L’ho scoperta pochi giorni fa, sul ripiano della cucina, proprio sotto la finestra. Era esposta al sole e all’umido della notte, dato che lascio sempre uno spiraglio aperto. Per questo era maturata più presto delle altre, là, in cima al piccolo mucchio. Era l’arancia più alta e più grossa, non so come mi fosse sfuggita. Eppure doveva esserne passato, di tempo, perché il colore bello arancione e polposo della metà inferiore si fosse sfilato così, in efflorescenze bianche da cui si staccava una calotta verdastra, spenta e bollosa. Mi ricordava una spuma, piuttosto che una muffa, con tutti quei pori che si accavallavano in ondine leggere.
Una strana stasi mi ha colpito. Un misterioso languore che mi impediva di afferrarla per fare pulito, subito. Eliminando quella intrusione di uno stato fuori posto dentro alla mia casa.
Di solito non lo tollero; rimuovo con efficacia tovaglioli usati, cibo avariato, tracce di sporco. Non per senso di ordine o di decoro, ma per le lezioni di igiene inculcatemi nell’infanzia da mia nonna, che viveva con me. Era passata attraverso la guerra come infermiera, in un ospedale di Roma, apprezzata per le sue qualità di serietà e di pulizia: “Voglio la toscana, mandatemi solo lei!”, dicevano i medici. Perché lei era precisa e affidabile, e imparava subito. Piaceva particolarmente a un professore che combatteva una sua personale lotta contro i germi e l’ignoranza. “Se solo queste donne lavassero i figli… l’acqua è dappertutto, a Roma, e non costa niente!”, sgridava le poverette con il bambino pieno di croste, emaciato e pallido. “Me li portano quando è troppo tardi, prevenzione bisogna fare, prevenzione!”. E faceva bollire a mia nonna tutti gli oggetti con cui lui veniva in contatto, e in particolare i soldi. Le faceva gettare le monete in un pentolone enorme e lì le sterilizzava bollendole per ore. “Sono la fonte maggiore di infezione, e nessuno ci pensa!”, diceva il professore.
Quando ero bambina mia nonna non bolliva le monete, ma mi portava per mano a lavare le mani. A lungo, col sapone fin sopra ai polsi, mi aveva insegnato. E ancora più accuratamente dopo aver avuto a che fare con i soldi. “Chissà chi li ha toccati prima, e magari era malato!”. Poi sterilizzava i fazzoletti usati, dopo averli lavati. Ore e ore di pentolone sul fuoco, coi fazzoletti che compivano strane traiettorie circolari, rimescolandosi insieme al bollore dell’acqua.
Un’infanzia così dedita al germicidio mi ha abituato a pulire bene e dappertutto.
Eppure l’arancia ammuffita non l’ho toccata.
Che è cosa ancora più strana, considerando che non era solo un cibo avariato e quindi non sano. Era anche cibo putrefatto; un organismo che è passato dal mondo dei vivi, delle sostanze che ci sostengono, che bruciano dentro di noi facendoci muovere, interagire, sviluppare cellule necessarie e tutto il resto, al regno immobile in cui le cose si trovano in una dimensione fredda, silenziosa, che ci nega nutrimento, ci blocca, ci fa deperire e infine sparire.
L’arancia ammuffita era la forma concreta di un processo di cui solitamente eliminavo non solo ogni traccia solida, ma anche le immagini; via dalla dalla mente il più in fretta e il più lontano possibile.
Un insetto morto schiacciato, un uccellino stecchito dal freddo. Un gatto scaraventato al lato della strada da una macchina troppo veloce, una lepre colpita da un cacciatore e non recuperata dal cane… tutte cose che resistevano pochi istanti nelle mie percezioni. Budella, sangue e materiale grigio strascicato sull’asfalto venivano sterilizzati come i germi di un fazzoletto, e i miei ricordi tornavano puliti.
Mi era capitato, in passato, di interrogarmi se fosse giusta, questa cancellazione. Se non fosse meglio essere forte e in grado di prendere questi cambiamenti di stato così come accadevano. Mi ero anche fatta forza per osservare le scene dei film in cui un corpo veniva trapassato da una pallottola, si schiantava giù da un ponte o bruciava in un rogo.
Ero riuscita, un pomeriggio di qualche estate prima, a soccorrere quattro bambine, investite sulle strisce, che esalavano vita e sangue dalla testa, e a restare loro vicina finché era arrivata l’ambulanza, e la notizia che ce la potevano fare.
Mi ero trovata a non distogliere più gli occhi dalla faccia dura e traslucida di chi se ne andava.
Ma ultimamente le cose erano cambiate. Non riuscivo più a impormi nessuna forza, dopo la malattia di mia madre. Dopo aver assistito alla trasformazione del suo corpo. Che ha perso un pezzo dopo l’altro, un centimetro di carne dopo un centimetro di pelle, dopo un centimetro di colore, dopo grida e lacrime e pinze che strappavano via fino a scoprire cioè che doveva restare nascosto. I misteri delle ossa, delle giunture, dei nervi, che via via venivano profanati, esposti alla vista e all’aria, e sbranavano la mente di chi li guardava. La cancrena, un passaggio dalla vita alla morte in uno scempio centellinato, una sevizie sull’organismo che più mi era vicino, la carne di cui potevo immaginare ogni sofferenza e ogni stato, li potevo sentire su di me.
“Mamma, coraggio, ci sono io”, e io non bastavo nemmeno a farmi percepire accanto a lei, in quell’uragano di dolore. Mi allontanavo chiudendo gli occhi, tappandomi le orecchie dietro i pugni, chiusa nella stanza dove meno mi arrivasse il senso di quello che accadeva.
Immagini allontanate. Isolate e arginate, separate dal resto, dalla mia vita che continuava, dopo. Erano rimaste lì, in un punto del cervello, da dove non potevano uscire da sole, e da dove le estraevo assai di rado.
Insieme a tutti gli animali cacciati, e i reportage del telegiornale, le foto sugli scenari di guerra, le vittime degli incidenti stradali. Immagini rimosse appena possibile da davanti alla mia coscienza vigile, e sigillate.
Fino all’arancia.
Putrefatta, con quella muffa spumeggiante sopra.
Sono rimasta immobile, davanti al suo mistero. Attratta e trascinata da lei in uno di quei momenti che incollano l’attenzione e i sentimenti su un qualcosa, e non mollano, finché non si sono conclusi.
Perché i fili luminosi della muffa si accendevano di un senso nuovo, che sentivo in modo confuso. Non stavo osservando il segno di un passaggio verso la morte, la vittoria della stasi sul movimento, del finito su ciò che è in corso, del brutto sul bello… La muffa era cosa estremamente viva, in movimento. Brulicante di esseri che stavano scomponendo l’arancia e la stavano liberando dalla sua forma attuale, dalla sua immagine, dal suo sapore e odore. Quelli in cui si era lentamente formata, e poi fissata per qualche settimana.
Una forma, colore, odore e consistenza che erano l’insieme di tanti processi di formazione. Tanti elementi e fattori immobilizzati in un risultato. Che in realtà comportava innovamento e cambiamento tutto il tempo. Stava crescendo e poi maturando, e poi iniziando a disfarsi ancora prima che questo fosse visibile, ovvio. Ma per un po’ aveva bloccato quegli elementi, quelle linee e quelle forze instabili in una forma, in un oggetto riconoscibile.
E ora si stavano liberando.
Avrebbero ricominciato a circolare. Particelle dell’arancio si sarebbero rimesse in giro, dalla muffa a spore nell’aria, e di nuovo a legarsi con chissà cosa, chissà dove.
Non l’ho toccato, questo oggetto che si stava disfacendo. Questi elementi che si liberavano nel viaggio verso nuove forme. Non li ho toccati perché sentivo formarsi un’associazione netta con le cose perdute di recente. L’affetto e la presenza, i gesti e la voce di mia madre, che non c’erano più. Nello spazio vuoto della loro assenza si era formata una pozza di sgomento. La perdita di amore e di senso era tutto quello che rimaneva, della tempesta che mi aveva colpito durante la sua malattia. Tutti i sentimenti, e la storia, i ricordi, le cose dette e fatte conservate gelosamente, i ricordi a milioni… tutto perso, vituperato, sbranato da questa onda di disfacimento. Dal vento distruttore che ci aveva separate per sempre. Aveva buttato all’aria le nostre costruzioni, i castelli di sentimenti e le cose convissute, belle e brutte, litigi e fraintendimenti compresi. Facevano parte di noi, e adesso non c’era più niente.
Ma ora l’arancia stava lì, a farsi fare a pezzi; a farsi smembrare e dissolvere dalla morte.
O forse dalla vita.
Questo piccolo, nuovo prisma di pensiero è stato come un cristallo attraverso il quale sono filtrate le mie idee, i sentimenti e le emozioni; fasci che si gettavano rapidi dentro, per uscirne trasformati. Luci diverse piovevano sulle idee di sempre. Sullo stesso oggetto, l’arancia ammuffita, che ora mi mostrava qualcosa di nuovo.
Con il suo stesso corpo, mi rivelava che quello che la stava facendo a pezzi era l’energia dell’universo. Ciò che ci unisce e smembra, continuamente. Ci mette insieme per un po’ e poi ci scioglie, ci disintegra, ci ricompone ancora e ancora.
Era una continuità di vita, quella che subiva. Un prevalere delle energie forti, immense, della natura, che fanno e disfano tutto e tutti. Portandoci a spasso per esperienze eterne.
In un viaggio che disperde l’io e ricolloca solo cellule, o meglio sostanze, particelle infinitesimali, fotoni.
Inimmaginabile, per me, la cavalcata nel tempo e nello spazio di intere personalità che rinascono e magari si ricordano, in particolari circostanze, di essere state famosi condottieri, o regine dell’Egitto. Quello che riuscivo a vedere era un’eternità materiale, forse energetica, magari formata da piccoli grumi di destino che viaggiano da una forma all’altra, come dicono alcune filosofie orientali.
Un grumo che resta dopo questa trasformazione che noi chiamiamo morte. Un grumo intorno al quale si addenserà un’altra consistenza di carne e carattere, personalità, determinazione genetica e reazioni dovute all’ambiente, storie personali, storie familiari… Motivo per cui occorre, secondo le filosofie orientali, lasciare un buon grumo, al momento del passaggio: per avere una buona vita dopo.
E però, anche in questo caso, non resti tu, non restano i tuoi affetti e i tuoi ricordi. Perdi ciò che ti ha tenuto in vita e che ha fatto te di te, per tanti anni.
Un’idea non troppo consolatoria, per me, quella della rinascita, anche se l’ho sempre trovata più naturale rispetto all’idea di un aldilà immobile, all’infinito; l’universo intero che continuamente si disfa e si ricompone e intanto, chissà dove, chissà come, le anime dei morti che restano per sempre ferme, eternamente uguali a se stesse.
Eppure, guardando la buccia di arancia ammuffita, qualcosa è cambiato. Qualcosa, nel dolore, si è pacificato. Una prospettiva è cambiata, si è spostata, ha raggiunto il lato opposto. Ricordandomi che nell’universo la morte non esiste. Perché quello che sembra finire un essere, in realtà lo sta liberando e rimettendo in circolo.
E quello che mi sembra morte è solo apparenza, il limite imposto dalla mia percezione di essere predisposto alla difesa. Geneticamente programmato per temere. Devo aggrapparmi alle mia vita e non posso desiderare altrimenti. Allora mi spavento e aborro e rifuggo la morte e ogni tipo di muffa.
Che però, in realtà, sono vita.
Cara Francesca: Quando ho cominciato a leggerlo non pensavo di poterlo finire visto che era abbastanza lungo. Ma ti confesso che l’ho semplicemente bevuto tutto d’un fiato. E’ stato bello,emozionante e educativo. Grazie d’averlo scritto. Un’affettuoso abbraccio.
Bellissimo…..è proprio così come lucidamente racconti. La trasformazione continua innescata dalla vita. L’Io si perde, è vero, ma in realtà ne viviamo di infiniti ogni volta che ci trasformiamo. Solo ci è impossibile ricordare i precedenti….