Pavese/ 3

In quei giorni, ricordo, mi svegliavo di colpo; pensavo a Linda e mi pareva di avercela accanto. Ma poi stavo nel letto con gli occhi chiusi e pensavo a tutt’altro; mi pareva di averci un grosso affanno e di essere come un bambino, più solo di un cane, aver fatto qualcosa di brutto e di senza speranza. Non avevo più scampo, non osavo sentirmi, avrei voluto non svegliarmi e morir lì. Neanche l’idea che se un giorno avessi avuto Linda accanto l’avrei presa, mi bastava. Mi facevo pietà, quest’è il fatto. Ero come un bambino che mettono nudo sul tavolo e poi mamma e sorelle se ne vanno di casa. Nascondevo la testa e mi affannavo.

da Il compagno

cap. 1

Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra. La notte che Amedeo si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina – mica lontano, si vedeva il ponte – e avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso. Allora le ragazze si eran messe a ballare. Io suonavo – Pablo qui, Pablo là – ma non ero contento, mi è sempre piaciuto suonare con qualcuno che capisca, invece quelli non volevano che gridare più forte. Toccai ancora la chitarra andando a casa e qualcuno cantava. La nebbia mi bagnava la mano. Ero stufo di quella vita.

(…)

S’intromise Chelino che cominciò a dir stupidaggini. “Preferisce se vanno delle ragazze a trovarlo…”. Io Chelino già a quel tempo non potevo soffrirlo; era di quelli che ti vengon dietro e ti dicono “Stasera ridiamo”, e tu suoni e cantate e bevete, poi l’indomani senti dire che la chitarra l’hai comprata coi denari di tua mamma e che se hai dato sigarette a tutti quanti era per non pagare il vino e che vai con Amelio perché è un sovversivo e tu sei un coglione. Ma Linda gli diede un’occhiata di quelle che lei dava ridendo, e si capiva che rideva per non dovergli far risposta.

cap. 6

In quei giorni, ricordo, mi svegliavo di colpo; pensavo a Linda e mi pareva di avercela accanto. Ma poi stavo nel letto con gli occhi chiusi e pensavo a tutt’altro; mi pareva di averci un grosso affanno e di essere come un bambino, più solo di un cane, aver fatto qualcosa di brutto e di senza speranza. Non avevo più scampo, non osavo sentirmi, avrei voluto non svegliarmi e morir lì. Neanche l’idea che se un giorno avessi avuto Linda accanto l’avrei presa, mi bastava. Mi facevo pietà, quest’è il fatto. Ero come un bambino che mettono nudo sul tavolo e poi mamma e sorelle se ne vanno di casa. Nascondevo la testa e mi affannavo.

cap.13

Tornando a casa ci pensavo, e cercavo di mettermi al posto di chi riceveva quei fogli. Che cosa avrei detto leggendo che tutti rubavano, che bisognava tener duro e non tradire gli italiani, che tutto il mondo ce l’aveva coi fascisti. C’era chi le scriveva e rischiava la pelle. I miei stradini le dicevano in bottega. Non capivo il bisogno di scriverle e farsi prendere. Non capivo che gusto Carletto ci provasse. Quando arrestavano qualcuno con quei fogli, eran felici. Lo diceva anche lui. Glieli leggevano sul muso, e poi botte. Valeva la pena? Se vuoi farla a qualcuno, non devi dirglielo prima.

cap. 14

La volta dopo, glielo dissi chiaro e tondo anche a Carletto. “Per fidarsi di quelli che studiano, bisogna studiare. Tu hai mai capito quando parlano, se sono dalla tua?”

Dissi così tanto per dire e farlo smettere. Ma a questa di studiare ci pensavo da un pezzo. Per capire le cose bisogna studiare, non le sciocchezze che insegnavano a scuola a noialtri, ma com’è che si legge il giornale, com’è fatto un mestiere, chi comanda nel mondo. Si dovrebbe studiare per saper fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro.

cap. 15

Quest’era un libro che nessuno mi poteva metter dentro. Non parlava di Roma. Raccontava che in Russia la gente moriva in prigione, che vivevano in dieci in un locale solo, che le donne battevano la strada e abortivano. “Qui che a Roma hanno fatto la marcia, succede lo stesso” dissi a Gina. Lei mi covava con quegli occhi tutto il tempo, e sapeva il pericolo e aspettava che andassi a baciarla.

cap. 22

Mi faceva un effetto curioso vedere le strade. Tra la prigione e che partivo quella sera, mi sembrava una nuova città, la più bella del mondo, dove la gente non capisce che è contenta. Come quando uno pensa che è stato bambino e dice: “L’avessi saputo. Potevo giocare”. Ma se qualcuno ti dicesse: “Puoi giocare”, non sapresti nemmeno com’è che si comincia. Ero già un altro, staccato e contento. Guardavo le bettole, le piante nere, i palazzi, le pietre vecchie e quelle nuove – e capivo che un sole così non si vede due volte. Quanta frutta vendevano a Roma. Quei verdi, quei rossi, quei gialli sui banchi, erano loro il colore del sole. Mi venne in mente che a Torino avrei mangiato della frutta e sentito il sapore di Roma così.

(…)

“Vorrei che fosse il primo giorno. Quando dovevi ancor venire”

“Domani sarà come dici”

“Che spavento. Tu a Roma sei venuto per caso”

“Non è questo che conta. Le cose succedono. Basta volere veramente quello che fai”