Pavese/ 5

Alta, sul poggio dalla cima bianca, c’era una nuvoletta. La prima nube di settembre. Ne fu lieto come di un incontro. Forse il tempo sarebbe cambiato, forse avrebbe piovuto, e sarebbe stato dolce sedersi davanti all’uscio, guardando l’aria fredda, sentendo il paese attutirsi.

Da Il carcere

Ecco la pena che aveva nel cuore. La sua ragazza era Concia, l’amante di un sudicio vecchio e la libidine dei ragazzini. Ma l’avrebbe voluta diversa? Concia veniva da luoghi anche più rintanati e solitari che il paese superiore. Ieri, contemplando un balcone dalle latte di gerani, Stefano gliel’aveva dedicato respirando voluttuosamente l’aria lucida e forte che gli ricordava quell’elastico passo danzante. Persino le sudice stanze basse dalle madie secolari festonate di carta rossa o verde, e dagli scricchiolii del tarlo, giuncate di pannocchie e ramulivi come stalle, supponevano il suo viso caprino e la sua fronte bassa, e una torva e secolare intimità.

*

Alta, sul poggio dalla cima bianca, c’era una nuvoletta. La prima nube di settembre. Ne fu lieto come di un incontro. Forse il tempo sarebbe cambiato, forse avrebbe piovuto, e sarebbe stato dolce sedersi davanti all’uscio, guardando l’aria fredda, sentendo il paese attutirsi. In solitudine, o con Giannino dalla buona pipa. O forse nemmeno Giannino. Starsene solo, come dalla finestra del carcere. Qualche volta Elena, ma senza parlare.

*

Nel suo disfatto dormiveglia Stefano pensava a tutt’altro: non riusciva ad afferrare che cosa. Rivoltolandosi nel letto pesto, temette che l’insonnia sarebbe durata: quest’era un incubo più vero degli antichi. Strinse la guancia con pazienza al cuscino e intravide il pallore dei vetri. Mormorò intenerito: “Ti compiango, mammina” e si fece molto buono, e fu felice d’esser solo.

Allora afferrò questo pensiero: si resiste a star soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile. Ti compiango, mammina. Bastava ripeterlo, e la notte era dolce.

Poi sopraggiunse il treno col suo sibilo selvaggio, il treno di tutte le notti, che lo sorprese a occhi socchiusi come un uragano. I lampi dei finestrini durarono un istante; quando tornò il silenzio, Stefano assaporò adagio lo spasimo della vecchia consueta nostalgia ch’era come l’alone della sua solitudine. Veramente il suo sangue correva con quel treno, risalendo la costa ch’egli aveva disceso ammanettato tanto tempo fa.

Il pallore dei vetri era tornato uguale. Adesso che l’aveva cacciata, poteva intenerirsi su di lei. Poteva anche rimpiangerla, fin che il suo sangue spossato era calmo, pensò balbettando.