Presiden arsitek/ 43

Poi un suono che ancora gli rimaneva nelle orecchie come se tutti gli arlecchini fossero scattati sull’attenti per farlo a pezzi con le loro corna di cervo lo fece sporgere oltre la sponda del letto, e vomitò.

di in: Presiden arsitek

Dalla finestra sul tetto si vedevano solo brani di costellazioni, e a volte i temporali che scendevano dalle montagne vicine ne facevano impallidire le linee. Le gambe gli dolevano orribilmente. Era contento che la ferita fosse in un punto difficile da vedere, e nello stesso tempo la cosa lo angosciava. Il vento scoteva la tenebra con un rumore di vela o di tendone da circo.

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[Riassunto dei capitoli precedenti del Libro per il Bagnetto, licenza d’uso riservata al sig. Luigj Decor: Il protagonista e una donna con la quale non è certo di essere sposato entrano in un museo radiofonico collegato, attraverso un’intercapedine, con un parco acquatico. Nella sezione radiofonica dell’edificio i due incontrano una bambina col frac insieme a suo padre, il tutto mentre un vile parassita con morsi infinitesimali ininterrottamente consuma un occhio del protagonista.]

«Per darci una chiara dimostrazione di quello che ci stava dicendo il maestro di disegno aveva chiamato alla cattedra uno di noi e gli aveva ordinato di provare a colpirlo con un pugno, e quando il nostro compagno dopo un primo tentativo che il maestro di disegno aveva giudicato troppo fiacco aveva realmente provato a colpirlo con tutta la forza delle sue piccole braccia, per poco non era stato scaraventato fuori dalla finestra con una torsione molto rapida e certamente efficace, nella quale tuttavia nessuno di noi era riuscito a riconoscere una sia pur fantasiosa o esoterica, minimamente fantascientifica o ultratropicale variazione del segno della croce o dell’atto di porgere l’altra guancia. ––– il padre della bambina ha una reazione piuttosto violenta che fa tremare l’intera “bara” di latta.»

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Uno dei listelli di legno dell’appartamento in cui io e mio figlio siamo venuti ad abitare dopo che mio marito è morto, sventrato dalla ruota di ferro del tram le cui rotaie tagliano in due la città, uno dei listelli di legno del salone che la notte diventa la camera da letto di mio figlio si è leggermente sollevato dal resto del parquet, come un dente da latte sempre più malfermo o un’unghia morta che si scolla dalla falange. Quando mi capita di mettere un piede sopra quel listello lo sento risistemarsi con un melodrammaticamente docile CRAC, prima il listello sporge dal resto del pavimento e dopo quando ci metto il piede sopra il listello si risistema con un sussiegoso tornando sotto il mio piede a fondersi con il resto della superficie; contro il palmo nudo del piede sento il suo bordo rettangolare fondersi nel resto della superficie del pavimento, ed è come se il listello fosse sparito, ma quando rialzo il piede la metà di listello che si è scollata torna a sporgere dal pavimento.

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[Estratto da G. Sommariva, Pornoatteone. Il cinema “essoterico” di C. Adra tra invisibilità e inguardabilità, Edizioni della Cineteca Rionale di Briwen, Briwen 20**] ––ssaggi subliminali per suscitare il terrore nello spettatore. Per esempio, se guardiamo a rallentatore un dialogo in un bagno tra la protagonista e suo fratello (colore dominante un giallo terroso, lampadine che illuminano a malapena l’ambiente) nel passaggio della telecamera dal personaggio del fratello alla protagonista (tutti e due sono seduti e stanno bisbigliando, non ricordo perché si trovino lì ma è chiaro che sta succedendo o sta per succedere qualcosa, come del resto ogni volta che in un film due persone sono insieme in bagno, ma poi nei film ossia in questi film succede quasi sempre diciamo così “qualcosa”, dovunque ci si trovi) si può notare alle spalle della ragazza galleggiare, brevemente riflesso nelle piastrelle, un feto-demone rannicchiato su se stesso tanto da sembrare una tozza e discorporata vagina non dissimile da quelle che Mirò usava disseminare nei suoi dipinti: solo di colore ocra scuro, l’esule vulva, la pelle quasi del tutto mangiata dall’acqua…

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«A quanto pare l’apparecchio radiofonico che l’uomo e la bambina stanno testando è un rarissimo esemplare di radio genetica, un apparecchio che si limita – termine chiave nel caso dell’apparecchio in questione: è fondamentale infatti che la “bara” sia un apparecchio estremamente semplice, al limite dell’elementare, e per quanto posso vedere non si tratta che di latta e di una membrana; questa estrema limitatezza, cui si affianca un rigore geometrico dissimulato da varie ammaccature nella latta, occorre per delimit-/deline-are un processo che viene chiamato “radiofonico” solo perché il termine è quanto di più vicino ci possa essere ad una corretta definizione del fenomeno, fenomeno consistente nell’instaurarsi ossia del direzionarsi di una specie di magnetismo genetico fondato sull’esistenza (ipotetica, ma questo a quanto pare non sembra impedire alla macchina di funzionare – il principio delle macchine cardioradiofoniche è che il cuore stesso della persona che le utilizza diventa la più importante delle manopole dell’apparecchio radiofonico, è questo il significato del tubo e della membrana in fondo al tubo, e per lo stesso motivo mi stupisce che il padre della bambina utilizzi il macchinario così spensieratamente, dato che in passato apparecchi del genere sono stati indicati come responsabili di un’epidemia di parassiti del cuore –– minuscoli insetti bianchi che –––– ma insomma l punto qui è che l’alchimia dall’Egitto in giù e la scienza contemporanea hanno molto in comune: sono 1. oscure, 2. settarie, 3. puzzano di cialtroneria da almeno due isolati di distanza, con la differenza che i macchinari attuali a quanto pare funzionano, anche se spesso del loro funzionamento gli scienziati stessi che pure ne dovrebbero essere i meccanici non sanno rendere conto, e questo anche perché simili macchinari sono talmente complessi che la loro creazione ha più l’apparenza di una genesi, una evoluzione accelerata come le riprese delle fioriture notturne dei cactus, e perché l’energia che utilizzano, come ad esempio quella radiofonica, è tanto vastamente diffusa che più che controllarla occorre, come in un oceano, crearle dei recinti, delle specie di parentesi che la intrappolino o precariamente l’arginino ed adunino, e a quanto pare il cuore umano è una delle più efficienti ancorché fragili di tali parentesi) di un progenitore comune batterico – naturalmente ancora vivo nella sua forma originaria ai giorni nostri, ma indistinguibile dagli altri batteri –– l’evoluzione non è tanto una linea quanto una pozzanghera di esseri che si allarga come piscio di cavallo – i cui filamenti di DNA sono ancora presenti nel nostro patrimonio genetico. Il macchinario funziona cioè in modo poco chiaro ossia discontinuo, a quanto pare – il che è stupefacente – in funzione della teoria evoluzionistica di volta in volta abbracciata dall’utente – purché naturalmente la teoria prescelta poggi sulla attuale concezione del DNA – si possono ottenere trasmissioni involontarie differenti.»

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Il prato era ingombro di legna, una catasta alta quasi quanto quelle delle feste di primavera. Oltre a vecchi mobili fatti a pezzi c’erano anche diversi trofei di caccia, in gran parte palchi di corna. L’uomo, in mutande e canottiera, stava spruzzando del petrolio lungo i bordi della catasta con un gesto simile a quello di uno chef che condisce l’insalata.

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«Dopo il primo scossone la bambina si è allontanata dalla “bara” di latta, mentre l’uomo chiuso al suo interno traffica con la mano infilata nel tubo all’altezza del cuore. Se i due sono tanto esperti nell’usare questi apparecchi, perché sono venuti in costume da bagno?»

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…è il feto di un demone solo per chi sa già tutta la storia e sa che alla fine il fratello della ragazza le inietterà nello stomaco un campione di tessuto del demone in modo da testare la sua compatibilità genetica, ma visto così il feto sembra più quello di un bambino affetto da una qualche sindrome embriologica, le braccia jacksonpollockianamente ritorte e la schiena coperta da alcuni radi e lunghi peli neri divisi in due bande lungo la spina dorsale. (Il che, riconosciamolo pure una volta per tutte, è una forzatura bella e buona, la figura essendo poco più di una macchia sfocata che è stata intrepretata nei modi più disparati da critici e spettatori: una tozza vagina e un feto demone deforme sono le letture più immediate purché naturalmente si intenda il film come uno scavo nelle forme più corrive di satanismo: ma, e così siamo quasi ma non esattamente daccapo, potrebbe altrettanto bene essere un film su pratiche estreme di chirurgia facciale, giusta la lettura data da…

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A volte se e quando mio figlio non è in casa e non sta urlando, vado avanti così per un po’ premendo il listello e lasciandolo andare, fino a che dallo strato sotto il pavimento non comincio a sentire un suono umidiccio, come se a furia di premerlo con il listello lo strato di cemento sotto il pavimento fosse obbligato ad emettere una specie di fanghiglia. È dalla fanghiglia, credo, che i piccoli insetti bianchi sono riusciti ad entrare in casa, ma dato che il listello sollevato ormai è la loro porta tanto vale fare che entrino solo per quella porta o tutti i listelli dell’appartamento finiranno per sollevarsi a causa della pressione della fanghiglia lasciata dalla donna che abitava esattamente sotto di noi e che la notte tutti sentivano cantare con voce stridula l’aria della Regina della Notte, ma solo io so che le note dell’aria della Regina della Notte sono state messe una dopo l’altra per trasformare in fanghiglia la voce di una donna morta?

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Qualcosa di illuminato o luminoso, un insetto o un corpo celeste, tracciò una breve linea nel cielo.

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«In fondo al tubo, pare di capire da alcuni vecchi fogli battuti a macchina e pinzati su un listello di legno accanto al macchinario, è posizionata una rotella dotata di sottilissimi uncini che si insinuano tra le costole dell’utilizzatore della “bara” in modo da stimolarne le pulsazioni cardiache e regolarle sulla stazione radiofonica prescelta; ad esempio, nel caso la teoria prescelta dal padre della bambina col frac sia una teoria tripartita, tre batteri invece di uno [Nota a margine, manoscritta, poco plausibilmente di Decor: «Tre battelli al prezzo di uno?»], si tratta semplicemente di ridurre la strozzatura che in un passato remoto ha provocato una drastica riduzione della varietà di batteri progenitori; meno la strozzatura è stretta, maggiore è il numero di progenitori, fino a un massimo di ––– ma qui tutto si fa molto oscuro e molto tecnico, perciò mi rivolgo nuovamente all’“harmonium”, dal quale mia moglie del resto non si è mai distratta. Le sue labbra (di mia moglie) sono sparite, come quelle di un suonatore di corno inglese, ed è molto pallida, ma quando mi rivolgo a lei si rianima come se per tutto questo tempo avesse trattenuto il fiato per gioco, in attesa che la liberassi, ed è anche per questi giochi che così delicatamente alludono alla morte, quasi carezzandola, che in un tempo remoto del quale per quanto mi sforzi non riesco a ricostruire un solo colore, un solo profumo, mi sono innamorato di lei. Sopra l’“harmonium” è stata sistemata una teca decorata con icone. La teca, come sa chiunque abbia utilizzato un “harmonium” radiofonico, in realtà è un fornello che è in senso letterale il cuore dell’apparecchio.

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Giusto un paio di giorni fa sono andata a raccogliere mio figlio dalla taverna ai piedi del nostro palazzo in cui va sempre a bere e bere fino ad afflosciarsi sulla panca imbottita ad arabeschi su cui si siede sempre, il suo posticino come lo chiama. Stavo raccogliendo mio figlio dall’intrico di arabeschi in cui stava sprofondando, e da una delle finestre di uno dei palazzi al di là della strada rispetto al nostro tozzo grattacielo grigio, da una delle finestre di un palazzo blu che sembrerebbe quasi un palazzo giocattolo, un edificio azzurro cielo che sembra messo lì apposta per ingannare gli uccelli in modo che vadano a sbatterci contro, ho sentito uscire di nuovo la voce della Regina della Notte, l’aria della Regina della Notta cantata da un’altra vecchia, e avrei voluto sapere il suo nome per sapere se conoscesse la vecchia che viveva sotto di noi, se le fosse mai capitato di cantare insieme a lei l’aria della Regina della Notte (per la verità, forse non sarebbe dopotutto saggio chiederle della vecchia che è morta nell’appartamento sotto il nostro liberando la fanghiglia di insetti bianchi: è infatti ovvio e naturale che si conoscessero e cantassero insieme l’aria della Regina della Notte per imparare a coagulare la loro voce in una bava fangosa e infettare i palazzi e i loro giardini, facendone cadere dalle finestre file e file di insetti bianchi che frusciassero attraverso la città instaurando l’impero della Regina della Notte –––– o forse dovremmo ormai dire delle Regine? Come in un disarticolatissimo, ultrararefatto e acrobatico canto gregoriano.

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C’erano molte zanzare che incoronavano l’uomo del loro nugolo, dandogli che di bovino. L’uomo gettò la bottiglietta di petrolio ormai vuota, poi accese un fiammifero e lo lanciò verso la catasta.

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[Seguito della ricognizione condotta dall’agente scelto Micheleh Della Rovere del romanzo autobiografico Il male nella pancia ottenuto dall’indagato Luigij Decor dopo aver concesso alla fantasia artificiale DAEMONITA™ 2.11 di accedere ai dati narrativi e metanarrativi della propria Psyche®]

Alla fine, con tutto quell’andirivieni tra Venezia e il proprio paese, Guijdo finì con il perdere ogni interesse per i propri studi; abbandonò quindi l’università e si assunse il compito di assistere la madre al negozio.

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Quante altre vecchie, in quante altre case disseminate attraverso la città, stanno cantando l’aria della Regina della Notte? In quante altre città? La città segreta delle Regine della Notte.

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I lampi disegnavano smorfie di giganti che si chinavano sopra di lui sbirciandolo dall’abbaino per subito dileguare dove le nubi lasciavano trapelare l’ultimo bordo della terra.

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Il negozio Rohsai era appartenuto alla famiglia di Lijna fin dal 1920; allora era il nonno di Lijna, Olhmo Rosati, a cucire a mano i cappelli nel numero di due o tre modelli al massimo, e Lijna ricordava bene le buffe sfuriate che il vecchio ai tempi poi non così vecchio come diceva sempre dopo aver detto di essere ormai vecchio, le sfuriate che il vecchio doveva subire ma poi non poi tanto come si vedrà subito subire quando le signore più esigenti, che erano venute apposta a portargli alcune riviste di moda per avere un cappellino come quelli di Parigi, si vedevano rifilata la solita cuffietta; ma il nonno “Alla malora!”, rispondeva, “se volete i cappellini a forma di conchiglia o di farfalla o di minchia di manzo andatevene a Parigi dove li fanno, e non venite a rompere l’anima a me!”; e le signore, inacidite e costernate dalla fallo- anzi diciamola tutta minchia- foria cui in quattro e quattr’otto il signor Rohsai aveva ridotto i viali della moda parigini, le signore sbottavano allora a gridare contro i baffi impassibili del nonno anche per i cappelli da uomo, quelli che lui aveva venduto ai loro mariti, e si tiravano dietro persino i mariti stessi, tutti tali e quali con il cappello in mano in pagana benché castigatissima e casta processione anche loro, tutti a occhi bassi, brontolando in modo confuso, tutti pestando i piedi, un rito vero e proprio che mancava solo il carro trionfale ma a quale divinità avrebbero dovuto votarlo, tutti i mariti brontolavano come dire per dovere d’ufficio ma tutti alla fine obbedivano ed entravano mentre le signore, schiacciando il cappello sulla testa dei poveretti, gridavano “Pende di qua!” o “Pende di là!” o anche “Troppo grosso!” e naturalmente pardon ça va sans dire “Troppo piccolo!”. Il nonno, inscalfibile, ripeteva “Andatevene a Parigi, allora, che lì di cappelli ne trovate quanti volete, tutti della giusta misura!”, al che le signore uscivano stizzite in un ronzio impazzito del campanellino appeso sopra la porta a vetri dell’ingresso.

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«Il materiale della teca sembra legno, e le pitture che ne ricoprono le ante e i pannelli sembrano fatte a olio, anche se è chiaro che le elevatissime temperature raggiunte dall’“harmonium” durante le trasmissioni avrebbero già incenerito la teca e fatto colare i personaggi dipinti delle icone sulla sua “tastiera”. Mia moglie avvicina la mano per aprire lo sportello destro della teca, quello nel quale è raffigurata la tradizionale Sfinge in atto di avvicinarsi al Bambino, ma subito se ne ritrae: l’“harmonium” sta ricevendo una trasmissione, ed è rovente. Noto, appese a un chiodo piantato a lato dell’“harmonium”, delle comuni presine da forno, quadrate, l’una in lana verde e rossa, l’altra verde e arancione. Ridicolo. Mia moglie le prende e apre con cautela le due ante della teca. Nella piccola fornace sta bruciando un “cuore”. Quella è la vera e propria trasmissione radiofonica. Dev’essere il cuore del padre della bambina col frac. La vedo lottare con le chiusure della “bara” di latta, le sue piccole dita stropicciare e scivolare impotenti contro i ganci e le cerniere che tengono suo padre chiuso dentro la cassa.»

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Quando la spada aveva tracciato il suo taglio poco sopra gli incavi delle ginocchia, per un attimo era stato come se lui avesse gli occhi sulla nuca, e potesse vedere perfettamente il bianco della lama aprirsi un varco nella carne, e le ferite gemelle aprirsi come bocche di rana.

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…il quale nella scena del dialogo in bagno riconosce un’intervista ad una vecchia star del porno ormai in declino ma ancora “Frizzantella e svampitona come quando ho fatto il mio primo pompino”, così dice lei nel rozzo dialetto prussiano del suo paese natio, ma la battuta, a seconda che il film venga ascoltato da uno che conosce quell’antico dialetto prussiano o da uno che ne conosce un altro, un altro dialetto, per esempio quello parlato da alcuni cacciatori di un distretto di Cracovia tra il 1821 e il 1915 – anno in cui detti cacciatori vennero arruolati e mandati al fronte russo dove si sono perse le loro tracce – in quel dialetto la battuta suona come “Siediti qui ti devo parlare”, ed è appunto in ragione l’impasto e diremmo quasi nella fanghiglia dialettale ottenuta da una dizione confusa e dal tono bisbigliatissimo dei due e forse anche da un’intensità espressiva rasentante la catatonia che a quanto risulta dagli appunti di Adra stesso un dialettologo con una profonda vocazione per la pornologi potrebbe dipanare in questo modo almeno undici film sovrapposti e del tutto differenti in ragione appunto della fanghiglia polidialettale la sintesi della quale è stato un lavoro che ha richiesto il contributo di un intero plotone di sceneggiatori di commedie dialettali chiamati dai borghi più sperduti ed evanescenti di mezza Europa, come per l’allestimento di una sinfonia zingara in cui ogni ascoltatore sprebbe riconoscere le ninnananne e i balli del villaggio in cui è nato e per il quale la carovana di zingari è transitata aspirando i canti e i balli. Non è cosa che possa fare un singolo: in nessun modo. Tutta questa dedizione per un film porno: perché mai? Una sorta di sberleffo alla dedizione che il pubblico mondiale dedica alla produzione pornografica nel suo complesso, senza ombra di dubbio più perlustrata, contemplata e assaporata di qualsiasi sinfonia, poema, altare o cattedrale mai eretti nella storia umana? I critici, a giudizio di chi scrive inutilmente, si accapigliano e arrovellano a caccia di un nobile e diciamolo pure, col petto in fuori a parare fulmini e saette, forte sentire nel petto senza cuore di Adra. La star del porno prussiano in questione sta rispondendo alle domande di un intervistatore e parla di un delicatissimo intervento di chirurgia estetica che si è fatta fare alla lingua per rendere i propri pompini irresistibili e “Come possiamo dire? Inevitabili ecco”. Quale sentire fu mai più forte di questo?

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Quando poi ho aperto gli occhi, le lacrime continuavano a scendere lungo le spade, le mie braccia erano ancora imprigionate nel fango, e non potevo quindi strofinare i miei pugni contro gli occhi per asciugarli. Il metallo bagnato dalle mie lacrime mi pizzicava la lingua, lasciando in fondo al mio palato un minuscolo spettro acidulo: il sapore che si sentiva durante le antiche guerre?

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Il fuoco si diffuse lungo la catasta come una pellicola d’acqua, tanto all’inizio le fiamme erano basse.

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Era come se i suoi occhi fossero dietro di lui, proprio all’altezza della spada. Era come se la spada avesse liberato, con il taglio, lo spazio attraverso cui due nuovi occhi di demone avevano potuto aprirsi e vedere.

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Le spade ancora tremavano, una radiofonia metallica sospesa come una nebbia intorno alle lame. Poi nella stanza era entrata la luce del sole, e con la luce potei mettermi seduta e nascondere il viso tra le mani, finalmente libera.

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Il profondo silenzio della casa che anche quando Guijdo era lì veniva rotto solamente dal raro schianto di un qualche vecchio mobile, aveva finito con il coagularsi, nell’orecchio della donna, in una specie di fischio sottilissimo e quasi ronzante, fischio che di quando in quando sembrava avere delle modulazioni. Tali modulazioni apparenti di un fischio che non esisteva altrove che nelle sue orecchie convinsero definitivamente la donna che, al contrario, quel fischio che aveva in testa aveva una sua esistenza propria, e che quel ronzio fosse in effetti prodotto da un qualche insetto, da una vespa o da un calabrone in procinto di costruirsi la tana in qualche buco o crepa della casa; l’immagine dell’insetto velenoso rintanato in lavorio perpetuo divenne gradatamente un’ossessione, tanto che alla fine la povera donna si ritrovava con l’orecchio costantemente teso verso quel lievissimo stridore, come di ghiaccio incrinato, che sembrava sempre provenire dall’altra parte della casa.

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«Sono normali chiusure meccaniche di quelle per serrare ermeticamente i vecchi barattoli di vetro, ma a quanto pare, forse a causa della temperatura che ha fatto dilatare la latta della “bara” (dev’essere dunque quella la ragione delle ammaccature [Seconda nota manoscritta a margine, con grafia diversa dalla nota precedente: “Che il calore le intoni come in una pentola musicale?”]), sono bloccate. Mi chiedo se lungo i bordi del coperchio della “bara” di latta sia stata sistemata una guarnizione di gomma proprio come in quei vasetti. Le presine, il fornello, le chiusure della bara di latta… tutto all’improvviso mi sembra di essere dentro una vecchia cucina. Perché ogni cosa qui viene dissimulata in questo modo? Un’intera oggettistica fasmide. Io e mia moglie siamo troppo stupiti dall’aver scoperto che l’“harmonium” e la “bara” formano un binomio cardioradiofonico per intervenire in aiuto della bambina, inoltre il padre della bambina col frac benché stia sudando come in quelle vecchie saune a forma di scatola non sembra in difficoltà, e continua ad armeggiare con la manopola invisibile in fondo al tubo. La bambina col frac continua a spingere su una delle chiusure della “bara”, ma a quanto pare io e mia moglie abbiamo deciso che la aiuteremo solo nel caso la piccola chieda esplicitamente il nostro intervento, o che lo chieda suo padre.»

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Dal salotto sulle pareti del quale si distinguono i palinsesti di tracce lasciate dai precedenti abitanti ––– una grande chiazza rettangolare di colore verde scuro, ad esempio, ricordo di un armadio che quando siamo arrivati qui io e mio figlio abbiamo fatto a pezzi trovandoci dietro appunto sulla parete, quella chiazza verde avanzo di una tinteggiatura di chissà quanti anni prima (grattando la notte con le unghie contro la parete di camera mia, scavando per una via d’uscita come un prigioniero di un vecchio castello ––– castelli di legno barbarici in cui il viandante sprofondava per non farvi più ritorno se non sotto la maschera chiodata del personaggio di una fiaba in cui la più efferata tortura si mescolava alla farsa –– la notte indovino i ghirigori tracciati sul muro da chissà quale degli inquilini che sono stati qui prima di noi e che quei ghirigori fanno apparire quasi i prigionieri delle carceri antiche – non è in qualche modo disgustoso il pensiero che qui prima di me ci siano state chissà quante e quali persone combinando chissà quali e quante schifezze e grattando sul muro chissà quali e quanti ghirigori? Come la bocca o il buco del culo di una troia all’alba, ecco come dovremmo figurarci le nostre case noi che non abbiamo mai vissuto in un castello e non conosciamo l’ambigua delizia di sapere che tutte le schifezze e la merda che hanno attraversato nei secoli la nostra casa come una clessidra sono state vomitate solo e soltanto dai nostri antenati o se proprio di quando in quando dalle loro vittime scivolate per sbaglio nel nido di ferro del castello e nei capillari famelici delle sue oubliette,…

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Aveva sentito un liquido caldo che gli scendeva lungo i polpacci e aveva pensato di essersi pisciato o cacato addosso, poi le bocche senza denti si erano spalancate e lui era caduto all’indietro.

Il paese di fronte alla casa aveva un’illuminazione rossa che gli fece venire un urto di vomito.

Pensò che le montagne fossero di cartapesta e che la luce del paese fosse un effetto ottenuto sistemando una candela dentro la montagna. Chiuse gli occhi e vide un magro cervo, in posizione eretta, con un vestito da arlecchino assai sfarzoso, con gorgera, polsini di pizzo e una corta accetta d’argento infilata nella cintura, poi la febbre ebbe la meglio e lui perse i sensi.

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Dopo un po’ alle zanzare si aggiunsero le farfalle, che andavano a gettarsi contro le ante e i cassetti, gli scheletri e le corna e le sedie rotte in fiamme.

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La vecchia pornostar apre la bocca per fare uscire una risata che forse vorrebbe essere cattiva. Mima l’atto di fare una sega per far capire quanto l’intervento chirurgico sulla lingua sia stato radicale. “Datemi un supporto così vi faccio vedere”. La vecchia ps è vestita con un intrico di cinghie di pelle nera, pizzi e pelucchi dello stesso colore, groviglio che ha l’aria di poter essere slacciato con una sola mossa purché si trovi la fibbia giusta. Alcuni assistenti, sorridendo con labbra tirate, portano alla pornostar un’asse di legno (che nel doppiaggio prussiano non sarebbe altro che il tavolo operatorio su cui la protagonista verrà legata per essere squartata del fratello). La pornostar fa scorrere una mano sul bordo del legno, afferrandolo con un gesto da naufrago. Sorride e si sporge sopra il bordo dell’asse. I suoi capelli tinti con perfezione terrificante le coprono il volto sfaldandosi in ghirigori che sono quasi come un complicatissimo e vivente tatuaggio.

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«Con i pannelli dell’“harmonium” aperti, è finalmente possibile apprezzare le manovre del padre della bambina col frac sul “proprio” “cuore”. Il “cuore” che brucia dentro i pannelli è percorso da delle specie di minuscoli bruchi di fuoco, simili a lente e relativamente fredde cariche elettrostatiche che altro non sono se non le trasmissioni dalla “bara” all’“harmonium”, dal cuore vero e proprio del padre al “cuore” nella teca con le icone. I “bruchi” elettrostatici sprofondano sempre più all’interno del/i [“]cuore/i[”] consumandolo/i. È come se il “cuore” fosse un avvolgimento di tessuti e i bruchi mangiassero i fili più sottili della trama di quei tessuti, corrispondenti – questo più o meno il mito – ai filamenti di DNA a propria volta corrispondenti al dominio genetico prescelto, anche se non saprei dire con certezza cosa stia accadendo al cuore del padre della bambina col frac (che lui abbia voluto fingere di essere costretto ad entrare nel museo per ingannare la figlia, la quale pensava fosse solo una gita in un parco acquatico? che conosca un modo per bloccare dall’interno il coperchio della “bara”? che voglia insomma far svanire il proprio cuore nelle striscioline infuocate dell’“harmonium”), anche se è evidente che il tracciato dei bruchi elettrostatici corrisponde al movimento degli aghi collegati alla manopola invisibile in fondo al tubo, azionata dal padre della bambina col frac e a propria volta innestata nella cassa toracica dell’uomo.»

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…e le spade svaniscono frammentandosi nelle linee tratteggiate delle tapparelle contro la parete, quali quotidiani ghirigori sempre eguali fin da prima che questa torre grigia venisse per la prima volta abitata, chiazze di luce purificate di ogni umana schifezza ma esse stesse schifezza, caccole del Sole) dal salotto mio figlio mi fa capire di essere sveglio con tosse catarrosamente come un rettile preistorico che abbaiasse in quello stesso fango che la notte mi imprigiona le braccia impedendomi di togliere le lacrime dalle spade. Mio figlio appena sveglio urla i suoi colpi di tosse catarrosa finché qualcosa non gli va per traverso e allora mio figlio si alza e barcolla fino in bagno per sputare il fango che gli si è accumulato in gola durante la notte, poi dopo un po’ dal bagno lo sento urlare “Vittoria, vittoria!”, e subito dopo “Mamma”, urla “Mamma” e poi “Mamma” e poi “Mamma” come fosse nato allora, o allora allora avesse imparato a parlare.

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Fuori dalla finestra il cielo era innaturalmente sereno rispetto al rumore del vento e la luce dei lampi. Da bambino aveva visto una volta un arcobaleno prodotto dalla luna, tenuissimo e liquefacentesi, cioè non un alone iridescente intorno all’astro ma un vero e proprio arcobaleno malfermo e sbrodolantesi tra le nubi.

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…se spostati tutti da un lato, tenendo la testa inclinata come sta facendo ora la ps, i capelli diventano la testa di un mostro infantilmente mesozoico con le fauci spalancate (nella versione prussiana, questa testa non è altro che la vagina/feto-demone di cui sopra sospesa nel riflesso delle piastrelle –– può essere divertente togliere l’audio, aggiungendo così il silenzio come ultimo universale dialetto umano, per vedere le scene senza spiegazione e abbandonarsi all’oscillazione vagina-mostro mesozoico in cui il cervello rimane intrappolato quando gli si tolga da sotto le ruote il binario linguistico). “Vorrei farmi trapanare il cranio, così la lingua potrebbe uscire proprio dalla bocca del mostro” spiega la vecchia ps con caricaturale enfasi erotica sul trapanare (“Ora ti ucciderò, e poi amerò il tuo bel corpo freddo” suona la stessa battuta nella versione prussiana), dopodiché non le è più possibile parlare. L’estroflessione della lingua è a dir poco sbalorditiva, e inizialmente arriva a coprire la faccia della vecchia ps fino alla fronte; a quel punto, come in una ripresa in time-lapse di un fiore che sboccia, con un morbido plop la lingua della ps si apre in un artiglio a tre dita.

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Le creature delle costellazioni strisciavano una sopra l’altra, pulsando, il nero del cielo come pece in lenta ebollizione, lentissime bolle nere squarciavano brevemente il velo con un suono di lattina schiacciata, lasciando intravedere i sistemi di lancette e tubature che regolano il movimento stellare, le manopole e le leve azionate da smunti arlecchini privi di volto che talvolta nei loro andirivieni si scontravano l’uno con l’altro, palpandosi stancamente, strofinando con forza l’uno contro l’altro quei non-volti, come per avere sollievo da un insostenibile prurito.

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«Durante questa fase preliminare di trasmissioni, il “cuore” può ricordare un tappeto che viene sfilacciato un nodo per volta. Il/i [“]cuore/i[”] è/sono sempre più sfilacciato/i, trasparente/i e tremulo/i, un reticolo grigio dall’aspetto polveroso, con un centro nero nel quale i brevi e sottili bruchi incandescenti continuano a sprofondare, riducendone sempre di più il volume. È per l’“harmonium” che io e mia moglie siamo venuti qui, per vederne il funzionamento. Facevamo lo stesso con la moquette, io e mio fratello, da bambini: tiravamo un filo e lasciavamo solo la trama di gomma, attraverso la quale tornavamo a intravedere il pavimento come la vera pelle della casa. In mano il filo diventava sempre più lungo e dopo un po’ non riuscivamo più a tenerlo tutto appallottolato in una mano, ma il modo in cui si sfilava appariva del tutto indipendente dall’ammasso confuso che alla fine ci restava in mano, come un intestino di talpa; era come se la gomma e il pavimento sottostanti avanzassero in sottili linee rette disintegrando la moquette che li imprigionava. Una cosa che a me e mio fratello bambini appariva, come quasi tutto del resto, magica.»

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Né ella partiva alla ricerca metodica dell’insetto, preferendo girare a casaccio e confusamente per le varie stanze, spazientendosi in continuazione: era uno dei modi che il crudele angelo che stava prendendo possesso della sua memoria aveva escogitato per evitarle di arrendersi all’evidenza del carattere allucinatorio del fischio; un altro espediente era quello di darsi una spiegazione differente all’origine del fischio, come se l’accumulo di differenti ipotesi potesse dare maggiore realtà all’oggetto di tali ipotesi, e allora poteva trattarsi del vento tra le commessure delle vecchie imposte, o di un qualche elettrodomestico, come per esempio una lavatrice, lasciato acceso negli appartamenti accanto al suo, o di un filo d’acqua che passava nelle tubature, o di altro ancora: piuttosto che accettare l’irrealtà del fischio, Lijna arrivava persino a immaginare che quel fischio potesse provenire da una delle sue stesse narici, che magari si era leggermente otturata. Subito allora si soffiava il naso e inalava addirittura dell’acqua, per poi tendere nuovamente le orecchie: sì?… no?… sparito?… no… no: il fischio non era sparito.

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Come un secondo figlio altrettanto implacabile del primo, nel pomeriggio il sole comincia le sue grida con una lama una rama una rana di luce apparentemente innocua, quasi bella.

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L’uomo faceva cerchi e diagonali con le braccia, forse soltanto per scacciare i nugoli di insetti, un qualcosa che da lontano aveva del direttore d’orchestra e insieme del maestro di arti marziali.

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“L’operazione chirurgica è consistita nel praticare due tagli latitudinari in modo da rendere la lingua triforcuta, seguiti da una serie di iniezioni di DNA di lucertola (qui per uno di quei rari miracoli linguistici e narrativi il dialetto prussiano e quello polacco, e con loro l’intervista e lo squartamento, si sovrappongono) che hanno contribuito all’abnorme ingrossamento della triforcazione e alla formazione di concrezioni ossee benigne all’apice di ciascun diciamo rebbio, concrezioni che rendono alla perfezione l’illusione dell’unghia di un drago, imprescindibile in una fellatio degna di questo nome.” Mentre la presentatrice spiega il decorso dell’operazione, la lingua artiglio riesce in qualche modo a intrufolarsi tra i capelli/mostro della vecchia ps, e anche se in effetti va dato atto che la trapanazione del cranio della vecchia ps renderebbe il tutto molto più fluido e realistico (senza contare la preoccupazione – condivisa da qualunque spettatore con un minimo di cuore – per la vecchia ps, la cui faccia è ormai da diverso tempo completamente coperta dalla lingua-artiglio –– il che significa che tutta questa dimostrazione viene fatta in apnea) bisogna convenire con lei che l’effetto è “prepotentemente gustoso”. L’artiglio palpa mollemente l’asse di compensato. La dimostrazione, per via dell’apnea – l’intero volto della vecchia ps essendo coperto da quella lingua mutante – e della slogatura della mandibola cui ogni volta è costretta la ps per vomitare l’artiglio (nella versione prussiana il fratello, un incallito satanista, si fa scorrere tra le mani le interiora della sorella con un gesto che ricorda quello del vecchio Gomez Addams che legge l’andamento del mercato su una striscia di carta srotolatagli tra le dita dalla telescrivente) entra ora in quella fase di silenzio generale da parte della cronista e dei cameraman e di chi ci segue da casa, silenzio che caratterizza ogni prestazione agonistica genuinamente rischiosa e, come dicono (o dicevano?) in TV, “ai limiti dell’umano”. L’artiglio palpa gli oggetti sempre più stancamente al diminuire della riserva di ossigeno nei polmoni della vecchia ps che anche all’artiglio naturalmente danno vita. La presentatrice inizia a lanciare sguardi c’è-un-medico-tra-voi oltre l’inquadratura.

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Comunque sia, nonostante queste altre ipotesi, per un qualche motivo le vespe e i calabroni avevano sempre la presa più costante sulla fantasia tormentata della donna: segno certo ne erano una sua tensione muscolare, pronta a far scattare il braccio e tutto il corpo all’indietro, quando si trovava a sistemare libri abbandonati da tempo, o la cautela esagerata nel sollevare le tapparelle dopo sveglia, nel continuo timore che dietro quel libro, sotto quella tapparella, nugoli di vespe avessero nidificato e fossero pronte ad aggredire l’incauta turbatrice dei loro pacifici negozi. Spesso la donna acquistava dell’insetticida, che spruzzava in qualsiasi anfratto, buco, o crepa le apparisse sospetto, onde stanare la maledetta bestiaccia. Salvo che, dopo aver controllato nel buco in cerca dell’insetto, Lijna lo trovava immancabilmente vuoto.

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Un giorno ho ritrovato un biglietto di auguri per la festa della mamma in cui mio figlio mi aveva disegnato come un gigantesco corpo nero di spaventapasseri a lato del quale, sotto il livello dei piedi, c’era una macchia di colori sparsi, un esserino senza mani e senza piedi, senza gomiti e ginocchia, che era lui, mio figlio stesso.

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«Ed era per vedere quelle linee rette disegnarsi e divorare la moquette che io e mio fratello facevamo quel gioco. Le traiettorie dei piccoli “bruchi” sono invece irrazionali e, dal punto di vista di un bruco reale, molto rapide, ma sempre per così dire bruchiformi; spesso i “bruchi” si dilatano in un’onda che si allarga sempre di più e infine si divide in due nuovi “bruchi”, altre volte viceversa due piccoli “bruchi” nei loro andirivieni si fondono insieme fino a diventare un piccolo puntolino rosso-lava che si spegne nel fondo nero del/i [“]cuore/i[”], infett-/attiv-/tatu-andolo/i. Non fosse per la velocità, il tutto è simile a quando abbiamo visto la lava uscire da uno dei camini dell’Etna, la notte, dall’aereo, mi bisbiglia mia moglie. Non ricordo nessun viaggio in aereo sopra l’Etna. Poi la “bara” ha una seconda scossa. Il padre della bambina col frac lascia scivolare il braccio sinistro fuori dal tubo. Non ricordo nessun viaggio in aereo sopra l’Etna, dico finalmente alla donna che è con me e che non conosco e che so essere mia moglie.»

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Lijna compieva tutte queste operazioni quando Guijdo non era in casa; quando il figlio arrivava, ogni ipotesi sul ronzio e ogni ossessione riguardo vespe e calabroni venivano riposte, come se si trattasse di una cosa che si fa in intimità o di un vizio o un piacere che non stava bene fare e di cui non stava bene parlare così a viso aperto né davanti a chicchessia, e la donna sprofondava in quell’inerzia malinconica che Guijdo credeva essere l’abituale maniera di vivere della madre, e che era in realtà un broncio momentaneo per l’intempestivo arrivo di un intruso nel bel mezzo della guerra contro gli insetti.

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Poi riaprì gli occhi, e il cielo era di nuovo fermo.

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Quando la mattina mio figlio mi sveglia gridando che gli si stanno incollando le ginocchia mi sembra di vederlo sfarsi tra le lenzuola come una chiazza di colore che potrei calpestare e frantumare in variopinte bricioline colorate, fossi una di quelle vecchie pazze che salgono in piedi sul letto per cantare l’aria della Regina della Notte.

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Sempre di più, confrontando il grigiore e la tristezza della propria vita attuale con i colori e le trombette di carta dei primi anni, in Guijdo si faceva strada la vecchia idea che gli dèi abbiano concesso all’uomo di essere felice solo negli anni acerbi dell’infanzia.

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«Mia moglie si siede all’“harmonium” e aziona alcune manopole e tasti. Cantando sulle “note” emesse dall’“harmonium” mia moglie sussurra Archaea. Il padre della bambina col frac si volta verso di me. La bambina col frac scappa via dalla “bara” di latta piangendo e viene a rifugiarsi dietro le mie gambe. Mi tiene forte una coscia e nasconde la faccia contro i miei pantaloni. Sento le sue piccole unghie entrarmi nella carne poco sopra l’incavo delle ginocchia.»

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Il finale del film è ambientato sulle scale di un nuovo condominio popolare. Per risparmiare spazio, in barba alle più elementari norme sulla sicurezza e sulla privacy, le scale sono state come dire incastonate nei vari appartamenti, quasi intrufolandovisi, cosicché non è possibile passare per le scale senza contemporaneamente passare attraverso uno o più appartamenti. Gli inquilini meno rispettosi hanno arredato la loro sezione di scale, il che rende, peggio che difficoltosa, letteralmente rischiosa la salita, per la quale sono di primaria importanza alcuni appigli dissimulati a bella posta tra gradini e ringhiere, e che questi inquilini hanno pensato bene di agghindare con ninnoli che in questi giorni hanno un aspetto natalizio o genericamente tirolese. Le scale hanno una struttura a spirale frammentata con scaglie di scalini parzialmente sovrapposti, una sorta di mutazione perversa delle comuni scale a chiocciola che permette un’ascesa più rapida a patto di possedere alcuni rudimenti dell’arrampicata, ma in ogni caso continuamente a rischio di rompersi l’osso del collo. La salita finale viene eseguita da due personaggi: il primo è un abitante della casa che ha capito da tempo che il trucco consiste fondamentalmente nel tenersi sulle scaglie di scalini più basse, ovvero nel passare rapidamente dalla metà di un frammento di spirale al principio del frammento successivo.

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Anche Guijdo ricordava bene la storia dei cappellini, perché quando era bambino la madre gliela raccontava spesso, per fargli immaginare il bisnonno Olhmo che era morto prima che lui nascesse. Il padre di Guijdo trovava quella storia estremamente divertente, e se si trovava a passare di lì mentre Lijna raccontava al piccolo Guijdo le sfuriate delle signore non mancava mai di prendere in braccio Guijdo e metterselo di traverso sulla testa come fosse un cappello impossibile, e tenendolo in questo modo girava a destra e sinistra, si puntava in su e si piegava in giù con scatti marziali, gridando “Pende di qua! Pende di là! Troppo grosso! Troppo piccolo!”, mentre Lijna, dietro, si raccomandava che non facesse cadere il bambino, rossa come un pomodoro, e Guijdo, appoggiato sulla testa del padre, rideva in modo incontrollato, tanto da non poter più respirare dal mal di pancia.

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«Mia moglie inizia a decodificare le trasmissioni dalla “bara” di latta al “cuore” nell’“harmonium”, ormai ridotto (il “cuore”) a una medusa di polvere che galleggia nell’atmosfera incandescente della teca.»

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I piedi e le mani di mio figlio si sciolgono in chiazze di colore sulle lenzuola mentre lui con gli occhi e la testa e la bocca ingigantiti dalle lacrime mi grida “Mi si stanno incollando le ginocchia”.

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In cantina, in qualche baule, dovevano ancora esserci i vecchi attrezzi del bisnonno [Nota a margine, manoscritta, nella stessa grafia della seconda: Quali], ma adesso i cappelli arrivavano dalle fabbriche, di tutti i modelli, e le signore non venivano più a lamentarsi se quello del marito era troppo piccolo. Di quelle signore anzi forse non ce n’erano nemmeno più. Per il resto, il negozio non era cambiato granché; faceva parte delle costruzioni più antiche del paese (era stato una taverna), e guardava verso il porticciolo; accanto aveva una vecchia casa giallastra, tutta circondata da un balcone coperto di gerani rossi. Guijdo, dal bancone del negozio, passava la gran parte del tempo a fissare quel vecchio muro giallo e quei fiori rossi e le api sui fiori, senza pensare a nulla, in beata ebetitudine.

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Man mano che il fuoco ne spezzava le cartilagini la struttura si muoveva come obbedendo ai gesti dell’uomo, come un animale immaginario sotto i comandi del suo domatore o del principe imprigionato dentro la sua corazza, combattuto tra l’obbedienza e la sete di sangue.

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Poi un suono che ancora gli rimaneva nelle orecchie come se tutti gli arlecchini fossero scattati sull’attenti per farlo a pezzi con le loro corna di cervo lo fece sporgere oltre la sponda del letto, e vomitò.

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Ma una volta da piccolo Guijdo era andato con i genitori a casa di altre persone, e quando per far ridere tutti aveva chiesto alla madre di raccontare la storia dei cappelli del nonno, lei, senza che lui ne capisse il motivo, lo aveva zittito bruscamente, e non aveva raccontato nulla.

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Bimba, io lo chiamavo Bimba, il mio Bellabimba, ma come balli bene bella bimba con il tuo ba ba baciami piccina, e fu al ritmo di quelle parole che lui infine intonò il suo canto di eterno odio e eterna supplica che dura ancora oggi.

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Il risultato è un maggior numero di scalini da percorrere a fronte di una velocità e una sicurezza considerevolmente superiori rispetto alla strategia adottata dall’altro personaggio, ospite del primo e nuovo a simili trabiccoli, che sistematicamente arriva alla fine di ogni sezione di spirale ritrovandosi troppo più in alto della spirale successiva sottostante, costretto, per raggiungere la semispirale di gradini più vicina, che si trova più in alto e più in avanti (diciamo che la struttura nel suo complesso ricorda quella di un’elica multipala), ad aggrapparsi alle ringhiere, ai ninnoli, talvolta persino ai mobili degli inquilini dei vari piani, che in ogni caso cercano come possono di aiutarlo (in una delle scene più comiche una vecchietta gli regge il braccio e nel contempo gli chiede di aprirgli un barattolo di peperoni “Taaaanto taaaanto duuuuro”), consapevoli della difficoltà dell’ascesa per un profano. Immaginiamo che il lettore sia ormai abbastanza scaltrito nella comprensione del dialetto prussiano per poter ricostruire per conto proprio la versione polacca, decisamente più cruda e perciò passata qui sotto silenzio, di questo farsesco finale.

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«Ne valeva la pena, sento che dice indossando un paio di cuffie e prendendone un altro paio per me, ma non faccio in tempo ad indossarle e a sentire il primo grido della trasmissione, che il dolore per le unghie della bambina col frac sempre più confitte nella mia coscia mi strappa da tutto quanto.»

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E quando provo a richiudere gli occhi le spade tremano ancora, come malevole eclissi solari.

[continua il 22 novembre]