grandezza dei fondi.

Avendo indovinato il numero “8”, aveva dato in premio a suo nipote un vecchio portachiavi. Poi aveva salutato il cugino, che era partito con una macchina scura. Era tornato in giardino.

Rientrando a casa, aveva pensato di restare in città il più possibile. Nonostante quanto le aveva promesso, aveva bisogno di muoversi sui marciapiedi, delle insegne dei negozi, anche dei più poveri e sfatti, dei semafori. Si era fermato in un quartiere poco noto. Era sceso e si era messo a camminare.

In fondo alla strada, un ragazzo cambiava la ruota di un’automobile, mentre la sua ragazza gli faceva luce con una torcia elettrica. Passò accanto a loro e proseguì il lungo giro dell’isolato. Il Servizio postale aveva adottato delle nuove cassette per la raccolta della corrispondenza.

Risalì in macchina e fece il resto del viaggio senza interruzioni.

VI.

Ripensando al suo quaderno di studio, pieno di note, osservazioni, aveva rivisto all’opera una curiosità mai spenta, una curiosità che in qualche modo era sopravvissuta a numerose delusioni. Eppure, nonostante queste avventure, un giorno, senza alcuna forzatura, aveva smesso di prender nota, di scrivere le sue conquiste.L’altra faccia del congedo silenzioso dalla giovinezza può essere compresa a partire dalla fine di un’illusione che non appare mai troppo evidente, benché il fenomeno sia noto. In soggetti che nutrono notevoli aspirazioni si forma, regolarmente, un’immagine di sé che viene riconosciuta adeguata, corrispondente a quelle stesse aspirazioni, anzi a tal punto a loro legata, che la possibilità di nutrirle è sentita inseparabile dalla sua conservazione. Succede così che per lungo tempo le forze siano dedicate, più che alle stesse aspirazioni, alla cura di questa immagine, coerente, ma inevitabilmente sterile. Quest’ultimo fenomeno pare anzi tanto diffuso che solo un evento traumatico, o una decisione della volontà che si erga sopra se stessa, riesce a distogliere l’attenzione da quella cura ed a rivolgerla più opportunamente verso il concreto. Eppure, solo la fine di questa identificazione sembra portare davvero dei frutti, liberare le risorse, riorientarle verso il loro termine primo.

Quando aveva ripreso in mano il quaderno (dopo aver pensato che non lo avrebbe più rivisto) aveva ricominciato a considerare gli episodi puntuali per ciò che riportavano singolarmente. A distanza di anni riconosceva con serenità i risultati dei suoi sforzi, efficaci o meno, e li valutava in sé, più che come sintomo di uno slancio, o delle sue aspirazioni.

VII.

Era finalmente a casa. Greta teneva i corsi di recupero per alcuni ragazzi segnalati dalla scuola dell’obbligo. Non sarebbe rientrata prima delle cinque. Si era messo a tagliare la frutta, per preparare una macedonia, a riordinare le sue carte. Il tempo libero che il nuovo lavoro gli lasciava sembrava sempre più una conquista: non sapeva ancora come riempirlo. Ripensava a un aneddoto che aveva sentito raccontare anni prima da suo padre. Sapeva di dover metterlo per iscritto. Sceso in strada, aveva tirato alcuni colpi con la racchetta contro il muro, come quando era ragazzo. Avrebbe preso la vecchia macchina da scrivere e l’avrebbe ripulita per poterla esporre. Era ancora in buono stato. L’aveva ereditata da due generazioni, si trattava di un pezzo da museo. Guardava verso il viale. La strada era ancora abbastanza libera dalle foglie, ma bisognava approfittarne, non sarebbe durata a lungo.

Si era fermato. Aveva molto da fare, ma sapeva che la sua indole pian piano si sarebbe imposta, sentiva che avrebbe fatto bene, che sarebbe riuscito. Rimessa a posto la racchetta, risalì in casa, si cambiò e si mise al lavoro.