Presiden arsitek/ 37

«Quando ci incontravamo, in cammino o seduti nelle nostre ragnatele, ci ammusavamo l’un l’altro, senza vederci veramente o toccarci veramente, e in quel silenzioso ammusamento da insetti era contenuta per intero la nostra felicità».

di in: Presiden arsitek

Congiungendo le mani, il medico domandò: “Dunque: questo dolore più o meno quando è cominciato?”

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(Ottavo estratto esemplificativo, in attesa di validazione come prova processuale presso il regio tribunale di Briwen, di una lezione di grammatica della sig.ra ***, docente emerita di Grammatica per Adolescenti presso il Pio istituto di S. Satiro per la Gioventù di padre Giorgio Giorgio):

Le parole sono il nostro specchio efficace ma non efficiente, sono quello che noi saremmo se non avessimo remore, la remora è ciò che separa l’efficacia dall’efficienza, soprattutto con gli specchi, Dorian Gray l’avete capito tutti no? Con le parole è la stessa cosa, le parole continuano sempre e sempre a marcire fino a diventare nel corso dei secoli una poltiglia, mentre noialtri rimaniamo freschi come rose, non importa quello che ci esce di bocca. Capite dove voglio arrivare? Io dico di sì, non venite a farmi i santerellini. O santerelline. Queste nuove classi miste fanno solo perdere tempo. Le orecchie, ecco dove volevo arrivare, che c’è, cos’è tutto questo cinema ridolini, è una cosa normale, le abbiamo tutti e/o tutte, eccole qui (gesto delle due mani ad enfatizzare morfologica- e, previa leggiadra e insieme spavalda oscillazione ventagliante, dinamica- mente la curva dei padiglioni) le nostre due orecchie, con timpano labirinto e il resto, ma non è l’anatomia che ci interessa, almeno non fino a questo punto, almeno non a questo livello che è bene ricordare non è che la prima friabilissima scorza di quel gran cipollone che per pura comodità didattica io e voi chiamiamo grammatica, ma in realtà non esiste una parola che racchiuda sul serio la scienza della parola, come non esiste una pupilla che veda se stessa, un piede che calpesti se stesso, ovverosia come dire una natica lava l’altra mi seguite?

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VALMARANA: Anche qui nel laboratorio abbiamo il nostro fotoromanzo, la nostra soap opera… (Raccoglie una scatola.) Questo è il clan della gru azzurra. Tutti morti. No, non intendo l’uccello, intendevo il macchinario. La gru. Era una gru azzurra vicino a un condominio. C’era un cantiere e una gru azzurra. Ad ogni movimento il motore della gru mandava uno strano suono, come una melodia, così: iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh… Io la sentivo tutte le mattine, a quei tempi non avevamo ancora un laboratorio tutto nostro e ognuno lavorava a casa propria. C’è un nome per questo ma non ricordo più qual è. Iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh, iiiiihhh… Mi piaceva. È un peccato non averla registrata, e sì che avevo fior di apparecchiature, ma è andata così. (Pausa.) E ad un certo punto un gatto aveva cominciato a rispondere al cigolio. Miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh… Intendevo dire un esemplare. Sì, un esemplare si è messo a miagolare. Credo fosse una lei. Anzi, ne sono sicuro. Ecco qua (Apre un taccuino e legge)

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Non il significato delle parole, non parlo di quello, non caviamoci le mutande prima del necessario, lo so che l’adolescenza ha i suoi uzzoli ma no, qui si impara anche la calma. E gesso. Non il significato, io parlo del modo in cui funzionano. Di nuovo, di nuovo e sempre il modo. Vi torna? Vedete come tutto ha un filo? Ma gli appunti li prendete? Sennò ogni volta siamo daccapo, sennò ogni santo giorno che ci svegliamo apriamo gli occhi e ZAC siamo di nuovo dei Neanderthal. Giusto: il marito della moda. Giusto, ben detto, ben trovata. Va bene va bene, una risata se è ogni tanto va bene, se la battuta è quella giusta, se è ogni tanto. Scioglie la mente.

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I fiori tremavano.

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Rapporto salvato “grazie a Dio” numero 2 (uno dei preferiti del nuovo direttore; il più significativo, dice; me lo legge quasi tutte le volte che vado lì, peggio del catechismo, venendomi sempre più vicino, gli occhi sempre più spalancati e significativi, e con tutte le volte che me l’ha letto non ci ho ancora capito niente):

«In quegli anni (era il lontano 200…) ero vinto dalla nausea. Non mi piaceva il paese, non mi piacevano gli uomini e le donne, non mi piaceva il lavoro, il secolo, niente. Vivevo in una città del nord con altre cinque persone, e proprio sotto la mia camera c’era l’ingresso di una pizzeria che si chiamava Rachele [“Rachele!” grida sempre a questo punto il nuovo direttore, che come un bambino ogni tanto ordina all’inserviente di turno di tirare fuori il “Fascicolo Sherwood” e di rileggere ancora una volta il rapporto numero 2, e manca solo che si pianti il pollice in bocca, e quando compare Rachele si mette a gridare e ad agitarsi tanto che viene voglia di legare al letto anche lui insieme a tutti gli altri, “Avete trovato una Rachele?” grida il nuovo direttore, e io ogni volta dico che no, non l’abbiamo trovata, ma non ci capisco niente, che Rachele vuoi mai andare a trovare se tanto è una pizzeria]; l’uomo che gestiva la pizzeria teneva sempre i capelli in una retina nera, e ogni giorno, con qualsiasi tempo, lo vedevo seduto ai tavolini, fuori. Maltrattava una cameriera che lavorava per lui, e per questo lo odiavo profondamente.»

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Il modo, sempre il modo. Il modo significa la misura. Le parole non la dicono, non dicono la propria misura o il modo in cui funzionano, servono altre parole e così via. Provate a immaginare cosa succederebbe se di colpo vi metteste tutti a funzionare esattamente per quello che siete, se tutto quello che siete cioè che potete essere diventasse reale in quest’istante. Questa è l’efficienza. Ci avete pensato o no? Almeno un pensiero riuscite a metterlo in fila? Dove si arriverebbe se la realtà non avesse confini, se tutto immediatamente si realizzasse? Allora? Nessuno? Ma se è dal primo giorno in questo istituto che non facciamo che ripeterlo… L’A––? po––? L’Apo––? Ca––? Possibile che non ci arriviate? Io ci rinuncio, con voi ci rinuncio. Apocalisse. Ecco cosa succederebbe. La realizzazione del mondo coincide con la fine. Per cui ogni volta che parliamo e vomitiamo tutte le nostre imprecisioni rimandiamo la fine del mondo impedendo il cammino alla realtà. Ma con voi sul serio, con voi a volte mi verrebbe da fare il voto del silenzio, e poi vediamo come vi trovate con tutte le cose che vi si realizzano intorno una dietro l’altra finché non avrete più nemmeno lo spazio per girare gli occhi.

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Ma, ora che provava a ripensarci, Guijdo non riusciva a stabilire il momento preciso in cui il dolore nelle viscere aveva avuto inizio. Dentro di sé, Guijdo pensò che il problema di ritrovare il momento in cui il dolore era nato fosse dovuto al fatto che la sua malattia era iniziata prima del dolore stesso, dietro la maschera del piacere, e che tutte le traversie che lo avevano occupato e la tensione per il raggiungimento di quel piacere lo avevano reso insensibile al germogliare del male, proprio come uno scalatore, in vista della vetta, continua ad avanzare senza risparmiarsi, senza nemmeno accorgersi che il naso, congelato dal freddo, gli si sta staccando dalla faccia. In parole più povere l’unica cosa certa, secondo Guijdo, era che il male nella pancia era legato al suo incontro con Clhaudhia; per cui alla fine, tagliando corto, Guijdo decise di rispondere con una data precisa che poi era la data in cui lui e Clhaudhia s’erano incontrati la prima volta.

[Nota dell’agente Della Rovere assegnato alla ricognizione del romanzo autobiografico Il male nella pancia ottenuto dall’indagato Luigij Decor dopo aver concesso alla fantasia artificiale DAEMONITA™ 2.11 di accedere ai dati narrativi e metanarrativi della propria Psyche®: La decrittazione sintattica del romanzo auto-mati/biografi-co di Decor ha isolato un parametro di corrispondenza alla realtà appena inferiore alla soglia minima (83%) perché detto romanzo potesse liberarsi del marchio di “romanzo” e aspirare ad essere pubblicato o perlomeno distribuito in forma di lettura aleatoria come autobiografia romanzata. Questo 82% di corrispondenza alla realtà può dunque essere interpretato in vari modi: 1. come un tentativo di Decor di occultamente additare alla forza dell’ordine detto romanzo, in modo da (…omissis…), il che potrebbe aprire un quadro di collaborazione tra Decor e detta nonché sottoscritta forza; 2. viceversa, come un segnale di riconoscimento per i Nerini – ovvero, giuste le del resto inverificabili ipotesi del collaboratore occasionale T–––š B––––k, per gli Arlecchini – che in questo modo (…omissis…); 3. come un banale ossia innocente errore di settaggio della fantasia automatica da parte di Decor; 4. come un deliberato capriccio.

Resta di primaria importanza la ricostruzione dell’identità reale del personaggio Clhaudhia, nonché dei fatti che riguardano il padre di Decor. Le ipotesi attualmente al vaglio comprendono una bambinaia cui Decor era stato affidato durante il primo conflitto austroamazzonico, un’amica di detta bambinaia, ex inserviente grammaticale e – non si dimentichi quel velenoso 82% – un uomo di nome Miloš M–––]

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«Dalla finestra del salotto si vedeva la piazza asfaltata e la grande chiesa. In cima al campanile c’era la statua di un santo, e quasi ogni notte sognavo di essere proprio sulla punta del campanile, ai piedi della statua; cercavo di scattare alcune fotografie al santo, prima di iniziare a sdrucciolare lungo le tegole del tetto, e svegliarmi precipitando. Le persone che vivevano con me non erano mai le stesse; erano sempre cinque, ma cambiavano nel corso del tempo, e alcune di loro probabilmente erano venute, avevano abitato per un po’ con me e poi se ne erano andate senza che io le avessi mai viste. Quasi mai si accorgevano che ero in casa, ma in realtà ero quasi sempre in casa, anzi, a volte ero persino con l’orecchio poggiato alla parete. “È in casa?” sentivo chiedere. “Non so, tiene sempre la porta chiusa”, rispondevano.»

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Non lo capite che è questo il prezzo dell’onestà assoluta? Che onestà assoluta significa realtà assoluta? Non per niente la verità appartiene soltanto a Dio, chiedete, chiedete pure in giro. Nemmeno il mio ex marito l’aveva capito ma non gliene faccio una colpa, al cuor non si comanda e poi lui poveraccio a volte prendeva e andava in deltaplano, aveva questa cosa del vento e del cielo, e dall’alto in deltaplano sembra sempre che alle cose non manchi nulla, sapete di che parlo no? E così alle cose non ci si pensa perché pensare è uguale a togliere realtà è uguale a mentire e più si amano meno le si pensa le si vorrebbe capito mangiare capito, ma è una trappola perché poi si finisce che non si pensa più a niente finché ad un certo punto per conto loro le cose cioè le mogli–– ma sto anticipando il discorso sui complementi. Tutta roba dell’anno prossimo, ma i prossimamente servono anche loro no? (schiocca le dita, accenna un movimento d’anca).

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Il medico lo aveva guardato un po’ di sbieco, ma Guijdo volle interpretare quell’occhiata come un tributo di ammirazione al suo senso pratico e alla sua memoria, al suo completo controllo sulla propria vita, un controllo tanto ferreo che alla domanda, “Quando ha avuto inizio il male?”, Guijdo potesse permettersi di rispondere, con piena buona fede e sicurezza di non sbagliare, “Il 29 di giugno dell’altr’anno, dottore” (e per la verità avrebbe persino potuto aggiungere l’ora e il luogo, e cioè le tre e quaranta del pomeriggio, quando Clhaudhia era entrata nel negozio di cappelli). Nel contempo, grazie alla solennità di una data certa, Guijdo riconosceva a sé stesso, una volta per tutte, il legame tra Clhaudhia e il proprio male, e fu insomma con gratitudine e persino con gioia che accolse la domanda del gastroenterologo: con questa aumentata presa di coscienza che era di tipo cronologico e insieme sentimentale, a Guijdo pareva di aver fatto un passo importante verso la guarigione, un passo che lui con le sole proprie forze forse non sarebbe mai stato capace di compiere.

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E dunque, direte voi? E dunque l’unica è prendere appunti, questa roba che vi sto dicendo non è scritta da nessuna parte, non in modo così completo almeno, e se anche fosse scritta ci vorrebbe qualcuno che vi spieghi il modo di leggerla esattamente come io vi sto spiegando come leggere il manuale di grammatica per adolescenti, e quindi stringi che ti stringi non se ne uscirebbe comunque perché se quello che vi sto dicendo fosse già scritto da qualche parte ecco che ZAC, ci vorrebbero subito altri appunti, forse persino ancora più appunti di quelli che dovete prendere ora, senza averla davanti a voi, scritta su un libro voglio dire. Chiamiamola se preferite una rapatronica d–– no guarda le rape ce le hai tu nella testa. Una rapatr–– ma da quanto tempo è che sono qua dentro? Non sembra anche a voi un’eternità? No. Cinque minuti. Cinque minuti che io e anche voi avremmo p–– C’entra, c’entra, la rapatronica c’entra, è così che il tempo può essere stiracchiato fin quasi all’infinito o finché uno non muore, che per noi è lo stesso di infinito anche se sarà già la millesima volta che vi dico che non sono io l’insegnante di r–– A furia di rapatronica uno potrebbe esaminare ogni istante di questi cinque minuti appena passati senza riuscire a uscirne vivo, come Ulisse no Achille che corre fino a morire prima del traguardo anche se il traguardo è lì davanti al suo naso, è una vecchia leggenda. Ecco gli appunti sono la stessa cosa: un fungo atomico di annotazioni che si espandono a cavolfiore intorno ad ogni singola parola scritta per catturarne tutti i modi in cui si può leggerla, è lì il tranello radioattivo, la reazione a catena semplicissima e inarrestabile: una è la parola ma infiniti sono gli occhi che la leggono, non solo perché tu e tu e tu e tu e tu là in fondo tira su le mani cosa stai facendo piantala di t–– cosa c’è da ridere e cosa stavo dicendo mariavergine attenti che me la fate venire sul serio in questo preciso momento tutta una rapatronica e poi vi voglio vedere vi voglio cosa stavo dicendo, sì sì tutti leggiamo con i nostri occhi diversi l’uno dall’altro ma aspetta un attimo: io cosa credete ogni tanto li rileggo i miei appunti, certo che prendo appunti, si capisce, cosa vuol dire chi me li detta me li detto io da me e poi quando li rileggo a distanza di tempo o non li capisco o mi viene in mente qualcosa di nuovo o un’altra cosa che non c’entra come quando mi hanno portato in elicottero dall’ospedale ma ve la racconto un’altra volta ma eccola qui la rapatronica io volevo solo leggere degli appunti ed eccomi su un elicottero con gli infermieri che gridano e quel tizio che non voleva mollarmi con le ginocchia che gli si incollavano ma era tutto per salie anche lui in elicottero e tutto questo solo leggendo la parola di un appunto rapatronico, ecco la magia dei libri è tutta qui, un esplosione atomica che si espande con la stessa velocità con cui cresce un albero ma con la stessa violenza radioattiva di un piccolo sole parassita che ti perfora le chiappe, appunti sopra appunti sopra appunti sopra appunti (gesto rotativo delle mani) è possibile morire di vecchiaia intrappolati tra l’inizio e la fine di una frase, l’ho visto succedere e vi insegnerò come si fa, ve lo prometto.

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VALMARANA: (leggendo dal taccuino) «La gatta tiene il corpo costantemente in asse con quello del macchinario, in modo da rivolgergli la testa o la vulva. In questo secondo caso si tratta senza dubbio di un segnale, perché la coda è tenuta sollevata e rigida e la vulva, a causa del leggero rigonfiamento del pelo tutto intorno, si evidenzia in modo accentuato. Tuttavia l’animale non tollera ancora un approccio diretto da parte dell’osservatore. È soltanto quando la fase cosiddetta estrale raggiunge il culmine, che l’esemplare invita l’osservatore umano alla copulazione assumendo la postura dell’accoppiamento. Con un leggero massaggio della vulva e una corretta applicazione della pomata, si può mantenere l’esemplare nella posizione dell’accoppiamento fino all’arresto di tutte le funzioni vitali» (Chiude il taccuino) Miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh, miiiiihhh… (suoni trifoni, eredità dei viaggi in Turchia al seguito del reparto scientifico della Legione Straniera). Non so più quanti esemplari se ne sono andati in questo modo. Dopo sono arrivati anche i maschi. Si capisce. Come mosche sullo zucchero. Ogni esemplare aveva la sua zona. C’era il primo, la femmina. Alfa. Poi gli altri. Bravo. Charlie. Delta. Eccetera. Tutte le femmine le chiamavamo Alfa, ad essere pignoli Alfa Uno, Alfa Due, eccetera, man mano che venivano bloccate nella posizione dell’accoppiamento ai piedi della gru. All’inizio gli operai facevano fatica ad avvicinarsi alla gru, con tutti quegli esemplari in posizione di accoppiamento, e anche dopo, quando sono arrivati i maschi, era ancora più spaventoso. No. Era ridicolo. Non saprei. Era ridicolo. Era spaventoso. (Pausa.) Era ridicolo. Se ne stavano appollaiati ai piedi della gru. Hanno qualcosa del volatile quando se ne stanno appollaiati, verrebbe come dire naturale vederli spiccare il volo aprendo delle specie di patagi pterofelini, se ci si concentra troppo su questo capita di non saperli più distinguere da dei rapaci, come quando per capire se una persona è matta la si mette di fronte a un gruppo di nani e bambini. Il matto non li sa distinguere, è un trucco vecchissimo.

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La prima volta che l’amante di Rosahs aveva parlato a Rosahs di Glaucho, Rosahs aveva provato un senso profondo di antipatia. Soprattutto l’avevano turbata certe parole dell’amante riguardo a “la schiena di Glaucho”, che sembrerebbe “tagliata nell’avorio africano”.

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Tema di italiano: svolg-i/-ete a scelta una tra le seguenti tracce. Consegna/-te il lavoro entro il suono della sirena, poi come sempre verr-ai/-ete giudicat-o/-a/-i/-e.

Traccia 1 – la parte tra parentesi è facoltativa:

Qualificativi e Determinativi: gli aggettivi specchio ed enigma della nostra Weltanschauung o a tu-/vostr-a scelta della nostra forma mentis (e di quella dei ratti?)

Traccia 2

Scriv-i/-ete una lettera alla tua società telefonica nella quale chied-i/-ete che il tu-/vostr-o contratto telefonico venga annullato seduta stante

Traccia 3 – la parte tra parentesi è opzionale:

Spostando il frigorifero per riorganizzare lo spazio della mia cucina ho scorticato parte del parquet. Spostando le assicelle rotte ho trovato, nascosto sotto di esse… continua/-te tu/voi ricordando di dare al tu-/vostr-o racconto una (o più di una) morale(/i).

Traccia 4

Immagina/-te di dover spiegare il complemento di causa e quello di fine ad un uditorio di adolescenti attraverso una lezione di storia in cui i fini e le cause di ciascun evento siano stati invertiti da un’entità a tu-/vostr-a scelta.

Traccia 5

Perché le persone amano storie piene di fatti orribili?

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Nel nervosismo dei suoi diciassett’anni, Rosahs aveva pensato ecco, ma che viene a fare ora questo Glaucho con la sua schiena d’avorio? che cosa vuole questo Glaucho dal mio amante? e perché il mio amante ne dice queste cose? E l’antipatia era cresciuta ancora quando infine s’erano incontrati di persona; quel giorno, Glaucho non aveva fatto che fischiettare e canticchiare, come astratto, come un pappagallo nero e deforme (così aveva pensato o forse detto sottovoce Rosahs con odio) soltanto talvolta rivolgendo battute d’intesa all’amante di Rosahs, battute che ogni volta Rosahs non capiva e che ogni volta Glaucho le spiegava con quel fare distaccato e, secondo le pareva, superiore, che la mandava in bestia. E più ancora la mandavano in bestia le risate dell’amante. Ecco, persino il proprio amante, con quel Glaucho, le pareva di vederlo ridere per la prima volta, come se con lei non avesse mai riso se non per finta, e allora l’antipatia per Glaucho era diventata radicato fastidio, anzi quasi antagonismo, quando Rosahs vide il proprio amante subire, con quel Glaucho e i suoi maledetti fischi, una trasformazione, una metamorfosi che le apparve mostruosa, come una farfalla carnivora uscita allora allora dalla seta. Disperata, Rosahs si chiedeva ecco, e se il mio amante si sentisse veramente felice solo quando è con Glaucho? E se fossi proprio io la causa della sua malinconia? Ma perché io non posso renderlo felice come quando ride e fischia con Glaucho?

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VALMARANA: A ripensarci, forse era più spaventoso che ridicolo, tutti quegli esemplari, silenziosi e immobili, come sacerdoti, e davanti a loro gli esemplari femmine agonizzanti nella posizione dell’accoppiamento. No. Era ridicolo. Era decisamente ridicolo. Poi gli operai si decidevano ad azionare la gru, e tutti i gatti iniziavano a cantare insieme al rumore del macchinario. Quando poi hanno finito i lavori e hanno smontato la gru per portarla via, i gatti non volevano scendere dal rimorchio. Pensavano fosse stata la gru, non avevano capito che era la pomata. Forse la cosa spaventosa era che nessuno dei maschi osava avvicinarsi alle femmine. Oppure era perché era mattino.

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Interrogazione. Parlami del Sanatorio Salvatore. Avanti. Come puoi non ricordarlo? Ma come puoi non ricordarlo. Il sanatorio Salvatore. Sto sempre aspettando. Il Sanatorio Salvatore. Mio Dio. Il sanatorio abbandonato e distrutto, i cui serramenti verdi sono ancora perfettamente conservati, niente? non ti torna in mente proprio niente? Ma sì, i (sottolineando certe parole come se dovessero per forza ricordare qualcosa e accompagnandole con gesti del tutto incoerenti) famosissimi serramenti verdi del Sanatorio Salvatore, perfettamente conservati a dispetto di un corpo centrale dell’edificio ormai irrimediabilmente compromesso. Ancora niente? Nessuno? Forza, non fatemi arrabbiare, lo sapete che non è una buona idea farmi arrabbiare––––––– Precisiamo. È una pessima idea, davvero pessima. E poi sono preoccupata per il mio cane Gutierrez, ha la congiuntivite e lo sapete che tutte le volte che Gutierrez ha la congiuntivite perdo completamente la voglia di scherzare, non so proprio più dove stia di casa la voglia di scherzare, ecco. Ve lo chiedo per favore. L’Istituto Salvatore. Infissi verdi. Buio totale, completo, assoluto. Povero Gutierrez. A volte piange sangue come una madonnina, pensate. Ha anche la sinusite. Anch’io ho la sinusite, cosa credete, delle cuffione di catarro fin qua. Mi sa che anche voi l’avete la sinusite, però la differenza è che a voi vi ha preso direttamente al cervello senza passare dalla prigione o da dov’è che era. Che altro. La valvola mitrale completamente a puttane, spruzza sangue dappertutto, uno schifo, devo avere la donna delle pulizie apposta, un tormento. Tre aborti spontanei dall’inizio dell’anno scolastico in corso. Tutto regolarmente verbalizzato. Uno è persino capitato durante un consiglio d’istituto. Capite bene perciò che non ho tutta questa voglia di scherzare, tantomeno quando si parla dell’Istituto Salvatore, poi. Tu. Dove si trova l’Istituto Salvatore, o meglio, dove è stato trovato, ovvero, dove è stato costruito, o meglio ancora come si chiama ovvero si chiamava la città in cui è stato costruito, vale a dire che voglio sapere il nome della città quando l’Istituto Salvatore è stato costruito e in seguito il nome di quella stessa città quando poi è stato trovato. Il nome di oggi. E questo è un bell’aiutino direi, a voi che piacciono tanto gli aiutini. Dillo. Dillo. Dillo. Tu. Dillo. Dillo. Dillo. Dillo dillo dillo dillo dillo dillo dillo.

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Solo molto più tardi, nel proprio letto d’ospedale, Guijdo avrebbe formulato l’idea che, al contrario, ciò che ha un inizio determinato spesso è anche ciò che mette radici più profonde, mentre solo le cose apparse come dal nulla, in modo cioè vago, lento e insensibile, come per esempio le nuvole o le galassie, altrettanto insensibilmente avranno poi la possibilità di svanire. Ma, anche allora, Guijdo avrebbe sbagliato, perché le età delle galassie possono contenere la vita e la morte di infiniti uomini, e così anche le età della malattia, la quale avanza e svanisce per cerchi molto lenti e molto ampi, e il più delle volte quasi del tutto incomprensibili. Dopotutto, chi può dire che il male di Guijdo non fosse iniziato ben prima del suo incontro con Clhaudhia? Chi può dire che Guijdo non fosse predestinato alla malattia fin dal giorno della sua nascita?

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Passavo moltissimo tempo davanti a un computer. A quei tempi, i computer sembravano grossi insetti: li si apriva in due, e si accendeva un enorme occhio luminoso e rettangolare, che conteneva le informazioni. La luce era molto difficile da sostenere, e io restavo a fissarla per così tanto tempo che alla fine il sangue era completamente affluito nelle ampolle degli occhi, e ogni cosa su cui posavo lo sguardo aveva preso un colore roseo, come se tutto il mondo fosse diventato di carne. Conobbi alcune persone. Andavamo, insieme o a turno, a cercare nei rifiuti, e ci scambiavamo l’un l’altro l’immondizia trovata. Poi creavamo delle ragnatele di immondizia che diventavano la nostra casa; le facevamo di immondizia, perché ciascuno potesse entrarne e uscirne liberamente, senza pericolo – vale a dire, senza pericolo per il padrone dell’immondizia. Nessuno mostrava il proprio volto, sebbene fossimo semplicemente lì a rovistare nella spazzatura; forse era proprio la vergogna di dedicare il nostro tempo a quest’operazione, a farci mascherare.

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Allora, va bene, la città si chiamava Varsavia, quando l’istituto Salvatore ci è stato costruito, ma quando poi l’hanno trovato la città aveva preso il nome che ha ancora oggi e che è? Che è?… L’attuale città di?… Di?… Capre. Pescivendoli. Perché studiamo allora, perché si studia? Ancora niente? Perché in altre scuole non si può studiare l’Istituto Salvatore? Perché al contrario voi avete avuto questo privilegio? Proprio non vi viene in mente nulla? Ma cosa ci sto a fare io allora, cosa ci state a fare voi ma scusate io la mattina ho cose molto più interessanti da fare, guardare la televisione per esempio o fare la spesa, giocare con Gutierrez o grattargli il culo o tutt’e due che tanto è così piccolo che qualsiasi cosa gli fai è tutt’uno con grattargli il culo, se invece decido ogni santa mattina di venire qui è perché spero di farvi entrare qualcosa in testa, è tutto per voi ma lo capite di cosa sto parlando? Allora? Chi si è curato presso quel pio istituto venendone espulso per aver imbrattato la sua cameretta con simboli satanici scritti con le proprie feci? Ma se è dall’anno scorso che ve ne parlo. Un aiutino. Si chiama cioè si chiamava Franz?… Franz?… Fraaanz?… Ka?… Kaaa?… Kaaa?… Uff. Franz Kafka, i riti satanici di Franz Kafka, ma vorrei sapere ma voi dov’è che siete quando la qui presente parla e suda a questa cattedra e s’ammazza di fatica per spiegarvi tutte queste cose? Parlo ai sassi? No dico, come potete pretendere di passare alla classe successiva senza avere la minima idea di Kafka e del suo famigerato cacateipsum e dei suoi buffi riti satanici che gli costarono l’espulsione dal Pio Istituto Salvatore in Fiamme? Certo, espulso, naturalmente non prima, e questo è il punto, il nocciolo di tutto il discorso, quello dove volevo andare a parare fin da subito se non mi fossi trovata davanti a delle capre, delle miserabili capre e dei risibili pescivendoli, espulso dicevo, espulso non prima, e per una volta tenetelo a mente, non prima però di aver conosciuto tra le mura di quello stesso Istituto nientemeno che Thomas Mann, già, e di aver conseguentemente visto o se preferite intravisto la sua…? La sua…? No ma almeno questo dovete ricordarlo. Niente di niente sul serio, nemmeno su Thomas Mann? Come? Come come? Sì, ma sì, ma esatto, va bene, solo che nel frattempo siamo già passati a un nuovo argomento cioè tornati all’argomento centrale però sì, una volta per tutte anche se sarà la centesima volta che lo ripeto sì, a parte qualche dettaglio teologico legato ad aspetti satanici che qui non ci interessano cacateipsum e catechismus sono sinonimi, almeno appunto per noi che non siamo laureati in teologia, almeno non mi risulta che tra voi ci sia qualche laureato in teologia, quindi per noi dire vado al catechismus o vado al cacateipsum è completamente uguale, provate e vedrete che vi capiscono uguale.

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Orbene. Chiusa la parentesi, aperte le virgolette. Kafka e Mann. Ma non vi ricordate il celebre aneddoto? Thomas Mann che scavalca il cancello per recuperare il pallone da rugby dopo che Kafka l’aveva calciato troppo forte? Già, chi l’avrebbe detto che quel ragazzo così gracile avesse la stoffa del punter, ma è stato un episodio isolato, non risulta che Kafka abbia mai più giocato a rugby, forse perché la vista del pallone da rugby risvegliava in lui il ricordo di quanto vide quando Thomas Mann si apprestò a scavalcare il cancello, roba da togliere l’entusiasmo per lo sport anche a un marcantonio grande come quattro Kafka messi insieme. Dunque, dato che non ricordate niente tanto per cambiare lo dico io. Mann scavalcò il c–– come? No signorino, non poteva farlo Kafka, ma ginnastica la fate o no? Un punter deve stare no attento attentissimo alla salute delle sue gambe, ne deve aver cura come del più raro diamante, e in ogni caso cura o non cura per il satanismo tedesco questo è stato un bene, perché se Kafka come ogni punter fuoriclasse non avesse costretto Mann col suo calcio così forte, una perfetta parabola che ha attraversato il cortile dell’Istituto Salvatore, un tiro la cui traiettoria è stata ricostruita sulla base del diario dei due satanisti e tracciata in quel che ancora oggi rimane del cortile dell’Istituto, tracciata sul terreno come dire come un’ombra quadridimensionale del tracciato del pallone da rugby calciato da Kafka quel giorno fatale, una sottile linea di alluminio stesa attraverso il prato con tanto di una targhetta che ancora ogg–– ma non divaghiamo, dicevamo che se grazie al suo tiro da fuori classe Kafka non avesse costretto Mann a scavalcare il cancello per andare a recuperare il pallone, allora non ne sarebbe seguito quel che ne sarebbe seguito, cioè seguì, con danno irreparabile ancorché del tutto invisibile per il satanismo tedesco, invisibile perché nessuno sa quello che avrebbe potuto succedere se non succede e nessuno lo dice, perché è chiaro nel momento in cui Mann sollevò la gamba sinistra per farla passare al di qua una volta recuperato il pallone da rugby, se quel cruciale istante non avesse avuto luogo e se Mann quel giorno non avesse indossato, non dimentichiamo questo dettaglio ma lo dovreste ricordare se non foste qui a fare i merluzzi, se Mann non avesse indossato, cosa che del resto faceva quasi sempre, se non avesse indossato un paio di jeans tagliati talmente corti da avere più l’aspetto di un paio di mutande, allora, se tutta questa serie di imponderabili circostanze non si fosse realizzata, Kafka non avrebbe potuto vedere che…? Che…? Kafka non avrebbe intravisto, intuito e al culmine dello scavalcamento del cancello accertato che…? Che…? Nessuna lampadina? Nessun remoto segnale di allarme? Mi viene il latte alle ginocchia, giuro, giù fino alle caviglie, ho le scarpe zuppe di latte, cìc ciàc. Ma ricapitolate un po’: cancello: pantaloncini vertiginosamente corti: rugby: satanismo: niente? E sù! Nel momento esatto in cui Mann era così a cavalcioni del cancello di ferro, Kafka vide che aveva…? Mann aveva…? Aveva la…? La…? Un lumicino, un barlume, un barbaglio, un com’è che dite voi non so un led?… Ma andiamo! Tra le gambe Mann aveva la…? Cosa vide quel giorno che Mann aveva? Niente, io no davvero io ci rinuncio. Che delusione. Ma se siamo anche andati in gita a vedere le due statue di bronzo che hanno installato a quello stesso cancello, la statua di Mann coi suoi jeans vertiginosi e le gambe spalancate per scavalcare e ai piedi di cancello quella di Kafka con Kafka che guarda in su tra le gambe di Mann e dài e vede la…? (Mima la posizione di Mann appoggiandosi alla cattedra e indicando il punto a suo tempo scrutato dal satanista praghese) La sua…? Oh, ma dài. La. “Caramellina”. Capito o no? Ecco cosa vide Kafka quel giorno. Proprio lì. La “zietta”. Come ve lo devo dire. La “barchetta di carta”. La “giapponesina”. Uffa. Cos’è devo farvi il disegnino? (scandendo una sillaba per volta come stesse recitando la nenia di un rito) Franz Kafka vide che Thomas Mann tra le sue gambe di rugbista in erba sfoggiava una vasta, scintillante, inconfondib–– oh sì, eccome, inutile che sfogliate i libri adesso, si studia a casa, non qui. Kafka fissò i suoi impareggiabili bulbi oculari tra le gambe allargate di Mann e realizzò che contro ogni pronostico purchefosse i pantaloncini irrazionalmente stringati di Mann lasciavano a chiunque vedere che lui, Mann, aveva la–– E insomma questo lo rese immortale. Kafka. Cioè. Immortali tutti e due. Ma voi non avete speranze, perdete ogni speranza o voi che––– o voi che niente, perdetela e basta, tra un po’ tanto la perdo anch’io.

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Guijdo Kordhi era nato nel 199….; sua madre, Lijna Rohsai, aveva un negozio di cappelli che dava sulla piazzetta di un piccolo comune della costa giavanese del lago di Waltzwaltz, mentre il padre, Elijio Kordhi, pilotava i battelli che durante l’estate portano i turisti da una parte all’altra del lago.

Come si divertiva Guijdo quando era bambino a guardare le grandi pale del battello Fortunal che sbattevano in acqua come due mulini, mentre suo padre per farlo ridere faceva suonare la sirena del battello proprio nelle orecchie dei turisti! E la madre dall’entrata del negozio di cappelli quando il marito suonava la sirena scuoteva il capo sorridendo, e rientrava al lavoro dondolando verso il cielo le mani giunte in preghiera, sorridendo dentro di sé, felice, fingendo di pregare il padreterno perché mandasse un po’ di giudizio nella testa matta del marito.

Guijdo seduto sul muricciolo del piccolo porto guardava il battello Fortunal farsi sempre più piccolo e lontano, e a volte si metteva per gioco a camminare lentamente, ondeggiando, mulinando le braccia e gridando, “TUUUUT!” come la sirena, immaginando di essere lui stesso il battello, con tutti i passeggeri a bordo e le pale che sbattevano in acqua. Poi, come ogni giorno, verso mezzogiorno si alzava un forte vento da sud, che correva libero per tutto il lago e finiva fischiando tra gli alberi delle barche ormeggiate nel piccolo porto; e gli alberi dondolavano. Nei giorni di tempo sereno, Guijdo poteva continuare per ore a fissare il battello del padre, sempre più piccolo e a volte confuso con le case dei paesi, ma sempre visibile, quando non lo si perdeva d’occhio, come una magica casa mobile che passa tra le vere case. Guijdo, appoggiato a un muretto, o seduto su una panchina, continuava a fissarlo fino a quando non era certo di non riuscire a vederlo più.

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Tutti avevamo una maschera; erano tutte maschere gaie, ma, essendo quasi tutte identiche, avevano un che di spettrale. Erano tutte maschere di colore giallo, e perfettamente rotonde, con disegni approssimativi di occhi e bocca, ora tristi, ora aggrottate, ma generalmente felici e divertite. Trovavo spaventoso vedere tutte quelle maschere che biascicavano insieme sorridendosi l’una con l’altra, ma ancora più spaventoso era il pensiero che dietro quelle maschere ci potessero essere (e dovevano esserci, infatti) volti umani. La notte, quando chiudevo gli occhi, vedevo tutti quei cerchi gialli sorridenti piovere su di me come fiocchi di neve o infiniti soli, per lasciare apparire i veri volti.

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E però nei successivi due anni Rosahs tollerò senza troppe difficoltà che l’amante s’incontrasse di quando in quando con Glaucho o perlomeno, con una sorta di abnegazione appassionata che la faceva sentire come una vecchia con tutte le rughe e i dolori degli anni e delle ossa, tenne celata all’amante la pena che quegli incontri le provocavano. Come per tacito patto tra i due innamorati, lei non partecipò mai a quegli appuntamenti; né l’amante parlava più con tanta frequenza, e tanto trasporto, dell’amico.

Il secondo incontro tra Glaucho e Rosahs avvenne durante il funerale dell’amante di Rosahs. I due s’erano scambiati uno sguardo desolato, e infine s’erano abbracciati, lungamente, lei piangendo, Glaucho compitando sottovoce il suo nome, Rosahs, Rosahs, Rosahs, come lo spettro di un maestro di scuola. E Rosahs, commossa e disperata, sentiva la vecchia antipatia sciogliersi, ma nello stesso tempo avrebbe voluto investire il giovane e urlare ma voi, voi due, vi abbracciavate anche voi così durante i vostri incontri? e tu ripetevi il suo nome così come fai con me, e lui il tuo? di cosa ti parlava, il mio povero amante? ti diceva mai quanto gli piacesse la curva della tua schiena? ti parlava mai dell’avorio? ti parlava mai dell’Africa? e di cosa ridevate?

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VALMARANA: Poi abbiamo iniziato a trovare gli esemplari morti. La nuca era sfondata da un morso. Era stato uno dei gatti, ma non siamo riusciti a capire chi fosse. Comunque sono tutti morti. Dopo un po’ ha iniziato a uccidere anche le femmine, ma nessuno è riuscito a capire quale fosse, se Bravo, o Charlie, o Delta o—

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Passò del tempo, e un martedì Guijdo, che ormai aveva diciassett’anni, dopo essere sceso dalla corriera che lo riportava a casa dopo la scuola trovò, contro ogni abitudine, la madre seduta sulla panchina ad attenderlo. Si avviarono muti giù per la stradina verso casa. Chiusa finalmente la porta nella penombra la donna, dopo aver girato lentamente un po’ qua e là e attorno al tavolo, appoggiandosi come se fosse disorientata o le girasse la testa, “Pensa un po’ quel cretino di tuo padre”, aveva detto, “oggi è scappato con un’altra donna… una che avrà forse vent’anni, ma si può, dico io? A cinquant’anni suonati…”, e gli aveva raccontato come quella mattina suo marito fosse uscito come sempre con il battello Fortunal, e come al ritorno il battello avesse un altro pilota. Erano stati gli altri colleghi che avevano dovuto spiegare la situazione all’ignara madre di Guijdo: come capita spesso in questi casi, già da tempo molti di loro sentivano che la cosa era nell’aria, e l’unica a non accorgersi del cambiamento nel cuore di Elijio Kordhi era stata proprio lei, sua moglie. Guijdo guardava la madre, che gli parlava del fatto con noncuranza forzata, nel tono di chi sta parlando dell’ennesimo colpo di testa di un ragazzo irrequieto ma di buon cuore, in fondo in fondo; “Non ha nemmeno avvisato…”, diceva la donna; “Se almeno avvisava… se me lo diceva… se ne parlava con calma… mah… è proprio matto… cinquant’anni suonati, ma dico… con una moglie e un figlio, e scappa con quella…”, e scuoteva la testa, facendo una smorfia come se in fondo fosse tutta una cosa da ridere; poi, congiunte le mani in atto di preghiera, le aveva dondolate in aria, verso il cielo, proprio come quando il padre di Guijdo faceva suonare la sirena in faccia ai turisti, con l’aria di chi finge di dire: “Oh, Signore, manda un po’ di giudizio nella testa matta di questo bambinone d’un marito!…”. Poi aveva affondato la faccia nelle mani, e, finalmente, erano venute le lacrime.

[Nota dell’agente Della Rovere: È naturalmente della massima importanza ricostruire quali siano stati in realtà i movimenti del padre reale di Decor prima della scomparsa, avvenuta com’è noto non tra le braccia di un’ignota ventenne ma sotto le lame minerali prodotte durante il più recente ultimo attentato “FIAT”; al momento si sta cercando di ripercorrere a ritroso il cammino di selezione delle variabili potenziali effettuato dalla DAEMONITA™ 2.11 di Decor, ma com’è noto una simile procedura ha dato risultati solo molto raramente e solo in casi in cui la fantasia automatica era stata, deliberatamente o meno non importa, manomessa dall’utente]

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E s’era inginocchiata a terra, man mano più placata nella frustrazione di non poter, né voler, più sapere se vi fosse stata o no tra i due uomini un’intesa, o un segreto.

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VALMARANA: (Allarga le braccia e sorride) Voi-là il nostro romanzo d’amore. Cosa ci vuole fare, signora, a volte nei laboratori le cose vanno così.

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Mentre abbracciava quel corpo vecchio e piegato in due, senza poter veramente stringere sul cuore la madre che continuava ad opporre tra sé e il figlio l’ostacolo delle braccia conserte a coprire il volto, Guijdo pensò che quella era forse la prima volta che sua madre piangeva davanti a lui: ed era anche la prima volta, da quando era uscito dall’infanzia, che si abbracciavano così, nel modo cioè in cui un uomo abbraccia una donna – sempre che quello potesse poi chiamarsi un abbraccio: in effetti, Guijdo stava solamente coprendo con le proprie braccia il corpo singhiozzante della propria madre, senza stringerla, come se avesse paura di farle male (gli sembrò infatti incredibilmente minuta e debole, e ne fu dolorosamente stupito), e d’altro canto lei non sembrava in grado, sul momento, di ricambiare la tenerezza. Guijdo pensò: “Forse in questo momento vede suo marito invece che me. Per questo non riesce ad abbracciarmi. Ho addosso il suo puzzo.” Né lui riusciva più a pensare le parole “mio padre”.

I due non ebbero più notizie da parte dell’uomo, fatta eccezione per una cartolina da Bologna che diceva, “sto bene vi voglio bene perdonatemi”, e per un assegno che arrivava mensilmente, sempre da Bologna, per cui la donna con cui Elijio Kordhi era fuggito divenne, “una di Bologna”, o, “quella di Bologna”. La madre di Guijdo non poteva pronunciare queste tre parole senza passarsi il dorso della mano sulla bocca, con forza, come per pulirsela.

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«Quando ci incontravamo, in cammino o seduti nelle nostre ragnatele, ci ammusavamo l’un l’altro, senza vederci veramente o toccarci veramente, e in quel silenzioso ammusamento da insetti era contenuta per intero la nostra felicità.»

Il direttore considera questo rapporto come la chiave per capire com’è che Gianni Sherwood è finito qui dentro. Non capisce perché il vecchio direttore non abbia tenuto un’ordinata documentazione delle cause del ricovero dei pazienti dell’istituto, anche se è il primo a riconoscere che una volta ricoverati l’unica cosa che conta è trovare il modo di farli uscire da qui.

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(Buio. Jingle e proiezione sul fondale di carte da gioco e immagini pornografiche d’epoca)

VOCE REGISTRATA DI VALMARANA: (Sfacciatamente sessuale) Amate? Certo che amate. Ma osservate con attenzione, guardate con estrema attenzione questo esemplare di Felis catus, posto di fronte alla sagoma di un suo simile disegnata in modo approssimativo su un muro: il suo comportamento è in tutto e per tutto conforme alle previsioni. Guardate come annusa prima il muso della sagoma e subito dopo il buco del culo: non è forse questo un comportamento simile a quello di voi innamorati? Da oggi con la pomata masturbativa Tristano la vostra fantasia non sarà mai più fiacca. Completa di astuccio in pelle e in tubetto salvaspazio, la pomata Tristano, fin dalla prima applicazione, amputa irrevocabilmente le terminazioni plastiche della corteccia cerebrale preposte all’eccitazione sessuale ossessiva sostituendole con filamenti pomatosi che nel 91% dei casi renderanno la vostra auto-masturbazione un’esperienza sessuale fino a dieci volte più intensa e interessante e appagante di qualsiasi altra abbiate mai provato. Con la pomata masturbativa Tristano gli acquirenti potranno sfogare liberamente e in perfetta privacy ogni sia pur minimo brivido sessuale e, finalmente purificati dal desiderio carnale, saranno liberi di dedicarsi con tutta l’anima alla ricerca dell’amore assoluto. Pomata Tristano. È un effetto collaterale della Pomata Cicatrizzante Brušek, presto sugli scaffali del vostro droghiere.

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Due donne, in mano le corone di fiori, guidavano la fila verso il cimitero sbirciandosi a vicenda e reprimendo risa isteriche. I fiori tremavano nelle loro mani.

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Tante cose si capiscono infine in un letto d’ospedale.

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…trovare il modo di farli uscire da qui.

[continua l’11 aprile]