Persa

Sensazioni di un futuro che sapevo ci sarebbe stato, in qualche modo. Sapevo che, da ragazza, avrei cercato di nuovo questa possibilità di essere persa da qualche parte del mondo. Quando, con lo zaino in spalla, mi sarei lasciata andare a strade assolate e vuote, a paesaggi senza arrivo sicuro, a itinerari scelti dalle correnti del vento.

di in: Ribaltamenti

Nella mia prima giornata in campagna lo spazio mi era entrato dal naso dentro la testa, insieme agli odori. All’improvviso avevo scoperto questa possibilità di muovermi verso ogni direzione, seguendone il profumo. Correre sulle zolle, arrampicarsi sugli alberi, scivolare giù dalle cascate d’erba… stupori di una bambina cresciuta in città, con le limitazioni architettoniche anche nei momenti di gioco: le aiuole, i recinti, i marciapiedi, le strade intorno.

Appena arrivata sulle colline montagnose sopra Rufina, e subito sguinzagliata insieme ai miei cuginetti e il figlio di amici dei nostri genitori dentro alla natura, mi sono trovata come una molla compressa per anni: senza limiti di voglia e di energia. Correvamo in mezzo ai filari della vigna che si stendeva davanti al rudere che i nostri genitori avevano comprato e, da lì, dentro al bosco, ricco di rocce e torrenti. “Non fatevi male!” Era l’unica raccomandazione che ci facevano gli adulti, tutti presi dietro a improbabili tentativi di raccolta dei frutti, o a fumosi progetti di restauro. Genitori che in città scattavano nel rimbrotto per un po’ di sudore in più, o per una piccola caduta, qui deponevano le armi delle preoccupazioni e smettevano di combattere contro la nostra voglia di esagerare, stancarci, farci male. Tornavamo dagli scivoloni sull’erba macchiati e coi vestiti strappati, le mani graffiate, i visi sporchi. E i grandi sorridevano, sorridevano! E si mettevano a preparare da mangiare su un tavolo improvvisato con assi trovate lì vicino.

Genitori, zii e amici di famiglia galleggiavano in non so quale felice dimenticatoio. Cittadini tutti, da sempre, non avevano presenti i pericoli del posto, che noi scoprivamo da soli nelle nostre esplorazioni. Borri che si aprivano, improvvisi, nel sottobosco, labirinti di rovi, cinghiali che grugnivano nascosti nei cespugli e vipere che sgusciavano fuori dai muretti assolati ed erano troppo piccole e veloci per essere osservate.

Abituati a case solide e sicure nemmeno il casolare sfondato che avevano comprato destava loro troppe preoccupazioni. Fino al giorno in cui mia nonna sparì, inghiottita da un buco nel pavimento, non pensarono neppure a rimetterlo a posto. Ma quando la trovammo a mezzobusto, incastrata, con le gambe che annaspavano al piano di sotto – “Guarda, le mutande della nonna!!!” – e la parte al piano di sopra che urlava di paura, venne deciso di passare al più presto alla ristrutturazione. I nostri giochi aumentarono correndo sulle impalcature, saltando sui mucchi di sabbia dal secondo piano, tirando carrucole, salendo sul tetto. Sempre godendo di questa immunità campestre, che faceva perdere i nostri genitori chissà dietro a quali distrazioni.

Vedevamo, con la coda dell’occhio, le loro discussioni su come modificare la casa, chi doveva prendere quale parte. Gli appartamenti del primo progetto erano troppo piccoli, e gli amici di famiglia si ritirarono. Restarono gli zii, e poi solo gli zii che si occupavano più attentamente dei lavori; gli altri smisero di venire.

Finirono le raccolte fallimentari. Quelle di quando mia nonna che credeva di dover cogliere le olive come le ciliegie si era inerpicata su un albero ed era caduta su un mucchio di rovi. Una scena buffa, con lei in croce come la rondine di Pascoli, che gridava contro noi tutti: “Fatela finita!!!”, e noi tutti in preda a un attacco di risa che ci impediva di aiutarla.

Invece, dopo i lavori, gli adulti smisero di trafficare intorno agli alberi da frutto e alla vigna. Smisero di cercare qualcuno che volesse mantenerli. I contadini della zona si erano trasferiti in fabbrica, negli anni settanta, e quelli che erano rimasti erano rari e indaffarati dietro i campi loro. I nostri genitori si limitarono a venire su per mangiare tutti insieme e giocare a carte, nel pomeriggio.

Mia nonna nel frattempo era morta, i miei cugini ormai nel week end restavano a Firenze per uscire con gli amici, e io passeggiavo da sola, con la compagnia del cane dei vicini.

Se non fosse stato per le partite a carte, non credo che avrei potuto sparire così a lungo. Invece, durante il bridge degli uomini e la canasta delle donne, si creava un tale tessuto di tensione che velava gli occhi, le orecchie e la mente di tutti.

“Ma come fai a rispondere quadri??? Ma non l’hai visto cosa ho messo io?”.

E intanto una ragazzina di tredici anni se ne andava da sola verso i boschi.

Camminavo per un sentiero in salita e poi giù, in un borro, fino a dove scorreva un ruscello. Lo seguivo per un po’, con le calosce che sblosciavano nell’acqua bassa. Fra odori intensi da stordire, e rumori di animaletti che saltavano via, si acquattavano a guardare, o volavano fra i rami. La luce diminuiva, mentre salivo, via via che le foglie si infittivano.

Il percorso del ruscello si faceva impervio e dovevo aiutarmi con le mani, per salire. Poi formava delle cascatelle, e alla fine diventava troppo ripido per poterlo seguire. L’acqua pisciolava giù da una roccia enorme e io abbandonavo il suo letto, arrampicandomi di lato, fra felci e muschi.

Mi trovavo in mezzo a un sottobosco umido e profumato. Camminavo sempre più lontano dall’acqua, fra i tronchi degli alberi e il tappeto di foglie di castagno accumulate in varie stagioni, morbide al passo.

Avevo con me un grosso cane lupo, che apparteneva ad alcuni vicini e mi aspettava tutta la settimana. Quando, la domenica, la mia auto ancora non si vedeva e non si sentiva, lui, anzi lei, si agitava, e tirava sulla catena. La scioglievano e io, ancora lontana da casa, me la vedevo correre incontro.

Credo che mi avesse scelto perché avevo sempre sognato di avere un cane, e perché adoravo Rintintin. Perché non avevo paura di lei nemmeno quando si azzuffava con gli altri cani e mettevo fiduciosa le mani fra di loro, aprivo le sue mascelle serrate intorno a una gola, la trascinavo via. Perché insieme facevamo queste lunghe passeggiate e lei si divertiva a seguirmi.

Mi restava accanto, per un po’, e poi spariva fra le piante. La sentivo frusciare e poco dopo la perdevo di vista. Ma sapevo che bastava chiamarla una volta, forte, e lei mi sentiva. Iniziava a galoppare, di lontano, e sentivo il suo corpo grosso e buono farsi largo fra piante, rocce e foglie, per correre fino a me.

Sapevo che mi avrebbe difeso, in caso di pericolo, perché non lasciava avvicinare nessuno. Se incrociavamo un cacciatore, nella sua giacca verde, con la carabina a tracolla, Leila ringhiava e sollevava il pelo della schiena. “Tieni il cane!” gridava il cacciatore, e io la afferravo per il collare. Con lei accanto, non avevo di che temere.

Leila al mio fianco mi trasformava. La sua forza e il suo coraggio tranquillo mi attraversavano la pelle, e io diventavo l’eroina di una delle avventure che fino a quel momento avevo solo letto, o visto al cine.

Per questo mi spingevo molto lontano. Per questo, quella volta, mi sono spinta oltre il ruscello, e il solito bosco in salita. Ho preso dei sentieri tracciati dai cinghiali, abbassandomi fra i tronchi caduti. Ho schiacciato i rovi con un bastone, scavalcato cunette, dossi, e poi cime. Finché mi sono trovata di nuovo fra tronchi, e rovi, e rocce uguali ai primi.

Il bosco non aiuta; se non segui un sentiero preciso prima o poi ti trovi circondato da piante che ti ricordano altre piante. E i tronchi cavi sono tanti, sono tante le liane di edera che pendono dagli alberi morti, le rocce con il muschio sul lato a nord, le tane dei conigli. Tante, e tutte uguali.

E a un certo punto ho capito che non sapevo più dove ero, e non sapevo più come tornare a casa.

Il cane era lontano. Ero persa. Persa nel senso vero. E non sapevo cosa pensare. Come mi dovevo sentire? In pericolo? Sì, senz’altro. Avrei dovuto. Eppure.

Nel posto più lontano dalle sicurezze solite, dagli affetti e da tutto quello che mi garantiva la sopravvivenza e una vita sicura. Lontano da casa, genitori, cibo e calore. Lontano dalle medicine, la scuola, le leggi. Mi sarebbe potuto accadere qualsiasi cosa e io ero sola, non avevo che me stessa.

Questo pensiero mi avrebbe dovuto spaventare. Mi avrebbe dovuto terrorizzare l’idea di non avere niente. Ma in questo niente c’ero io, appunto. E io, per la prima volta, ero tutto. Tutta me stessa, persa in un bosco. Non suonava per niente male.

Avevo un ego che si scioglieva intorno. Si espandeva e si posava, si dilatava, inglobava tutto quello che vedeva. Gli alberi e il cielo fra i rami. I colori dell’estate nelle foglie sopra agli alberi, e quelli delle stagioni passate nelle foglie sotto i miei piedi. E gli animali che ronzavano e cinguettavano, si mandavano richiami fra i cespugli. Non li vedevo eppure li conoscevo, li sentivo come una parte di questa me che si era espansa su tutto.

Potevo non solo sentire, ma essere gli odori del bosco e le castagne ormai rinsecchite, i funghi nascosti ai piedi degli alberi, le ragnatele che scintillavano fra le foglie. Gli insetti laboriosi, i licheni appiccicati ai sassi, le scorze molli di un albero caduto.

Persa, senza parametri, senza restrizioni, senza strade battute e tracciate. Potevo essere tutto, potevo essere grande come il bosco, come le colline, come tutti gli Appennini, da lì fino alla valle.

E non avevo paura.

Pensavo a tutto quello che era rimasto lontano. A tutti quei momenti dove per sentirmi sicura dovevo fare in questo modo, e poi in quest’altro, mi dovevo comportare a seconda delle circostanze e non mi sarebbe accaduto niente.

Ma mi sentivo un po’ inadeguata, nelle circostanze solite. A scuola, dove pensavo di non dare mai abbastanza. Con i miei genitori, che mi amavano tanto da temere di lasciarmi vivere. Fra i miei coetanei, che avevano sempre qualche interesse del quale sapevo troppo poco.

Invece, da persa, me la godevo proprio. Ero io. Io e tutto. E non ero persa per niente.

Una sensazione, questa, che ne conteneva altre.

Sensazioni di un futuro che sapevo ci sarebbe stato, in qualche modo. Sapevo che, da ragazza, avrei cercato di nuovo questa possibilità di essere persa da qualche parte del mondo. Quando, con lo zaino in spalla, mi sarei lasciata andare a strade assolate e vuote, a paesaggi senza arrivo sicuro, a itinerari scelti dalle correnti del vento. E che mi sarei sentita sicura anche nella notte spagnola, con i gendarmi che davano la caccia a chi vagava senza meta come me. E nelle strade infuocate della Grecia, trasportata dal profumo della polvere su un motorino che non sapevo portare. In auto per le strade della Siria, dove i cartelli in arabo non mi indicavano la strada…

Perché persa voleva dire sola con questa me grandissima che si stendeva su tutte le cose, e una sensazione di contatto con una realtà benevola che mi lasciava stare su di lei, che mi accompagnava senza dolore e senza pericolo attraverso la mia avventura.

La luce iniziava a calare. Ho chiamato il cane, che è corso, ubbidiente, fino al mio fianco. “Torniamo a casa, Leila”. E ci siamo avviate. Un po’ guidavo io: verso valle, a logica, prima o poi avremmo trovato qualcosa. E un po’ lei: spostando la traiettoria un po’ più a destra, un po’ più a sinistra. Fino a ritrovare un sentiero battuto dalle persone, non dai cinghiali. E poi un pezzo di bosco che aveva un colore noto. E una strada sterrata, di quelle che avevo già fatto qualche volta. Poi la strada solita, e la casa, di lontano, con una lunga tavolata di persone sotto la loggia. E i miei, che giocavano a carte.

Sono rientrata nascondendo tutto, di quello che avevo fatto, come al solito. Ma con questo piccolo pezzo nuovo, dentro di me, che era perso, e libero per sempre.