Calame persta

di in: Bazar

David La Chapelle, The Rape of Africa, 2009

[fragmentum n. 1]

 

Mehercle, quae puellula! Mecum ipse reputabam: «Ante eius pedes flores effunde, luna, sis mihi roscida, ut virginea membra cupiditate perfundantur atque in meum cubile ultronea victima se offerat. Per totam noctem, dis ipsis invisus, operam dabo ut eius sanctitatem teneam». De matronarum risubus diutius sic laboraveram ut vel earum nictationes meae imbecillitati tangere viderentur; propterea novi persici os exsugere sperabam, tandem mel praedulce inter sordida. Nudamus nostra sacra — erubesco adhuc! —, rude ridere coepit : «Num potiri mea parva rima vis, Hercules? Tum cum digna clava reverte».  

 

[fragmentum n. 2]

 

Qua de causa ab illo furioso Iudaeo adducti estis ut immortalis vita vobis pararetur, cum statuissetis  nostros deos languida idola fuisse, ficta puerilibus fabellis; itaque primum eiulatis, deinde minimo murmure erratis, postremo coram populo vos paenitet. Vestrae numellae numen sic numerosum trucemque Avernum requirit ut adversus deum, de caelo discessum in caenum, e filia genitum cum filio, pavidissima pietas spondeatur. Quis fabella fictior, quis fallacior? 

 

[fragmentum n. 3]

 

Plena sonis astriferis videretur cymbula nostra et somnos tenebrasque Africus siccaret, si vela, amice mi, fluxae aurae legerent et, levante angorem lari eloquio, undam consuleremus.

 

[subscriptio]

 

Animo diu periclitato, dum cogitatio interdum cum maestitia luctabatur, saepe ad solis occasum accidit ut recipiendi vires studio disiectas sententias scribere ausus sim, quae tantum mea iactantia ex igni servavit. Donec his temporibus propter belli saevas procellas mihi fata tutam ac secretam vitam dent, utinam meas plagas mediocri verborum oblectatione sanare raraeque aetatis nostrae infelicitati mederi possim! Tamen, protervitate duce, comite fortuna, barbarorum novae turbae totam Italiam rursus vulneravere, cum iamdudum tanta funesta Christianorum scabies contra Romani imperii potestatem coniuravisset ut nulla interposita mora cunctus orbis, postquam eius domina collapsa est, quasi sol tepefecisset, continuo tenebricaret. Itaque cum eius discessu, quia humanitatis lucem scio in perpetuum evanuisse, patrum ipse sermo etiamque bonae artes, certum litterarum studium et civilitatis omnia alia miracula inter homines nostros balbutire coeperunt. Sed tenax, licet simili illuvie permixtus, instam ut meus ardor perfecta antiquorum vocabula defendat, ad eorum meamque salutem curandam. Ceteri, oris balbo confecti, in temporum fallaci luto volvantur, certe nec meum ingenium moderari potest, nec mea gratia mores antiquorum umquam vitiabuntur: antequam meorum aequalium turpis feritas in dicionem me subigat, potius moriturus ero! Hic igitur vulneribus affectae mentis hos partus depono alios in reliquum tempus recreatum. Basilius scripsit, iuvenis Romanus.

 

*

 

Ringrazio il dottor Damiano Limpidi, ricercatore presso il dipartimento di Filologia Classica dell’università “La Sapienza” di Roma, per avermi dato la possibilità di consultare il dossier, di imminente pubblicazione sul prossimo numero della rivista internazionale Mnemosyne, avente per oggetto un singolare palinsesto. Riassumendo la cosa: il dottor Limpidi, sotto la scrupolosa supervisione del professor Andrea Giandrella, dopo che un campione di fogli manoscritti dell’opera del vescovo Ennodio di Pavia è stato sottoposto, prima, ad una fluorescenza a raggi X, poi, ad una tomografia computerizzata, ha scoperto su uno di essi, il foglio 27 dell’Ottobonianus 687, degli escerti di autore anonimo, sovrascritti da un brano dell’epistolario ennodiano. Tali escerti si compongono di tre “frammenti” prosastici, sigillati da una subscriptio ovverosia una sorta di sfraghís, di timbro d’autorità: “Basilio, giovane romano”. La tradizione manoscritta dei codici minori ennodiani, come noto, presenta talora lacune e criticità; già il primo editore moderno, Friederich Vogel, presentando l’opera omnia del vescovo di Pavia nel settimo tomo dei Monumenta Germaniae Auctores antiquissimi (ed.1885, pp.XLIII-XLIV) evidenziava che uno o più codici, successivamente trasferiti in diverse biblioteche, potessero essere stati smarriti o del tutto ignorati dai trascrittori medievali, aggiungendo, inoltre, la possibilità che singoli folia fossero stati oggetto di sovrascritture. Più di recente Henry Julien Blague ha richiamato l’attenzione sulla probabile natura di palinsesto di alcuni codici minori, indirizzando gli studiosi in particolar modo sull’Ottobonianus 687 «parce qui il faut nous interroger à propos de sa nature: presque un cahier d’exercices pour la formation des jeunes moines scribes» [1]. L’Ottobonianus 687, databile attorno al XIII secolo, consta di cinque frammenti provenienti da codici diversi, tutti campionati dallo staff  dell’università “La Sapienza” con specifico riguardo ai folia dal 13 al 28, al cui interno per l’appunto il n.27 si è rivelato essere un palinsesto.

Fin qui la cronaca. Nell’articolo, però, Damiano Limpidi non si è limitato a dar conto dei fatti, ma avanza un’ipotesi, piuttosto suggestiva e convincente a mio parere, sull’identità di Basilius, l’autore delle brevi prose, nulla più che un brogliaccio di idee, par di capire. Si tratterebbe dell’omonimo Basilio, nobile aristocratico e senatore romano ai tempi di Teoderico, processato, fra il 510 e il 511, assieme al collega Pretestato con l’accusa di praticare “riti magici”. Sappiamo, infatti, da alcune lettere di Cassiodoro (Var., IV.22,23) che i due nobili romani, scoperti dalla corte di giustizia del prefetto urbano Argolico «artis sinistrae iam diu contagione pollutos», “già da tempo macchiati dal contagio di una pratica maligna”, avrebbero tentato la fuga da Roma, giacché il Codex Theodosianus  prevedeva per tali reati la pena di morte; il re Teoderico, informato della cosa da Argolico, decide di istituire, come previsto dalla legge, una commissione senatoriale di cinque membri che affiancherà il prefetto urbano, in quanto caput Senatus, nel giudicare gli imputati e, nel contempo, associa alla commissione un suo uomo di fiducia, il senatore goto Arigerno, che, nel caso, trascinerà i due con la forza davanti ai giudici, sorvegliando che non fuggano di nuovo. Ma, a quanto ci riferisce più tardi Gregorio Magno (Dial., I.4), il solo Basilio riuscì ad eludere la sorveglianza, fuggendo dal vescovo di Amiterno Castorio e chiedendogli protezione; questi lo consegnò all’abate del locale monastero, il vir sanctissimus Equizio, che ben presto, però, svelò la sua natura “diabolica” e lo cacciò. Basilio, a questo punto, tornò a Roma dove avrebbe continuato ad esercitare le sue pratiche “magiche”, a tal punto suscitando lo scandalo che il popolo, “animato da zelo cristiano”, lo bruciò. La drammatica fine di Basilio lasciò, quindi, un’eco profonda nell’immaginario devozionale di VI secolo, ma la sua vicenda va incardinata in un quadro più ampio di persistenza di tradizioni “pagane” (null’altro sono, infatti, i “riti magici” in età post-teodosiana) non soltanto all’interno della transitio fra IV e V secolo, dalla Roma pagana alla Roma cristiana, ma finanche nel VII, pertanto nel cuore di un’Europa oramai cristiano-germanica tout court. L’affaire Basilio-Pretestato, come indizio di quei rivoli sotterranei di paganitas per del tempo incuneati nel corpo agonico di Roma, eppoi nei successivi regna romano-germanici, viene analizzato anche da Mommsen nei suoi memorabili Ostgotische Studien (p.401), sebbene minimizzi la portata del fenomeno, sostenendo che l’aristocrazia romana, nel suo complesso, non fosse per nulla intrigata dalla tradizione religiosa oramai defunta: «Der Prozess gegen die Senatoren Basilius und Praetextatus zeigt, dass das Heidentum vor allem auf die römische Aristokratie noch immer einen erheblichen Zauber ausübte». Va aggiunto che il “vizio” clandestino di continuare a professarsi politeista in epoca cristiana non è attestato solamente nella pars Occidentis, ma anche sul versante bizantino, come ci informa nella sua Storia ecclesiastica (III.21) Evagrio lo Scolastico, citando un passaggio dei perduti Klemma del paradossografo Lusia Scotomeno, vissuto probabilmente alla corte di Bisanzio tra la fine dell’età giustinianea e l’inizio del governo di Giustino II, laddove si dice, a proposito di “questi uomini”, che si macchiano di un crimine così grande che “neppure mentendo sarebbe possibile trovarne di peggiori né sarebbe verosimile elencarli tutti, perché l’accusatore si stancherebbe di parlare o non avrebbe tempo a sufficienza” [2].

Questo “relitto” — ribattezzato dallo studioso Frustum Basiliense  —, animato da una spiccata virulenza anticristiana, sarebbe da collocare nello scorcio di V secolo, avendo come terminus post quem il riferimento a quelle novae turbae “barbariche” che per la seconda volta (rursus) ferirono l’Italia, per l’appunto la discesa delle truppe ostrogote del giovane principe amalo Teoderico, che forzò l’Isonzo nel 489 e nel 493 sconfisse Odoacre a Ravenna; la seconda “ferita” dell’Italia, ovviamente, dopo quella inflitta all’inizio del secolo dalle armate visigote di Alarico nel 410 con il relativo sacco di Roma, da intendersi, per alcuni studiosi, come la vera caduta dell’Impero rispetto alla deposizione nel 476 di Romolo Augusto, la cosiddetta “caduta silenziosa”, per riprendere una nota teoria di Arnaldo Momigliano.

E così il Basilio che abbozza queste sue riflessioni in modo alquanto rapsodico (disiectas sententias), nel pieno della guerra che divampa, ad un’età giovanile imprecisata, sarebbe lo stesso che molti anni dopo, appunto nel 510-511, sedendo nel Senato accanto ad altri membri dell’aristocrazia romana più ostile alla nuova compagine germanica rappresentata dagli ostrogoti, avrebbe manifestato la sua orgogliosa appartenenza alla tradizione religiosa pagana, oramai sepolta da centrotrent’anni grazie all’editto teodosiano di Tessalonica. Un “martire”, dunque, che alla causa politica, l’oltranzismo antigermanico più fiero (lo stesso, per capirci, di un Boezio, fatto giustiziare da Teoderico qualche anno dopo), aggiunge anche e soprattutto la sfrontata motivazione religiosa: rifiutare l’universalità cristiana in una Roma non più pagana da molto tempo.

In ultimo, sulle motivazioni del particolarissimo palinsesto, del perché questo documento sarebbe stato inserito e poi rimosso, addirittura all’interno di una miscellanea di brani ennodiani, Limpidi sostiene trattarsi di una pratica attestata in alcuni scriptoria a cavallo fra XI e XIII secolo: i giovani amanuensi, nel corso del loro apprendistato, incappavano in svariati excerpta  “pagani”, che con la scusa dell’esercizio trascrivevano, mossi talvolta da una morbosa curiosità, come attesta la natura scollacciata del primo “frammento” del nostro testo. Poi all’esercizio preparatorio subentrava lo scrupolo religioso con la conseguente cancellatura, quasi con valenza penitenziale, come da tempo hanno acclarato gli eruditissimi studi codicologici sul tardo Medioevo di Sir Zachary Jervis Fibber [3].

Una cosa è certa: questo “brandello di Basilio”, per usare il nome coniato dallo stesso Limpidi, animerà fra gli specialisti un vivace dibattito. A me non resta che approntarne la traduzione.

 

[frammento n. 1]

 

Accidenti, che ragazzina! Pensavo tra me e me: «Davanti ai suoi piedi spargi fiori, luna, sii per me rugiadosa, perché il suo corpo di vergine sia bagnato dal desiderio e come una vittima si offra spontaneamente nel mio letto. Per tutta la notte, invidiato persino dagli dei, mi darò da fare per possedere la sua purezza». Per troppo tempo gli sghignazzi delle donne m’avevano a tal punto tormentato che addirittura i loro battiti di ciglia pareva alludessero alla mia debolezza; proprio per questo speravo di succhiare il nócciolo d’una pesca primaticcia, finalmente del miele dolcissimo in mezzo alla sporcizia. Denudiamo i nostri “santuari” (ancora arrossisco!), prese a ridere sgraziata: «Ercole, vuoi per caso impadronirti della mia fessurina? Ritorna allora con una clava all’altezza».

 

[frammento n. 2]

 

Avendo voi stabilito che i nostri dei non siano stati altro che idoli fiacchi, inventati da favolette per bambini, in ragione di ciò vi siete fatti abbindolare da quell’ebreo fanatico, che per voi si prepari una vita eterna; e così dapprincipio urlate lamentosi, poi con il mormorio più silenzioso peccate e alla fine chiedete perdono davanti a tutti. La divinità della vostra catena ha bisogno di un inferno affollato e minaccioso tanto da garantire nei confronti di un dio, dal cielo precipitato nel fango, procreato dalla figlia assieme al figlio, la più vigliacca delle devozioni. Quale favoletta è più fantasiosa, qual è più ingannevole?

 

[frammento n.3]

 

Amico mio, la nostra barchetta sembrerebbe carica del suono delle stelle e il libeccio asciugherebbe il sonno e l’oscurità, se deboli brezze ammainassero le vele e, mentre un gabbiano chiacchierando ci addolcisce l’affanno, chiedessimo consiglio all’onda.

 

[firma]

 

Con l’animo a lungo provato, combattendo talvolta l’immaginazione contro la malinconia, spesso capitò al calar del sole che per recuperare le forze io abbia osato buttare giù, qui e lì, dei pensieri, che soltanto la mia vanagloria evitò di bruciare. Finché in quest’epoca, a causa dei terribili disordini della guerra, il destino mi conceda una vita tranquilla e appartata, grazie al modesto piacere delle parole magari potessi  risanare le mie ferite e trovare rimedio alla straordinaria sventura del nostro tempo! Purtroppo, guidati dalla sfrontatezza e accompagnati dalla buona sorte, una nuova folla di barbari per la seconda volta deturpò l’Italia intera, dopo che già da un pezzo la sciagurata rogna dei cristiani aveva congiurato contro l’autorità dell’impero romano al punto che, rotti gli indugi, tutto quanto il mondo, dopo che la sua signora andò in rovina, come se il sole si fosse intiepidito, un istante dopo s’ottenebrava. Perciò con la sua scomparsa, giacché so bene che per sempre la luce dell’umanità svanì, la lingua dei nostri padri e persino le pregevoli qualità, l’autentico amore per la letteratura e tutte le altre meraviglie della civiltà in mezzo agli uomini della nostra epoca iniziarono a balbettare. Ma, pur mescolato a un simile pantano, tenacemente insisterò a difendere con il mio ardore le raffinate parole degli antichi, per procurare a me e a loro la sopravvivenza. Che gli altri, logorati dalla balbuzie, si rotolino pure nell’ingannevole melma dei nostri tempi, di certo né la mia indole è capace di placarsi né con il mio sostegno la tradizione sarà mai corrotta: prima che la turpe barbarie dei miei contemporanei mi sottometta, sarò piuttosto pronto a morire! Qui dunque lascio questi parti di una mente afflitta perché in futuro confortino qualcun altro. Chi ha scritto è Basilio, un giovane romano.


[1]  h. j. blague, Éléments pour une étude des manuscripts de Ennodius, in «Revue d’études patristiques et trompeuses», LV, (2009), 2,  nota 23 p.267.

[2] Patrol.Graeca, LXXXVI, col.2412: «(…) ὥστε μήτʹἂν ψευδόμενον δεινότερα τῶν ὑπαρχόντων ϰατηγορῆσαι, μήτε τἀληθῆ βουλόμενον εἰπεῖν ἅπαντα δύνασθαι, αλλʹἀνάγϰη ἢ τὸν ϰατήγορον ἀπειπεῖν ἢ τὸν χρόνον ἐπιλιπεῖν».

[3]  z. j. fibber, Writing and erasing. A philologic, cultural and swindling study on the Low Middle Ages, Cambridge 1982, pp.567-582

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