Pavese/ 4

Da quando son qui non ho ancora dormito una notte sul serio, pensavo. Come faccio a resistere fino a domani? E Vinverra si aspetta che gli accenda la macchina. Guardavo il lenzuolo e la faccia, e cercavo di stamparmi in mente com’era Gisella da viva, per ricordarmela sempre. Le ferite alla gola resteranno, pensavo, non si chiuderanno mai più come le altre. Da morti, la pelle marcisce, non si rimargina più. Chi sa se sentiva ancor male?

da “Paesi tuoi

Talino si sporge e mi chiama a vedere dalla sua parte. C’era una collinaccia che sembrava una mammella, tutta annebbiata dal sole, e le gaggie della ferrata la nascondono, poi la fanno vedere un momento, poi entriamo in una galleria e fa fresco come in cantina ma si dimenticano di accendere la luce.

(…)

“Dov’è Monticello?”

“Da casa lo vediamo. È sul fianco della mammella” e, dicendo, gli scappa da ridere. Mi volto e rivedo la collina del treno. Era cresciuta e sembrava proprio una poppa, tutta rotonda sulle coste e col ciuffo di piante che la chiazzava in punta. E Talino rideva dentro la barba, da goffo, come se fosse proprio davanti a una donna che gli mostrasse la mammella. Scommetto che non ci aveva mai pensato.

(…)

Un’occasione così doverla perdere, e una ragazza che si sta rivoltando non poterla portare in un prato. Perché il bello in campagna è che tutto ha il suo odore, e quello del fieno mi dava alla testa: un profumo che le donne, solo che abbiano sangue un po’ sveglio, dovrebbero stendersi.

Guardo in su i pipistrelli che volano e mi vedo davanti, bella rosa, la collina del treno, col suo capezzolo sulla punta, e dei lumi sul fianco, e mi volto, ma la casa nasconde quell’altra che si vedeva dall’aia. Siamo in mezzo a due mammelle, dico; qui nessuno ci pensa, ma siamo in mezzo a due mammelle.

(…)

Vado al muretto di quell’altra sera, e mi metto a fumare. “Non fa niente” pensavo “non lo sa che lo sai. Ti han fatto fesso, questo sì”. Dico: venire in mezzo ai goffi, per trovare che sono più furbi di te.

Poi butto via la sigaretta e giro ancora. Tutte le facce che vedevo sulle porte avevo voglia di pestarle. Mi sembravano tanti Talino. Era con lui che ce l’avevo. Gisella era niente. Quante botte, madonna, se fossi stato io Rico, quante botte.

(…)

Da quando son qui non ho ancora dormito una notte sul serio, pensavo. Come faccio a resistere fino a domani? E Vinverra si aspetta che gli accenda la macchina. Guardavo il lenzuolo e la faccia, e cercavo di stamparmi in mente com’era Gisella da viva, per ricordarmela sempre. Le ferite alla gola resteranno, pensavo, non si chiuderanno mai più come le altre. Da morti, la pelle marcisce, non si rimargina più. Chi sa se sentiva ancor male?

Allora me ne vado, perché il rosario e l’altare, e quell’odore di ambulatorio, e sapere che Gisella era viva e non potere far niente, mi tagliavano le gambe. Poi, quelle donne mi guardavano, e la vecchia baciava un rosario e si baciava le dita e borbottava borbottava come se criticasse. Mi fermo un momento nell’ultima stanza, ch’era scura, e dico forte: “Era meglio se restavo in prigione”.