La prima volta che ho abitato in cielo

di in: Le prime volte

Fotografia di Francesca Andreini

Ero ospite, con i miei, di un amico che non c’era e che ci ha lasciato usare la sua casa lanciata a sessantaquattro piani da terra. Tutta curve, e aperta coi vetri sul panorama. Non voleva lasciare dubbi, l’architetto; voleva far percepire chiaramente a chi ci avrebbe abitato di essere proiettato oltre la norma, in un’esistenza che fa vedere tanto di più e da un punto di vista tanto inaspettato.

Guardando Chicago dal cielo.

Non in movimento come in aereo, sorvolando questo e quello, ma fermi sulla nostra posizione, come se noi fossimo l’asse portante del mondo e tutta la città, gli altri grattacieli, le strade e le persone invisibili, le auto piccolissime, i suoni, lo scintillare dei metalli e dei vetri, il lago di fianco e perfino le nuvole, non esistessero altro che per starci intorno.

Una sensazione leggera, da inebriare i sensi quasi come un vino e di cui, come un buon vino, vuoi avere ancora e ancora.

È una gioia, ogni volta, ritrovare il panorama, l’altitudine senza movimento, la sensazione scintillante di essere lassù, soli e unici. Una sensazione a cui si va incontro volentieri dopo una gita fuori, dopo le incombenze o gli svaghi della giornata. Quasi anticipando, rubando un po’ di tempo al “fuori” per tornare gaiamente lassù, nel nido a sessantaquattro piani da terra.

 

Fotografia di Francesca Andreini

Fotografia di Francesca Andreini

 

Sono con i miei in vacanza, abbiamo percorso un lunghissimo tragitto in auto per venire a vedere Chicago e ci siamo informati, abbiamo fatto una lista di cose da vedere e da fare. Eppure la sera arriva sempre più presto, per noi, ora che abbiamo questa casa in alto, sopra la città, dove tornare.

Quasi abbandoniamo la vacanza, il divertimento, per rientrare.

Il divertimento, la vacanza, sono quasi diventati stare quassù, a guardare sotto.

Ma anche a non guardare. A sentirsi semplicemente avvolgere dal cielo e dalla luce, come se il mondo intero avesse deciso di cullarci, e ci prendesse in braccio, fra le nuvole, in un posto luminoso e sicuro.

Come facevano gli antichi a immaginare un Paradiso perso nel cielo senza essere mai stati in un grattacielo?

Oppure noi moderni abbiamo costruito i grattacieli proprio per accedere in qualche modo a un piccolo Paradiso?

Fatto sta che in quel benessere da cui guardare le vie e il brulicare della vita lontano senza rumori, senza odori, senza affanni, ci era passata la voglia di scendere a esplorare, a conoscere, ad annusare e ascoltare.

Osservavamo il lago con l’acqua verdastra chiara o scura, ampia senza fine, come fosse un mare. E che, come un mare, aveva delle piccole spiagge di sabbia, ai bordi, dove la gente prendeva il sole o si tuffava, o si arrampicava milioni di volte sopra un windsurf. Le onde, piccole strisce bianche e pigre a lambire le rive.

Il cielo senza confini, sopra il mare/lago, accompagnava le nuvole a spasso, da una parte all’altra, striandole in baffi leggeri di vento, accumulandole in sacchi turgidi di umido, rosandole di alba, gettandole nel rosso del tramonto.

Il cielo si scolpiva in ogni finestra, riflettendo i suoi colori sui vetri dei grattacieli davanti al nostro. Giocava con migliaia di piani, divertendosi a scalarli, a brillare a intermittenza fra il cemento e il metallo.

E questo ci bastava, insieme a quei rivoli di piccole macchie semoventi che erano le automobili e che si muovevano veloci, distinguibili, in certi momenti, oppure si trascinavano lente e in una massa indistinta in altri. La sera erano come simboli di un flusso misterioso, un movimento di cui non potevamo che intuire una fase. Tutti che tornavano a casa chissà da dove, chissà dove. Oppure che andavano a divertirsi, a vedere un amico, a ritrovare un figlio….

Una fiumana di scopi e di intenti, di ricordi, di speranze. Ognuna disposta in fila con quattro lucine intorno, due rosse e due bianche. Ognuna concentrata su se stessa e unica, importante. Eppure, a vederla da lassù, così piccola da dover fare uno sforzo per credere davvero che esistesse. Che ci fosse proprio una coscienza fra quelle quattro lucine, e una mano che guidava, un piede che accelerava, una testa che pensava a dove voleva andare. Chissà se anche loro andavano a stare in un grattacielo, a guardare i loro compagni ancora laggiù, incolonnati nel buio verso casa.

Dopo pochi giorni non ci facevo nemmeno più un pensiero, a quelle coscienze nella fiumana delle auto. Guardavo i flussi del metallo semovente di giorno, i flussi di luci bianche e rosse la sera. E mi sembravano parte del paesaggio, come le rive e la spiaggia, come le nuvole, come il cielo. Dotate di un’esistenza a parte, autonoma e lontana.

 

“Andiamo in spiaggia, oggi? Che ne dite, ragazzi, vi va?”

 

Facce troppo pigre per rispondere, mani che si alzano a dire “no”, spalle che si stringono, occhi che si alzano al cielo.

 

“E al museo?”

 

Facce che si nascondono in finta distrazione.

 

“Ma qualcosa dobbiamo fare, non vorrete mica stare qui tutto il giorno!”

 

“Ma mamma, è così bello…”

 

Ma la mamma è una strega piena di malizia. Blandisce e minaccia, sprona, promette. E alla fine riesce sempre a dare a tutti un motivo o un pretesto per lasciare qual covo di benessere e avventurarsi fuori dell’appartamento, per i lunghi corridoi silenziosi. Luoghi coperti di moquette, con tutte le porte degli appartamenti in fila, come l’interno di un albergo dei nostri.

 

“Perché la gente qui vive in albergo?” Dice il piccolo.

 

E io gli ripeto che non sono alberghi; qui i condomini, grattacieli o meno, sono tutti così. Lui stringe le spalle e non mi crede.

Difficile, del resto, capire che qui la gente abita normalmente in questi spazi asettici, senza rumori, senza odori. Senza incrociare mai nessuno che va e che viene.

Forse anche per questo mi ricorda il Paradiso, per questa assenza di corporeità. Per questo cancellare le tracce di quello che invecchia, rumina, digerisce e espelle. Quello che si ammala, decade e muore. Qui tutto è glorioso e eterno, fatto di materiali inattaccabili e immutabili.

I grattacieli sono quello che ci fa dimenticare i nostri limiti, i nostri problemi, la nostra umanità…

 

Solo negli ascensori, ogni tanto, ci capita di dividere lo spazio con qualcuno. Ogni volta persone diverse. Spesso persone in arrivo o in partenza, perché di appartamenti ce ne sono a migliaia, e quindi c’è sempre qualcuno che viene o se ne va.

E poi nella grande hall al pian terreno, vicino all’entrata dei garage. Con i portieri giorno e notte che controllano chi entra e chi esce, danno una mano se si sta aspettando un pacco, o se si desidera un’informazione.

Davvero sembra di essere in un albergo, in questa hall, perché i portieri non danno l’impressione di conoscere veramente chi va e chi viene ma sono cortesi e distaccati come quelli che lavorano con le camere, invece che con gli appartamenti.

Li salutiamo, ringraziamo per segnalarci quando arriva la raccomandata che stiamo aspettando, raccogliamo le nostre cose e premiamo il pulsante per aprire la vetrata d’ingresso. Appena la porta si spalanca ci arriva l’odore di fuori, e il rumore, il vento sulle facce e i richiami del luna park vicino. Ci sorridiamo a vicenda, prendiamo per mano il piccolo e rientriamo nel mondo.