Presiden arsitek/ 4

di in: Presiden arsitek

a Andrea Bertassi

 

Riassunto delle puntate successive: Vengono presentati in ordine casuale i personaggi dell’opera lirica a puntate The Fools in the Wood (N. B.: Sebbene la gran parte dei personaggi di TFitW siano dei vecchi, gli attori sono quasi tutti bambini tra i sei e gli undici anni). Per comodità degli spettatori i personaggi vengono scaglionati in due manipoli/gruppi: Il gruppo del pullman (primo coro/manipolo): LEONARD W. MONTGOMERY (JUNIOR) Un ragazzino con una conoscenza enciclopedica degli animali e delle loro abitudini; LEONARD W. MONTGOMERY Suo nonno, radioamatore; I SIGNORI MONTGOMERY Madre e padre di Leo (sempre in coppia; il padre non ha battute); MRS O’OSEVEN Una vecchia impicciona; PAUL IDORY Un signore rimasto chiuso nel pullman da un viaggio precedente; MRS. IDORY Sua moglie (invisibile; lo chiama al telefono); MR. e MRS. BRICK Costruttore in pensione e sua moglie; MR. MCLAREN L’autista del pullman; OBLIVIA RESET Una donna smemoratissima; I SIGNORI RESET Figlio e nuora di Oblivia (sempre in coppia; parlano tutti e due; mr. Reset cerca sempre di raccontare una barzelletta a mr. Montgomery (inizio della barzelletta: “Un cane entra da un parrucchiere e si mette ad abbaiare”) ma viene sempre interrotto); MR. HURTPAIN Un ipocondriaco; GLORIA La guida (donna). Il gruppo del camion (secondo coro/manipolo): MR. TIGHTROPE Un vecchio equilibrista artritico e brontolone; MERCEDES PIAZZOLLA L’autista del camion; MR. e MRS. SWING Vecchi diavoli volanti; SYLVA Loro figlia (Bambina col Frac); AUGUSTUS e CONTRA-AUGUSTUS Due vecchi clown rimasti senza WHITEFACE (scomparso; non presente in scena; privo di battute; alcuni spettatori sostengono di vederne l’ombra lunare con la coda dell’occhio, appesa nella tenue tenebra del loggione; l’ombra bianca di Whiteface traballa a pochi centimetri dai loro volti, come l’agguato inceppato di un pupazzo in un vecchio tunnel del terrore); MR. SCABBARD Vecchio mangiaspade; PETROLIA SCABBARD Vecchia sputafuoco, sua moglie; QUEEN TILE Ex donna cannone, ora indovina, vecchia; PROF. JACK TILE Vecchio uomo proiettile, suo marito; MR. e MRS. THROW Vecchio lanciatore di coltelli e sua moglie/bersaglio, vecchia; UN POLIZIOTTO (non fa parte di nessun coro/manipolo). Scena: Una strada in mezzo al bosco. Trama: Durante una tempesta, un pullman di pensionati va in panne nel mezzo di un bosco. Nel gruppo di pensionati, si distinguono in particolare: miss O’Oseven, un’infernale vecchietta che che unisce il vizio del pettegolezzo con raffinate tecniche di intercettazione e mimetismo; Leonard W. Montgomery, un vecchio radioamatore che passa il tempo cercando di entrare in comunicazione con una voce intercettata dalla sua radiolina; il suo nipotino omonimo, Junior, un ragazzino appassionato di animali, campo nel quale ha una conoscenza quasi enciclopedica; mrs. Oblivia Reset, ex insegnante smemoratissima e pasticciona. Mr. McLaren, l’autista, e Gloria, la guida (innamorata dell’autista) si inoltrano nel bosco alla ricerca di aiuto; nel frattempo, il gruppo di pensionati scopre che nel gabinetto del pullman c’è un signore rimasto chiuso lì da una gita precedente, fatta durante la notte di Halloween. Nonostante il perdurare della tempesta e le forze limitate, i vecchietti riescono a scardinare la porta del gabinetto. Dallo stanzino esce il conte Dracula: per la festa l’uomo, di nome Paul Idory, aveva scelto quel travestimento. Il vampiro getta i vecchietti nel panico; in quel momento tornano dal bosco l’autista e la guida, che si uniscono alla baraonda. Miss O’Oseven, esperta in arti marziali, immobilizza mr. Idory. (continua…)

 

 

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Della Vita di S. Satiro, uno dei capitoli più corposi di In cuniculum, non resta che la prima pagina (il simbolo ‡‡‡ indica le parti illeggibili): “Conobbi don Giorgio Giorgio (talmente bizzarro suona il suo nome che non è possibile negarne la realtà, che talvolta mi si impone come un castigo, tanto che prenderei a riempire pagine su pagine con quelle quattro lettere, Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio…) durante un’escursione in montagna che non mi stava piacendo per via della pioggia e dei tuoni. Avevo trovato riparo dentro una piccolissima chiesa quasi in vetta, una chiesa da guerra decorata con ogive. Dentro era ancora più nero del cielo, perché non era accesa nemmeno una candela. Poi, come in un pessimo film dell’orrore (nei miei ricordi c’è persino una signora del pubblico che a questo punto si lascia sfuggire uno sbadiglio mentre sullo schermo la tempesta in bianco e nero da poche migliaia di watt illumina per un attimo la chiesetta) un lampo fece luce sulla chiesetta, rivelando come non fosse vuota. Pure, forse per la brevità del lampo che ne aveva immobilizzato il fotogramma, sulle prime scambiai don Giorgio Giorgio per una statua di legno, un san Giuseppe magari. Anche adesso quando penso a don Giorgio Giorgio penso a del legno appena dipinto, all’odore della vernice, e arrivo a convincermi di essermi scheggiato una mano contro i suoi palmi, di essermi appiccicato le punte delle dita con della vernice fresca, quando infine ci presentammo. Di notte, prima di addormentarmi, se penso a don Giorgio Giorgio mi figuro di tenerlo in braccio come un pupazzo per ventriloqui (ma forse il pupazzo per ventriloqui mi viene in mente perché tra le cose che mi disse don Giorgio Giorgio era che tutte le raffigurazioni in cui Maria tiene in braccio il bambino gli facevano venire in mente <‡‡‡>) o una bambola russa contenente al suo interno una serie lunghissima di don Giorgio Giorgio sempre più piccoli, così: Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio Giorgio… <su questa sequenza di nomi il corpo rimpicciolisce ad ogni nuova parola, fino a che l’ultimo Giorgio risulta grande quanto uno dei puntini di sospensione; avversi a simili baroccherie tipografiche, non abbiamo esitato a normalizzare>.

 

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Riassunto delle puntate successive: “Fumava un tabacco particolare, che mandava un odore come di paglia, come se il presidente fosse una specie di spaventapasseri senza cervello.” (Frase acchiappata al volo durante un sogno con il presidente sdraiato su un mucchio di paglia in un appartamento in costruzione, privo ancora di serramenti; nel piano di sotto – o più precisamente nel sotterraneo – c’è qualcosa o qualcuno che sorride in silenzio ed è cattivo.) Indica le crepe nel pavimento e dice che il giorno prima non c’erano. Si tratta di un mostro sepolto sotto il condominio, che spinge per uscire come un pulcino che rompe il guscio. Per prima si vedrà uscire la melma nutrimento del mostro nel guscio.

(Alcune capre mordono la paglia e l’architetto apre gli occhi.)

 

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Breve nota storico/preventiva sui “labirinti” A Porta Bianca (prima parte)

I primissimi “labirinti”, benché potenzialmente letali, sono di una linearità da califfo borgesiano. Una tiritera sui tranelli dei bambini serve per irritare/affascinare la vittima. Un tipico prototipo di “labirinto”, una propedeutica ai tranelli maggiori, è il “labirinto” cosiddetto A Porta Bianca (nota: se volete irritare un costruttore di labirinti, usate le sigle, dite per esempio “un APB”): mentre la tiritera a mezzavoce continua a mettere in guardia la (in realtà inducendo subliminalmente uno stato di ipnosi nella) vittima, la vittima si accorge di avere in tasca delle biglie, e che la porta bianca davanti a lei ha, al posto dello spioncino, una minuscola nicchia emisferica. La tiritera (quando i bambini fanno i tranelli chiudono sempre le porte a chiave quando i bambini fanno i tranelli chiudono sempre le porte a chiave) aumenta di volume. La vittima avvicina la biglia alla nicchia emisferica. La biglia entra nella nicchia con uno scatto metallico: la serratura della porta bianca eponima è aperta. La vittima apre la porta e trova davanti a sé un’altra porta bianca identica alla prima. Usa un’altra biglia per aprirla e si trova davanti un’altra porta bianca. La vittima sa che non le restano molte biglie, e esaminandole si accorge che ce n’è una rotta a metà. Chi abbia anche solo sentito parlare dei “labirinti” sa bene che una serratura eccentrica e un insieme di chiavi per aprirla sono un segno inconfondibile e certissimo che c’è in corso un’esercitazione sui “labirinti”…

 

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Riassunto delle puntate successive: Tra le cose che in seguito continuano ad ossessionare M., ampio spazio viene dedicato all’odore di acqua stagnante; M. continua ad avvertirlo, più o meno intenso, più o meno ovunque (serie di siparietti in cui M., nei momenti meno opportuni, sostiene di sentire puzza di acqua marcia). Alla fine, per non parere più di essere ossessionato da quell’odore, M. risolve di andare a vivere a Venezia. “Ecco”, borbotta tra sé e sé nel vento di piazza san Marco (i gondolieri come traballanti spaventapasseri marciti) “ho vissuto una delle avventure più incredibili che un uomo possa vivere, e non sono nemmeno riuscito a diventare un tipo originale” (M. non sa che, per i suoi malumori improvvisi, le sue inspiegabili amnesie, i suoi viaggi continui da una città all’altra d’Italia, egli risulta una persona, se non originale, per lo meno un po’ picchiata). Era ormai come un vecchio che osserva un cantiere di lavori in corso o lo spettatore di un museo, cioè col mezzo sorriso di chi senza minimamente esserlo tuttavia si sente la persona incaricata di dare la giusta lettura di quello che vede, ma i lavori in corso e i pezzi d’esposizione hanno confini ben delimitati da transenne, così diceva sempre l’architetto, “Cordoni di velluto, vetrine e sensori, mentre le strutture architettoniche sono fatte per essere penetrate dall’uomo anche se l’uomo non ne è parte, non ne è mai stato parte. L’architettura è una trappola per uomini, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”

 

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Si ha l’impressione che, al rinforzare delle raffiche, dal corpo dei gondolieri si strappino i fili di paglia che hanno al posto delle viscere, persino i bottoni che sostituiscono gli occhi.

 

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Mi risvegliai su un treno in corsa verso Venezia.

 

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Altre foto ritraggono i due locali (la stanza di un piccolo albergo a Varsavia e la casa giocattolo di legno di un parco giochi, sempre a Varsavia) in cui sono stati ritrovati i corpi dei due tester/vittime. Allegate alle fotografie, ci sono le due brevissime descrizioni di NITA™ redatte dai due tester/vittime poco prima di togliersi la vita.

Descrizione di NITA™ numero 1 (dalla stanza del piccolo albergo): “Donna disperata tutta nervi punta un ferro da calza verso di me gli occhi del colore del cielo riflesso nel fango.”

D.d.N. n. 2 (dalla casa giocattolo): “Corpo nero e tozzo come quello di una vecchia comare in riva al mare il cui volto è in realtà una falce d’acciaio e che contro la luce del sole sembra una maschera veneziana o un pinguino mutante con gli occhi di fango.”

Com’è noto, le due descrizioni dei tester/vittime (per quanto brevi, piuttosto sconcertanti, in particolare la d.d.N. n. 2 – riportata qui verbatim -, quando si consideri che il tester/vittima che l’ha compilata aveva solo nove anni) non sono le uniche descrizioni di NITA™ di cui si dispone: oltre ai grafici del laboratorio di T***š B****k, con i quali l’equipe di T***š B****k ha cercato di risalire al codice originario di NITA™ prima che venisse decrittato e quindi irrimediabilmente compromesso e cancellato dalle “macchine della verità” (il nome dato da T***š B****k alle “macchine della verità”, ovvero il nome che T***š B****k avrebbe voluto dare alle macchine qualora il videogioco SHERWOOD® avesse superato la fase cosiddetta bravo di collaudo – nota: tradizionalmente le fasi finali di collaudo di un videogioco vengono distinte in alpha e beta, beta indicando la fase terminale, quella in cui il videogioco può essere considerato quasi definitivamente pronto per il lancio sul mercato, e nella quale vengono spesso utilizzati anche tester volontari; la fabbrica di giocattoli produttrice di SHERWOOD®, tuttavia, per un suo vezzo/velleità di eccentricità/eccellenza preferisce utilizzare l’alfabeto fonetico radiotelegrafico, distinguendo perciò le due fasi in alpha e bravo — occorre qui aggiungere che i protocolli del collaudo di SHERWOOD® fanno esplicito riferimento, per quanto riguarda i test su NITA™ e la nuova versione depotenziata DAIMON™, ad una non meglio specificata e inedita “fase charlie”, che secondo la terminologia “standard” delle fabbriche di giocattoli corrisponderebbe quindi ad un’altrettanto inedita “fase gamma” — a questo proposito, uno dei risultati più importanti del processo a T***š B****k è stato l’emergere dell’urgenza di una precisa regolamentazione delle varie fasi di sperimentazione di videogiochi, in particolare della nuova generazione di videogiochi a tecnologia quantistica come appunto SHERWOOD® — — – il nome che T***š B****k avrebbe voluto, vale a dire, vorrebbe dare alle macchine della verità è SCRIBA™, nome che accanto a quello del nuovo programma di scrittura automatica DAIMON™ evidentemente intendeva ovvero intenderebbe creare una rete di riferimenti vari alla storia o all’arte antiche, né è stato possibile accertare se fosse stata o no prevista una linea di accessori per il videogioco dotati di nomi di analoga ispirazione — su questo punto il trust di ditte messicane e cinesi che controlla la fabbrica di giocattoli produttrice di SHERWOOD® mantiene, per un qualche suo non rivelato motivo, il più evasivo riserbo permesso dalla contingenza attuale), sono state lette al processo altre descrizioni di NITA™ redatte dai tester/superstiti (il numero esatto nonché l’identità di queste persone, attualmente in cura/osservazione presso un non meglio precisato ReCoPerCa (Reparto Consulenza Perduta Calma) all’interno di uno degli stabilimenti della fabbrica di giocattoli, non sono stati resi noti, in conformità alle richieste della gran parte dei familiari dei tester/superstiti stessi), nessuna delle quali descrizioni tuttavia sembra esaurire in modo soddisfacente le caratteristiche di NITA™, e questo non tanto per l’incapacità di chi ha stilato le descrizioni di raggiungere una ragionevole completezza, quanto perché capita che tra una descrizione e l’altra appaiano caratteristiche che sarebbero incompatibili o perlomeno paradossali se venissero semplicemente sommate allo scopo di ottenere un’unica e più esaustiva descrizione, senza contare che in una di queste altre descrizioni NITA™ non è nemmeno un essere umano, bensì un cervo orribilmente deturpato da una specie di cancro o parassita che gli pende da un fianco. L’accusa ha ottenuto la lettura pubblica quasi integrale di un documento riservato della fabbrica di giocattoli risalente alla fase alpha del collaudo, nel quale sono riportate alcune delle descrizioni di NITA™, estrapolate a gran fatica dall’intrico verbale emesso dai tester/superstiti in seguito all’esposizione a SHERWOOD® e accolte durante il processo come prova a carico degli imputati; il documento aiuta a farsi un’idea da un lato dell’eterogeneità delle varie descrizioni, dall’altro della loro monotonia:… (continua…)

 

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Il presidente è una murena.

 

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Un costante lavorio di finzione che finisce col costruire una specie di esoscheletro che va a sommarsi al vero e proprio scheletro come un’armatura. La pelle stessa è come un’armatura, e la carne compressa tra le spine delle ossa e quelle di questo involucro esterno, marcisce. Un costante lavorio di finzione che poi è lo stesso che dire Un lavorio di rinuncia. Una spina azzurra nel fianco, attorno alla cui punta gorgogliano umori rossastri. Come se diligentemente dovessi volare intorno ad una fiamma, badando che il fuoco non mi bruciacchi le ali quel poco che mi permetta di continuare a volare (ma la mia traiettoria è sempre meno simile ad un volo, e presto sarà solo l’orbita tracciata da un insetto nella polvere) e quel tanto che mi impedisca di sfuggire al tormento. Quale sarà stata l’estasi del martire? Sarà stata la stessa che ho provato io quando le tre dita dell’architetto hanno pinzato il mio cuore tenendolo come uno straccio umido?

 

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Non si sa se sia o no una voce la notizia secondo cui i primi passi sul palcoscenico da parte di Adra fossero nella poco gloriosa parte dell’estremità posteriore di un cavallo in una farsa musicale intitolata The Fools in the Woods, né è chiaro se il cavallo in questione fosse, nella finzione della storia, un cavallo vero o effettivamente finto, cioè finto anche per i personaggi della storia, particolare di non secondaria importanza dato che nel secondo caso sarebbe potuto accadere che di quando in quando il personaggio interpretato da Adra uscisse dalle gambe di tela del cavallo. Ad oggi non è stato possibile rintracciare nemmeno una copia di un filmato di quella farsa, che ha avuto pochissime repliche e uno scarsissimo successo.

 

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I roditori e gli uccelli puzzano. Puzza quello che mangiano. Avevamo un coniglio, un grosso coniglio ariete con le orecchie all’ingiù, come le bande di capelli di una dama spagnola. Si chiamava Priscilla, e anche se ad un certo punto ci era stato detto che era un maschio gli avevamo lasciato quel nome. A volte Priscilla si attaccava con i denti contro le sbarre della sua gabbia, e la faceva tremare. Forse anche il mio cuore schizza guano lungo le pareti del mio corpo, o gratta i denti contro le mie costole, si arrota il becco come su un osso di seppia. Priscilla suona la chitarra, dicevamo, ma lui aveva imparato che a fare così attirava la nostra attenzione e le nostra compassione, e infine il cibo. Guardavo il mio corpo attraverso la lastra di ghiaccio delle lacrime e dicevo questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, questo è il mio corpo di undici anni fa, come un castigo o una preghiera e mano a mano che me lo ripetevo la bocca e la gola mi si contorcevano come per ridere, perché sentivo non solo il corpo ma il mio stesso cervello di undici anni fa, vacillare come un uomo in bilico per la punta dei piedi sulla cornice più alta della torre di Pisa. Sognavo di prendere l’architetto per un braccio e di torcerglielo fino a fargli grattare la faccia contro il terreno, e a quel punto salirgli sul collo con un piede, e con l’altro prenderlo a calci nello stomaco riverso, fino a che per semplice rotazione indotta dalla furia del movimento i calci sarebbero saliti fino alla faccia, alla testa, e il braccio quasi si staccava dalla spalla per la violenza della torsione; immaginavo infinite varianti di questa scena (braccio sinistro, braccio destro, piede sul collo, sullo stomaco, sull’inguine, faccia che striscia contro l’asfalto, sott’acqua, contro un tronco d’albero, etc.) ma qualsiasi fosse la variante io tenevo immobilizzato l’architetto con un piede sul suo corpo e con l’altro gli sfondavo la testa: questo non cambiava mai. A volte mi immaginavo la scena in modo talmente vivido che come per un riflesso incontrollato facevo scattare la gamba nel vuoto. E sempre la sequenza dei calci era la stessa, prima lo stomaco poi la testa, con una elegante rotazione del piede contro il braccio o il collo dell’architetto; chiedevo all’architetto di parlare, di spiegarsi, ma prima che potesse spiccicare una sola parola io lo zittivo con un calcio, il primo allo stomaco e poi sempre più su verso la testa, gridandogli Eh, eh, che dici, che dici, non ho sentito, non ho sentito, ripeti, ripeti. Quando finivo, l’architetto ormai ridotto a un corpo con della poltiglia mista a cocci di cranio al posto della testa, quasi mi sentivo stanco come l’avessi fatto davvero, e scrollavo le spalle e saltellavo sul posto come un pugile alla fine o all’inizio del round.

 

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“—-egliato dal rumore della paglia masticata da una capra, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi h—-”

 

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A volte, specie quando sto per addormentarmi, è quasi come se di nuovo attraversassi questi quattro o undici anni o quelli che sono, durante i quali ogni cosa mi è parsa rivissuta, predigerita, e sentissi, di questi quattro anni, le cure e le preoccupazioni “esatte”, per così dire, cioè quelle “reali”; per un attimo mi figuro perfino l’affetto della famiglia che in realtà non ho, e quasi ne vedo i volti, ne sento le voci, i rimproveri, le liti, i minuscoli amuleti, quel che mi hanno detto l’altro ieri, ciò che provo per loro dopo lunga ed innamorata abitudine. Sono pensieri che, non so come, mi calmano e mi fanno bene, qualunque cosa ciò significhi.

 

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Del viaggiare in treno la sera e del piacere che prova a vedere le cose dal treno, finché quasi improvvisamente nel riflesso del finestrino vede il presidente. Una specie di beatitudine soffocante (stelle > luci delle case), e nel vedere il proprio riflesso trasparente gli sembrava di essere un fantasma che attraversa e osserva imparzialmente tutti i luoghi senza poter minimamente decidere del proprio percorso, poiché il percorso è stato stabilito all’inizio, nelle mani di angeli ciechi / in lacrime.

 

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Come se la mia carne venisse versata, e la mia pelle scivolasse attraverso masse di tessuti sovrapposti, una sensazione in cui l’orrore e il tormento non erano privi di una forma inumana di piacere che mi  faceva tremare e arrossire come quand’ero bambino. Avevo la sensazione di sudare sangue dalle ampolle degli occhi, come nei miracoli di paese, e quasi sorrisi pensando alle vecchiette che sarebbero andate in ginocchio per le vie alla vista della statua sanguinante che ero diventato. Sprofondai ancora di più tra le dita, titillando la manopola del cuore così come mi era stato detto. “Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!” Cercai di chiudere gli occhi, ma i due globi erano talmente gonfi che le palpebre non riuscivano a coprirli. C’era sempre una piccola porzione, uno spicchio, una falce esposta alla luce e all’aria, che le palpebre non riuscivano a coprire, per quanto le tendessi. Il dottor Mare stava gridando qualcosa. Non potevo chiudere gli occhi, eppure ero cieco. Quando finalmente la tenebra pulsante si dissolse, come se mi fossi districato da una tenda di carne – da piccolo mi divertivo ad arrotolarmi dentro le coperte, come in un bozzolo; se fossi stato capace di aspettare abbastanza a lungo, la lingua mi si sarebbe arrotolata a proboscide e sarei diventato una farfalla o un barsàla – ero seduto nello scompartimento di un treno in corsa, le tre dita tutt’ora infilate tra le costole, all’altezza del cuore.

 

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Riassunto delle puntate successive:

(M. non osa dire all’architetto quello che è successo dopo la prima volta che ha utilizzato il suo apparecchio.)

ARCHITETTO: “Lo dica. Avanti. Lo dica. Lo dica e basta, è tanto semplice. Una volta per tutte, lo dica.”

 

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Serpente degli abissi nascosto nelle rocce, nascosto dietro i quadri come una murena nei coralli. Quasi potevo sentire il sapore dell’acqua salsa in bocca, come un naufrago appena sputato dal mare.

 

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Si svegliò nello scompartimento di un treno in corsa, le tre dita ancora infilate tra le costole all’altezza del cuore.

 

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VALMARANA: Mi sono messo al servizio di Tomaš Brušek perché la prima volta che ci siamo parlati ha usato la parola “gezwungen”, cioè costretto. “Gezwungen” vuol dire costretto in tedesco, e questo mi è piaciuto, voglio dire che mi è piaciuto avere un padrone che si sentisse costretto. (Pausa.) Quando ho iniziato a studiare tedesco mi ero fatto l’idea che le lingue fossero tutte collegate tra loro attraverso rigide regole metamorfiche, e che per imparare una qualsiasi lingua fosse sufficiente impossessarsi delle regole corrette per trasformare la propria lingua in quella desiderata, per esempio (L’uomo mascherato scrive alla lavagna la breve esemplificazione di metamorfosi linguistica di Valmarana) se NO uguale NEIN, allora O uguale EIN, se SÌ uguale JA allora S uguale J e Ì uguale A, eccetera. In questo modo uno può imparare qualsiasi lingua in un batter d’occhio (Pausa. Osserva la lavagna. Conta sottovoce le lettere delle due parole) G – E – Z – W – U – N – G – E – N … C – O – S – T – R – E – T – T – O. G uguale C, E uguale O… No no no no GE uguale COS… No. RETTO uguale UNGEN… (Pausa. Fa dei calcoli mentali. Canta sottovoce) Figaro Figaro Figaro Figaro Figaro la la la la la la la la la la laaaaaaaaaaa… (Pausa.) Era ovvio che ci parlassimo in tedesco. Io non capisco un corno di cecoslovacco, e lui… a dire la verità il medico è lui, io… (Pausa.) Era costretto, era gezwungen, così mi ha detto, ad avere un aiutante per i suoi esperimenti, e così gli ho subito voluto bene. Perché era costretto ad avermi, sì, ecco perché. (Pausa.) Di solito sogno le torture. Cioè i condannati. Un assedio. Mai visto uno vero in vita mia. Prima non avevo mai avuto problemi ai denti. Ho ereditato da mio padre denti molto forti. Molto piccoli e molto forti, tutti lunghi uguali, allo stesso livello, come un cavallino. Mai una carie. E adesso invece sono tutti spaccati, un disastro, guarda che roba. (Pausa.) Potrebbe trattarsi di un esperimento. Brušek ne sarebbe capace. Lo so che lo sarebbe. Altrimenti non lavorerei con lui. Voglio un uomo deciso. È costretto ad avermi, gezwungen. (Pausa.) Anche se è proprio per questo che gli voglio bene, forse per lo stesso motivo lui non vuole bene a me. (Pausa.) Certo non so dire se mi dispiacerebbe essere una delle sue cavie, intendo dire che naturalmente lo considererei un onore, un grandissimo onore, tuttavia non so se da un punto di vista ontologico avere una cavia che a propria volta ha delle cavie non sarebbe… (Pausa.) Ma che dico mai, ontologia!… Però è un peccato, perché sul serio i miei denti erano molto forti, e invece adesso ho paura persino a masticare mollica di pane, perché i denti potrebbero incastrarsi tra loro, così, quelli sopra con quelli sotto, e sbriciolarsi ancora di più, e allora altro che cavallino, mi ritroverei con i denti come aghi a furia di sbriciolarsi. (Pausa.) La faccia invece è molto più simile a quella di mia madre. Me lo dicevano tutti. Io ci stavo male. Avrei preferito assomigliare a papà.

(continua…)

 

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Ma quello talmente piccolo da essere invisibile è il vero Giorgio Giorgio, quello fatto di carne senza ombra di vernice, e allora le cose tornano a posto.

 

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Nota storico/informativa sui “labirinti” A Porta Bianca (fine)

…data la puerilità degli APB chiamiamolo pure un compito in classe, più che una vera esercitazione (sempre che per dei carnefici possano esistere classi e compiti). I più se ne vanno prima ancora che inizi la tiritera, ma nonostante la banalità dell’inganno non è raro, ancora oggi, che qualcuno caschi nel tranello, per vanità o speranza o, che in questo caso è lo stesso, disperazione. Pare che a suo tempo Joffo con Un sacchetto di biglie avesse tentato di fornire una chiave ermetica per uscire dagli APB, ma oggigiorno gli ammiratori di Joffo si contano sulle dita. Così ancora oggi a molti capita di cadere nel “labirinto” A Porta Bianca per semplice ignoranza. È principalmente a questo tipo di vittima ignara che questa nota era diretta.

 

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“Chi è più quello che diceva che nessun topo saprebbe costruire una trappola per topi? Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”

 

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Da qualche tempo, devo anche prendere nota di ogni cosa (e quindi anche di tutto quello che dice Gianni Sherwood) su un piccolo taccuino nero. Tra i miei strumenti di lavoro, questo taccuino è l’unico ad avere un aspetto familiare, voglio dire che è l’unica cosa che potrei tenere in mano anche fuori dall’Istituto, senza avere un aspetto minaccioso o troppo scientifico. Dopo aver scritto il mio rapporto, devo salire subito dal direttore dell’Istituto per leggerglielo. Sulle scale, incontro sempre altri come me, tutti tali e quali con il loro taccuino, in attesa di leggere i loro resoconti di visite fatte ad altri pazienti. Riuniti lì, con i camici, i ferri e i taccuini, sembriamo degli strani burocrati, delle specie di funzionari della malattia, e la cosa non manca mai di farmi sorridere, e ammetto che, in fondo, mi piace salire quelle scale, e entrare nello studio del direttore. Mi fa venire in mente quando ero alle scuole, e giocavo alla guerra.

Questa dei taccuini è un’idea del nuovo direttore, entrato in carica all’istituto un anno fa: quello che era qui prima di lui, e che ora si è ritirato in campagna, aveva metodi diversi, e ci faceva usare solo i ferri. Il direttore di adesso non esce quasi mai dal suo studio e, come capita a volte in posti come questo, ha finito col sembrare, lui stesso, uno dei pazienti; non un paziente normale, certo: un paziente importante, un paziente di lusso, forse persino il re di tutti i pazienti… ma pur sempre un paziente.

(Rischio grattacapi, lo so bene, a parlare così del nuovo direttore, ma il fatto è che questa faccenda dei taccuini, per quanto mi diverta, mi è sempre sembrata strana, e so di non essere il solo a pensarla così. Discutendo tra noi, inservienti e infermieri, ci siamo fatti l’idea che il nuovo direttore, pur essendo certamente un buon diavolo, sia un tipo troppo originale per un lavoro come questo; e poi, sempre rinchiuso nel suo studio, si vede benissimo che il contatto fisico con i pazienti lo spaventa, e lo irrita. Il direttore che c’era prima se la riderebbe, e direbbe che i taccuini sono solo un trucco per tenere il naso lontano dalla battaglia.)

Di solito, quando è l’ora della visita, trovo Gianni Sherwood accoccolato sul pavimento, sotto la finestra che guarda il lago. Mi avvicino, gli prendo una mano e lo porto verso le seggiole e il tavolino; lui si lascia guidare docilmente, senza rivolgermi né uno sguardo né una parola. Non occorre nemmeno chiedergli di raccontare: dopo un po’ che siamo seduti attacca a borbottare, come se pensasse qualcosa tra sé e sé. All’inizio, in mezzo al brusio degli altri pazienti, non si capisce cosa stia dicendo; solo dopo un po’, alza leggermente la voce, e la storia comincia.

 

[continua l’11 febbraio]

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* Le immagini che illustrano questa puntata sono di Hannes Pasqualini.