Presiden arsitek/ 21

Il presente accumulo di personaggi situazioni e battute che qui si sciorina a mo’ di “nelle-puntate-precedenti” non tragga in inganno il lettore. Molte cose nella penna, zero cose sullo schermo: è uno dei motti Bapak Rolex...

di in: Presiden arsitek

[Trasmessa da un rione di Jakarta con popolazione prevalentemente cinese, la soap opera Presiden Arsitek arriva oggi alla ventunesima puntata. “Se srotolaste tutte le circonvoluzioni del vostro e nostro cervello, l’area occupata sarebbe di trenta volte superiore a quella della corteccia cerebrale così come appare nei libri di anatomia ovvero nella vostra e nostra scatola cranica.” Così il discusso produttore della serie, cresciuto nel sottobosco semilegale della megacittà con il nomignolo di Bapak Rolex (“Mister Rolex”) per il sacchetto di plastica trasparente pieno di Rolex falsi che portava con sé da bambino, prima che suo fratello venisse assassinato. L’immagine della corteccia srotolata vorrebbe, alla maniera squisitamente sconnessa e al cento per cento giavanese di Bapak Rolex, rendere ragione di un ordine di pensiero pre- e post- cataclismatico, interdiluviano diremo, ovvero persino interlucano, costantemente bilanciato tra ekpirosis e ekpirosis e perciò intimamente e puramente precario, come la vita sulle pendici di un vulcano attivo, e allora ecco che è come se l’idea una volta espressa rivelasse finalmente la propria natura di ombra proiettata sul lenzuolo di uno spettacolo del teatro wayang, luce filtrata attraverso sottilissime bambole di pelle rinsecchita, corpo di pergamena, esoteriche bambole in pelle umana–– abbiamo reso l’idea ovvero il suo spettro, l’idea dell’idea dell’idea dell’idea e così via e così via giù per le sabbie mobili della parola. L’immagine della corteccia dipanata e srotolata fuori dal teschio come una specie di tappeto fin lì tenuto ammassato in una scatola troppo piccola vuole dicevamo almeno nelle intenzioni del produttore rendere ragione delle numerosissime zone oscure della telenovela, oscure e destinate a restare tali (proprio come restano a noi per grazia di Dio oscure le più sottili e/o grossolane nostre funzioni cerebrali… tanto che quando ne riceviamo per introspezione o studio un bagliore ce ne ritraiamo orripilati, ma da cosa ti vuoi ritrarre? quello srotolarsi di meandri puzzolenti e in perpetua fermentazione sei tu); e allora ecco una caterva di oscurità, reticenze, contraddizioni, parole-opere-ed-omissioni che infastidirebbero e infastidiscono ogni qualsivoglia critico minimamente accorto incappi nella soap opera ma che poco importano agli abitanti dei villaggi in cui si sfalda costantemente la metropoli, periodicamente inghiottiti da canali in piena del Ciliwung, canali in cui c’è più detriti che acqua, fiumi di oggetti e spazzatura, allegorie come dire tornate allo stato selvatico e a tutti gli effetti reinquadernatesi sotto le lente e devastanti leggi della geografia pre- o persino a- (nessuno, si noti bene, sta dicendo dis-) umana. Le forme televisive vengono anzi tanto più apprezzate, da queste parti, quanto più si avvicinano alla panmorfità del fuoco o delle nuvole. Chi si rifiuterebbe mai di contemplare una fiamma o ancora meglio il cielo pomeridiano con la sua cavalleria di nuvole per il semplice motivo che non sa come vanno a finire o che si è perso l’inizio? Poste in questo modo, esigenze che si direbbero esteticamente basilari rivelano la propria volgarità e limitatezza. Come se la bellezza dovesse riguardare soltanto noi o peggio ancora soltanto me, ma ciò che ha un inizio e una fine non potrà mai essere pienamente bello. Questa, almeno, la squinternata teoria estetica di Bapak Rolex. Ossia la telenovela e le soap opera come altrettante espressioni del mondo naturale, indifferenti all’umano quanto lo sono le ossa e la carne che ci compongono, o i canali in piena del Ciliwung, traboccanti di ciarpame vecchio forse di secoli. “Esistere, semplicemente.” Voi-là. Ma del resto parliamo di un uomo che ha fatto la propria “fortuna” vendendo finti Rolex custoditi in un sacchetto di plastica e riparati usando il più delle volte un coltellaccio da contadini, manico di legno, lama larga come quella di una tozza mannaia ricurva, roba da sacrifici umani, altro che orologi. E quindi il vantaggio, chiamiamolo così, è che si può iniziare a guardare Presiden Arsitek in qualsiasi momento, senza sentirsi meno informati di chi la segue fin dalla prima puntata. E poi essere informati finisce prima o poi per equivalere a essere un canale lercio e soffocato da immondizia. Né ci si stupirà di sapere che il sogno di Bapak Rolex sarebbe quello di possedere e controllare un’intera rete televisiva esclusivamente dedicata alle disarticolate “vicende” di Presiden Arsitek (situazioni e personaggi irresponsabilmente simili ma privi tra loro di qualsiasi nesso, nomi capricciosamente deformati di puntata in puntata e talvolta persino di inquadratura in inquadratura, per non parlare dei molti casi in cui l’interpretazione di un singolo ruolo in una singola puntata è stata affidata ad un’intera équipe di attori, o viceversa ma questo è già meno inconsueto un esercito di ruoli a un solo attore, una cosa che in certi circoli critici particolarmente esoterici ovvero particolarmente toccati aveva a suo tempo suscitato anche un certo interesse, un retrogusto amarognolo di avant-garde, prima che Bapak Rolex rovinasse tutto accettando l’invito di uno di tali circoli a una delle loro serate ma queste sono vicende arcinote, e in ogni caso delle implicazioni teoriche e forse perfino teologiche derivanti dall’uso – beninteso deliberato e non dettato da incidenti nella catena di produzione – di un gruppo di attori per dare vita ad un solo personaggio, di tutto ciò forse maggiori ragguagli più avanti); una sorta di faraonica baraonda circense di situazioni sconnesse e accozzaglie di colori, uno di quei progetti talmente ambiziosi e irrealizzabili da trasformarsi in un’ipnotica berceuse, immagini da lanterna magica con cui Bapak Rolex prova ogni giorno a esorcizzare l’intimo terrore che prova ogni volta che si corica nel letto. Il dubbio che quella dei Faraoni sia solo una dinastia di vagabondi, e il cosiddetto Egitto con le piramidi tutta una fandonia messa su da quattro scribi ubriaconi. Questo insomma il sogno nel cassetto di Bapak Rolex: il canale televisivo Presiden Arsitek, cabloesondazione di immagini storie e pensieri, flusso che dalle pareti ortogonali degli schermi televisivi saprebbe far ritornare allo stato selvaggio chi…

Il disinteresse generale (salvo le momentanee infatuazioni dei circoli esoterici di cui sopra, che in fondo non sono che brevi modulazioni nel rumore grigio della noia, come quando da bambini fissando la statica del televisore cominciavamo a distinguervi figure e volti e voci e per catturarli finivamo per impiastricciare lo schermo con ditate di marmellata) di cui – letteralmente – gode la creatura di Bapak Rolex, le permette (alla creatura) un imbarocchimento strutturale e tematico assoluta- e spensierata- mente barbarico, contorcimenti, guizzi e capriole da giullare del primo impero austroamazzonico alternati a letargiche serie di puntate completamente prive dei riti magici, degli omicidi, delle astronavi, macchine del tempo, dei safari e crociere interepocali, spettacoli sadomasochisti e crudeli esperimenti scientifici che fanno da sfondo, contorno e farcitura agli intrecci sentimentali che dovrebbero essere lo scheletro di tutta la cosa come in ogni soap opera che si rispetti, ma che tutt’al più riescono ad apparire come quelle prime centinaia di cartilagini dondolanti nella minestra fetale che poi nel bambino formato diventeranno in effetti le ossa ma è Bapak Rolex che paga e quindi tant’è.]

“…passate attraverso un numero maggiore di macchine, tutto qui.

“L’estrazione orgasmica del cuore permette di eseguire una rimozione delle cosiddette cardiocervici accompagnata da una completa raschiatura della corteccia cerebrale (rumore grattante di un cucchiaino sporco di eroina lungo l’interno di un kepala muda… Ho detto kepala muda, no dico lo coglie il bisticcio tropicale? Hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi! ––– (NOTA: in bahasa Indonesia la parola kepala (“testa”) è molto simile a kelapa (“noce di cocco”), con tutte le facete freddure popolari che il lettore può facilmente immaginare e di cui gli facciamo perciò grazia) senza che con ciò venga meno la coscienza del soggetto, che in questo modo, nonostante le interferenze neurostatiche indotte dall’orgasmo, resta (la coscienza, e quindi sì, in effetti anche il soggetto, anche se potremmo discuterne) localizzata ovvero a- ovvero de- localizzata fino alla recisione dell’ultimo filamento (giusto per fare un esempio, ecco un classico: filo blu spalanca le palpebre, filo giallo paralizza l’umor vitreo donando un’espressione di terrore cieco, filo rosso l’occhio terrorizzato dal suo stesso bulboso e lacrimevole essere-occhio, filo verde la coscienza inchiodata come una farfalla alla pupilla, filo nero l’iride che sbatacchia frenetiche ali notturne, filo b––– ma l’importante poi è che i filamenti siano stati già da prima rimossi (è il vostro caso, già che siamo qui a parlarne) e sostituiti con altrettanti filamenti pomatosi, più adatti a operazioni del genere.”

La sera prima, la guida che il villaggio turistico aveva assegnato al gruppo di Kecilja aveva proposto un’escursione verso una spiaggia famosa per la bellezza dei suoi coralli. Kecilja aveva dato la propria adesione.

[Il presente accumulo di personaggi situazioni e battute che qui si sciorina a mo’ di “nelle-puntate-precedenti” non tragga in inganno il lettore. Molte cose nella penna, zero cose sullo schermo: è uno dei motti Bapak Rolex. E infatti quella di “oggi” (Presiden Arsitek va in onda dalle 23.11 alle 00.22) è in realtà una puntata letargica. A dispetto di noci di cocco, crani e coralli, qui non abbiamo che l’inquadratura fissa su un uomo seduto in una posizione del loto decisamente approssimativa sulla moquette grigiastra di un altrettanto approssimativo hotel (il panorama alla finestra ha l’aspetto di un poster ritagliato e appiccicato sui vetri, ma questa di appiccicare panorami ai vetri delle finestre potrebbe anche essere un’operazione svolta dal tipo seduto sulla moquette in una delle puntate precedenti o, perché no, successive e/o parallele – forse vi eravate persi il punto in cui Bapak Rolex raccontava che in un progetto altrettanto ambizioso e almeno per lui calmante di quello del canale-soap-opera aveva pensato di disseminare più puntate presso canali differenti, con personaggi simili ma non necessariamente identici, situazioni e storie collegate ma non necessariamente coerenti, il tutto anche a tradimento, concorrenti di quiz televisivi in onda su altri canali che nel mezzo della domanda da due milioni di… etc., l’uomo della strada intervistato per avere un’opinione sulla necessità di ripulire i canali del Ciliwung che rivelandosi uno dei personaggi di… etc., insomma avete capito – ma la cosa più probabile è che per questa puntata ad un certo punto fossero, per un qualsiasi motivo, mancati i soldi necessari e ci si fosse ridotti a una soluzione di fortuna –– l’abitudine di Bapak Rolex di affrontare i non rari momenti di magra chiamando con un megafono i passanti dalla finestra del suo ufficio e invitandoli a entrare in studio per recitare qualcosa, a sviluppare puntate che gli sceneggiatori, sempre per un qualsiasi motivo (soldi, ubriachezza, incidenti, altre soap opera meno cialtrone, morte naturale/accidentale/procurata, fate voi), non avevano scritto quanto piuttosto raggranellato, raffazzonando disperatamente qualsiasi cosa somigliasse anche lontanamente ad una parola capitasse loro sotto mano, carte di caramelle, giornali, volantini pubblicitari, crepe nel muro dalla vaga parvenza alfabetica, dava ad alcune puntate un gusto un po’ retro da object trouvé, come dire qui da Bapak Rolex non siamo mai scontenti, e anzi tanto più la discontinuità tra gli oggetti inquadrati era lampante, tanto più uno spettatore ovvero nella “teoria” estetica di Bapak Rolex un osservatore, distratto quanto si voglia – massimamente distratto, per la verità, nei desideri di Bapak Rolex –, finiva per carpirne un senso simbolico, ovvero per essere momentaneamente carpito in quel senso, come nell’araldica momentanea di certe immagini che ci piovono in testa nel dormiveglia.

Ma torniamo alla puntata di “oggi” e all’uomo accovacciato in un loto approssimativo nella camera di un albergo dai contorni incerti, uomo in cui potremmo forse riconoscere una rozza allegoria dello spettatore medio di Presiden Arsitek, gli occhi chiusi e il volto carezzato dai riflessi pastello delle immagini che scorrono quiete e inosservate su uno schermo (così sembra, almeno) sistemato da qualche parte davanti a lui. Percepire la luce a occhi chiusi, percepirne i raggi che sfiorano la pelle. Se foste bendati sentireste la differenza tra una camera illuminata e una che non lo è?]

“Non c’è nemmeno un uomo coi coglioni, qui?”

Era piccina e aveva i capelli tinti di nero. Un corpo minuto da maestra elementare con indosso un abitino dall’aria infantile, non fosse stato per il colore completamente nero nonché per l’essere fatto interamente di pelle, borchie e fibbie (più tardi a Loujs sembrò di ricordare, accanto al barlume tetro e inerte e pornografico del metallo, lo spettro bambolesco di una trina bianca, carezza di ragnatela sporca di polline), e per essere di almeno due taglie troppo piccolo, forse il vestitino di una nana da circo. Una nana che stava implorando il pubblico di ferirle le natiche con una pistola graffatrice.

[Si tratta dunque di una puntata “mentale”; non è una novità. L’uomo nella stanza, che a occhio e croce fa parte dell’équipe di attori incaricata di interpretare il protagonista, il turista waltzwaltziota M. Mano, adepto involontario di una sanguinaria setta di terroristi psichici (la sequenza di improbabili equivoci attraverso cui M. Mano si ritrova ad entrare nella setta – intere serie di parole d’ordine e dialoghi in codice imbroccati involontaria- e/o casuale- mente in un affastellarsi di circostanze ignobilmente inverosimili come verbigrazia la coincidenziale identità fonetica tra tutta una serqua di modi di dire austroamazzonici e altrettante frasi in codice indonesiane, come il modo di dire “Fuoco di legna verde”, pronunciato da M. Mano per motivi scenicamente alquanto come dire loschi (“Per l’amor del cielo, ti ho solo chiesto quanto costano queste mutande, non è esattamente come se ti avessi chiesto di spiegarmi il senso dell’antico detto di Waltzwaltz, “città” da cui mi pregio di provenire…” etc.), suonerebbe in indonesiano in modo identico alla settaria frase in codice “Tra tempio e tempio l’ombra del cane divora il cuore della piantagione di quei merdosi banani”, e va bene che sono due lingue diverse, ma già che quattro parole in una corrispondano a diciassette in un’altra–– ma torniamo a noi) M. Mano dunque, entrato nella setta grazie a una serie inopinata di scandalosamente inverosimili coincidenze linguistiche, si impadronisce lì per lì di una segreta e complessa tecnica di meditazione telepatica sviluppata in tempi preistorici in una delle più remote e minuscole isole dell’arcipelago indonesiano, meditazione che trasporta ogni adepto che la pratica in una realtà telepatica accessibile solo ad altri adepti che in quel momento stiano a loro volta meditando, in modo da scambiarsi informazioni segrete, condividere ricordi, emozioni, incubi, sfidarsi in complesse battaglie mentali e così via, e chissà che il poster appiccicato alle finestre della camera per dare l’illusione di un panorama non sia in effetti parte della sequenza rituale di accesso alla realtà ipnotica, per esempio potrebbe essere condizione essenziale per tutti i meditatori quella di trovarsi in ambienti il più possibile identici tra loro, o ––––– Comunque sia: quello che ha tutta l’aria di essere M. Mano si trova appunto in stato di meditazione telepatica, in comunicazione con il terrorista (indiscrezioni sulle puntate future ci autorizzano tuttavia ad anticipare che anche costui, come si scoprirà, è a propria volta un turista, stavolta un fuoriuscito schwarzschwarziota, anche lui per una parallela serie di coincidenze involontariamente cooptato in una società terroristica il cui linguaggio in codice sembra offrire un vero e proprio serraglio e colabrodo di arruolanti equivoci a chiunque scambi anche solo mezza parola con uno dei suoi agenti) Loujs D.; in condizioni “normali” qui il sinetron, come vanno in effetti chiamate le soap-opera indonesiane, virerebbe istantaneamente in un mondo psichico fatto di tute di gommapiuma, raggi laser che escono dagli occhi dei telepati, oscuri sciamani balinesi, anziane prostitute sacre gravide di rivelazioni sul futuro, mitologiche bestie wayang sullo sfondo, come accade in qualsiasi sezione psichica (presso che obbligatoria nei telefilm indonesiani, un po’ come è obbligatoria la scena lesbica in un film porno) di qualsiasi quanto si voglia pidocchioso sinetron giavanese. E l’amore, non dimentichiamo l’amore: quello c’è sempre. Ma Bapak Rolex doveva trovarsi in gravissime ristrettezze per la produzione di questa puntata, doveva aver persino scaricato le pile del megafono per precettare le comparse, perché l’immagine resta ferma sul volto di uno dei M. Mano (magari nient’altro che un passante tirato per un braccio e momentaneamente sequestrato da Bapak Rolex – magari chissà, un reale turista waltzwaltziota, tanto per sommare garbuglio a garbuglio –– i turisti in effetti vanno pazzi per queste cose, incidenti fuori dalle rotaie delle guide e degli itinerari “da non perdere”, per non parlare delle multiple erezioni di pollici rastrellate dal racconto di quella volta che si è stati presi a tradimento a fare la comparsa in un sinetron di Jakarta ––––– ah, quanto è estremo l’estremo oriente!…), e tutto quello che accade nella realtà telepatica parallela ci viene soltanto descritto da una voce femminile (un sottotitolo in stile telegiornalistico ci informa che la voce in questione appartiene a una non meglio identificata Truut (i dizionari indonesiani a nostra disposizione ci forniscono solo le voci turut e tutur)) il cui dozzinale riverbero ce la fa automaticamente riconoscere come interna alla testa del M. Mano di turno, con un effetto decisamente straniante che rende questa puntata un irritante ibrido tra una scadente videoinstallazione e un radiodramma notturno concepito per mescolarsi con le voci che a una certa ora cominciano a recitare le loro devozioni dentro la testa di spettatori insonni.]

“Nel culo costa cinque. Con venticinque mi sparate in una tetta.”

Quando gli venne vicino, lungo l’esterno coscia nudo e reso innaturalmente bianco dalla penombra e dal contrasto col nero dei capelli e del vestitino, Loujs notò la ragnatura corallina di sottili capillari rotti. Quasi quasi le sparo in una tetta. Si erano fatte avanti un paio di ragazze. La pistola graffatrice era gialla e nera, l’aspetto simile a un giocattolo che hanno gli oggetti da bricolage veramente pericolosi.

“Sparami in culo pezzo di troia.”

Tutti i fidanzati della zia Mahrie erano morti. Loujs ricordava il primo. Magro come una pipa, aveva una pompa di benzina e una faccia rigata dai geroglifici scaleni del sole e dei vapori di petrolio. Anni dopo la sua morte Loujs aveva visto il cadavere di un guerriero mummificato dalla torba di un paese del nord, e aveva gli stessi capelli rossastri e un volto che faceva venire in mente il mare, il deserto… Palude di sangue. Sul libro di biologia c’era la fotografia di un polmone umano sezionato, e intorno al delta di bronchi della trachea la malattia aveva diffuso una specie di spugnosa pietra bianca che aveva invaso quasi tutto il lobo superiore. Aria fossile. Ogni volta che vedeva quella fotografia Loujs si artigliava la mammella sinistra. Quasi mai si accorgeva di farlo.

“E tu guarda, mezza checca. Guarda. Guarda le chiappe.”

[Qualcosa è andato storto nel contatto tra i due adepti per caso, il turista e il terrorista forse anche lui turista: la comunicazione avviene a senso unico e con pesanti problemi di interferenza tra i livelli psichici di Loujs D…. Per farla breve, M. Mano e noi con lui ricev-e/-iamo il resoconto di una sua escursione in quello che sembra un’intempestiva parentesi sadomaso negli improbabili intrattenimenti notturni di una sagra di paese, il tutto raccontato dalla voce della Truut e farcito con interferenze emesse dall’inconscio di Loujs D. stesso a propria volta riportate da una atona e forse persino artificiale voce maschile (tutto questo spiegato in un nuovo sottotitolo che quasi si prende tutta l’inquadratura, per quel che ci sarebbe da vedere) – e il M. Mano raccogliticcio esprime la propria perplessità aprendo per un istante gli occhi, probabilmente perché Bapak Rolex o chi per lui gli sta dicendo di non aprire gli occhi e di limitarsi a ascoltare le indicazioni registiche, e infatti lui li richiude subito e insomma finalmente esprime come gli è stato ordinato perplessità scuotendo la testa e piegando la bocca come davanti a qualcosa di molto puzzolente. Qualcosa è andato storto: nella camera d’albergo parallela, quella in cui si trova Loujs D. – un uomo ripreso questa volta di spalle che, vestiti a parte, potrebbe benissimo essere la stessa persona che interpreta M. Mano – il poster con il panorama, quello da attaccare alla finestra per instaurare il contatto geotelepatico, è leggermente danneggiato: uno degli angolini alti, un frammento aranciato di tramonto o di alba poco sopra la canonica palma pende lasciando scoperta la tenebra della realtà dietro il vetro… L’unico movimento di camera di tutta la puntata è un lentissimo zoom sul triangolino di cielo nero liberato dal poster, uno zoom talmente lento che a confronto il finale di The Passenger –– ma torniamo a noi, allo sfarfallante angolino di carta che occupa una parte sempre più grande di schermo mentre la voce o meglio le voci, quella della Truut e la probabilmente robotica voce maschile, ora non sembrano più uscire dalla testa di M. Mano o Loujs D. ma dal nero stesso, dal cielo senza stelle dietro il/i poster… Grandi brividi oggi con Presiden Arsitek]

Mahrie aveva un identico disegno rosato sulla gamba, e un giradischi su cui continuava a far girare la sinfonia Pastorale di Beethoven. Alla fine la puntina aveva consumato il microsolco, cosicché ormai la sinfonia arrivava remota e come attraverso una mistica caligine, ma Mahrie diceva che era perché a furia di ascoltarla conosceva la sinfonia quasi a memoria, il giradischi l’aveva tolta dal disco e gliel’aveva incisa in testa, così diceva, perché come tutte le sorelle della madre di Loujs anche Mahrie superati i quarant’anni aveva cominciato ad impazzire. La sinfonia Corallo di Beethoven, diceva, è praticamente come se l’avessi scritta io. Sono basca! Gridava. A volte anche Loujs pensava di essere diventato musicista ovvero infine come quasi tutti quelli che decidono ovvero “decidono” di diventare qualcosa ovvero “qualcosa”, Loujs insomma era “diventato” “musicista”, anche lui sbriciolato nella folla di “persone” la cui esistenza era come un microsolco il cui suono era stato divorato dal dente invisibile di un giradischi fantasma e rivomitato poi nelle circonvoluzioni, solchi e scissure cerebrali di una gigantesca e averroide Zia Mahrie, una psiche nebulomorfa che al Loujs “reale” non aveva lasciato che una melodia irriconoscibile attraverso una caligine di cataratte apparenti, una caligine di grasso e di non conoscenza, ecco cos’erano quelle virgolette che circondavano quasi tutte o forse tutte le persone, o almeno di sicuro tutte quelle che conosceva ovvero ma non c’è nemmeno bisogno di “dirlo” “conosceva” Loujs, le virgolette sono la caligine che ci impedisce di esistere per davvero, sono la morbida cicatrice con cui la Nebulosa Vampiro di Zia Mahrie ci avvolge dopo aver risucchiato tutto ciò che di noi era, è e sarà la vera carne.

“Vi cago addosso.”

Il mattino dopo era scesa nella sabbia bruciata del piazzale, fuori dalle mura del villaggio, verso la gracile ombra verde scuro di alcune palme, ed era salita sul vecchio pullman bianco dove la guida e l’autista aspettavano. Dopo poco, il pullman aveva cominciato a riempirsi di arabi vestiti di bianco, come liberati o (qual è la differenza, dato che comunque non dipende da noi?) catturati dalle grida e dalle preghiere del vero e proprio paese.

Arabi in un pullman accecato dal sole come cicale bianche intorno a Kecilja. I geni intrappolati dentro vecchie lampade di latta devono essere simili a loro. Cicalare come fragili rottami in attesa che qualcuno sfreghi la lampada.

…diventato “musicista” per poter catturare anche lui la sinfonia Corallo, quello che era diventata la Pastorale nella memoria merlettata dalle morti e dai riflessi della palude di sangue. È così che vengono alla luce i veri capolavori, i capolavori immortali perché parassiti o meglio ancora virus: immortali perché non, strettamente parlando, vivi. Così pensava Loujs. Il trucco sta nel riprodurre così tante volte che la riproduzione diventerà metamorfosi, scavare e riscavare con la puntina del giradischi finché la Pastorale si muti in Corallo.

Kecilja aspettava i suoi amici o almeno qualcuno dei clienti del villaggio, ma nessuno oltre lei era uscito dalle mura. La sera prima aveva dato il proprio nome per prima, per essere sicura di poter vedere i coralli. Era certa che tutti i clienti del villaggio volessero vederli, e quasi temeva l’affollamento subacqueo, un accumulo di pinne, costumi, boccagli colorati che le avrebbe impedito di vedere coralli vasti e luminosi come nebulose stellari contro la tenebra del mar Rosso. Avrebbe dovuto farsi spazio in un mare talmente sovrappopolato di corpi che a malapena ci troveresti l’acqua, avrebbe dovuto fare a pizzicotti con le signore più combattive, come al buffet del villaggio, e infine si sarebbe trovata i coralli davanti come all’improvviso, sbucati da un volgare groviglio di gomiti, costole, natiche, troppo vicini per capirne la bellezza, puzzolenti forse di pesce, grondanti dell’acqua asciugatasi nella massa di corpi umani. Coralli ansimanti come vecchie tubature sgangherate.

Si mise a fischiettare, indecisa tra la tristezza e la paura. Fischiettava come un vecchio muratore, mentre gli arabi continuavano uno dopo l’altro a salire sul pullman mostrando di non notarla, quasi loro e Kecilja fossero parte di una qualche insipida fiabetta fantascientifica di universi paralleli, coesistenti, simultanei, reciprocamente ignoti.

Il volantino della punkformance <sic> sembrava, per colori e grafica, di quelli che stampano le rosticcerie cinesi con consegna a domicilio. La punkformance si annidava tra un palo della cuccagna (ancora ne facevano, ma già gli ultimi quarant’anni erano passati senza che in fondo venisse fatto niente, con giradischi sempre più complicati a risucchiare quel poco di carne che restava nelle varie Pastorali, talmente che gli ultimi giradischi non avevano più nemmeno bisogno di un disco e andavano direttamente a cavare musica dalle cose, risucchiando le ultime particelle di carne rimaste tra atomo e atomo) e un dj. Loujs pensò che tra breve arriverebbero i responsabili del “festival” per cacciare la nana vestita di cuoio. Frugò le tasche in cerca di spiccioli.

“Mi hai fatto il solletico. Che cazzo di uomo sei?”

Alle dieci, ora prevista per la partenza, Kecilja fu definitivamente certa che nessuno del villaggio sarebbe venuto. Gli arabi bianchi continuavano a cicalare. La guida e l’autista erano quasi sdraiati nella polvere bruciata del vecchio autobus bianco di latta incantata. Kecilja aveva paura ma non fischiava più.

Voleva vedere i coralli. Perché certe parole sembrano davvero battezzare le cose, mentre altre le nominano soltanto?

La gomma della pistola aveva una consistenza vagamente liquescente, non appiccicosa, artificiale ma nel complesso gradevole, veniva voglia di acquistare altri oggetti del genere e forse sull’abbrivio del vento punk dell’occasione a Loujs venne da pensare che i negozi di ferramenta e utensili erano delle specie di pornoshop sub rosa; poi, in una breve strambata nel cyber: “Nel futuro i robot sessuali avranno una pelle del genere, inumana e insieme profondamente pornografica; nulla è pornografico come una superficie metallica”. Ora che ce l’aveva “davanti” (ovvero il sedere di lei davanti alla faccia) non sembrava più molto piccola. Sua madre, Kecilja, ormai gli arrivava alla spalla. Poco prima di superare in altezza sua madre, quando cioè aveva tra i dodici e i quattordici anni, il padre di Loujs doveva aver avuto una relazione con la zia Mahrie. Suo padre ascoltava Mahler e la notte prima di coricarsi stava con la testa tra le mani come una spugna nel corallo. Forse era Mahrie la donna giusta per lui, ma quasi nessuno fa le cose giuste; le cose giuste succedono quasi tutte oltre la caligine che ci avvolge e che in qualche modo è il prodotto del loro congedo dal nostro mondo. La tenebra era attraversata da raggi arlecchineschi di luci stroboscopiche, e Loujs avvicinando la graffatrice alla natica destra della nana notò, con la precisione allucinatoria delle visioni fuggitive, alcune minuscole grinze sulla pelle di lei, e tenui linee di sangue nei punti in cui le ragazze prima di lui avevano premuto la pistola. Risalendo lungo le sottili linee parallele (movimento dello sguardo come la telecamera di un vecchio film del terrore) si arrivava alle graffette, sia la sua (di Loujs) che quelle delle ragazze imperfettamente infilate nella carne. Vedendo quelle zampette pendule aggrappate alla pelle della donna, anche a lui ora stava venendo voglia di piantarle per bene la graffetta in quelle natiche che (per un attimo, come ogni volta che scopriva un punto debole in una donna, a Loujs venne voglia di alzarsi e abbracciarla) avevano, si rese conto avvicinandosi ancora, un tenue odore di borotalco. Piantargliela per bene come un bravo impiegato o operaio… Un lavoro ben fatto… Le radici mollicce e indistruttibili della contemporanea crudeltà: il desiderio infantile di obbedire e fare le cose per bene… Dato che il bene da solo, di fatto, si è rivelato da tempo complicatissimo.

Voleva vedere i coralli perché coralli era il loro nome e non è possibile essere tanto vicini a qualcosa che si chiama corallo e non voler vederla a tutti i costi.

Altri arabi bianchi si stavano avvicinando al pullman, ma non salivano. Ormai erano le dieci e un quarto. Kecilja ricordò che il giorno prima, visitando un’oasi, l’autista era partito solo dopo che la guida gli aveva gridato qualcosa. Si alzò e si fece spazio tra gli arabi bianchi. Nessuno di loro la guardava. Non la vedevano. Kecilja ricordò il trucco di una vecchia spia russa impazzita che aveva letto in un romanzo-spazzatura: se guardi gli altri per primo senza che loro ti guardino, sarai invisibile. Arrivò fino a dove erano sdraiati la guida e l’autista superando la folla impalpabile degli arabi.

“Che cazzo di uomo sei”

Non era per niente piccola. Kecilja aveva conservato un bigliettino che Loujs aveva fatto per lei quando aveva cinque o sei anni, forse per la festa della mamma. Lei era completamente vestita di nero, enorme accanto a un bambino senza bocca né mani né piedi. Forse non aveva nemmeno il naso. Loujs ricordava oscuramente di aver passato un periodo dell’infanzia desiderando di essere una specie di serpente, una creatura la cui pelle e il cui corpo non fossero afflitti da alcuna imperfezione o asimmetria come rughe, buchi, zone grinzose e persino articolazioni. Come una principessa egiziana dentro il sarcofago. Sporgeva la mano dal finestrino dell’automobile nell’occulta speranza di spappolarsela contro le rocce che scendevano ripidissime verso il lago. Per un intero anno aveva tenuto nascosta sotto il materasso un catalogo per la vendita di libri per corrispondenza. Una delle illustrazioni pubblicizzava un libro del terrore. Uno dei personaggi, Loujs non ricorda se un uomo o una donna, si tagliava una mano con un colpo secco di mannaia. La mano mozzata sembrava attraversare lo spazio impossibile tra la superficie della pagina e la realtà per schiaffeggiare il lettore, flaccido ragno osseo, e per un anno Loujs aveva accarezzato (letteralmente, come si accarezza un animale, cercando cioè di carpirne il mistero, con l’intima certezza che il mistero di quegli occhi d’oro non verrà mai rivelato, non perché sacro ma perché molto semplicemente il mistero non c’è) aveva accarezzato l’idea di imitare quell’illustrazione e mozzarsi la mano. Difficilmente ci sarebbe riuscito con un colpo solo, ma a quei tempi gli era sembrata la cosa più semplice del mondo, anzi gli sembrava quasi che sarebbe stato sufficiente appena impugnare una mannaia perché il desiderio si facesse incontrollabile.

“Jalla! Jalla!”

Al grido della vecchia donna, tutti gli arabi bianchi sciamarono via dal pullman. Kecilja li sentiva frusciare contro la schiena come una maledizione che schiuma via dalla nostra casa. La guida si strappò come da una ragnatela di hashish e diede un calcio alla porta del pullman di latta per chiuderla. L’autista mise in moto, un rumore come di carica di un vecchio giocattolo a molla. Trrric trrric trrric.

Adesso l’unico passeggero del pullman era la donna. Andavano nel deserto.

Erano già passati davanti alla spiaggia il giorno prima, ma venivano dall’oasi e Kecilja non ricordava se la strada fosse la stessa, non ricordava tutto quel deserto e nessuno era uscito dal villaggio per venire con lei.

“My friends… Beach…”

“Ok. Ok.”

Adesso, senza gli arabi bianchi, la latta del pullman tremava contro la sabbia sollevata dal deserto con un suono come di arpa scassata.

Alla fine la donna gli si sedette sulle ginocchia e gli infilò in bocca una lingua costellata di piercing, come un alieno anellide robotico che gli si agitava contro il palato e gli batteva sui denti, e un allarmante sapore metallico che gli ricordava la città quando sta per scoppiare un temporale… ed è poi in quel momento che si spalancano definitivamente i portali, in qualsiasi città sfrontatamente pacchiani, della primavera.

La spiaggia era ancora lì. Appena spento il motore, la guida e l’autista tornarono a sdraiarsi con una mossa disossata e quasi liquida.

 [Nel frattempo, giusto per avere ancora un’idea delle “teorie” estetiche di Bapak Rolex, una pagina strappata con non pochi rischi dal suo taccuino: “Poniamo anche il più semplice dei casi, quello cioè di un uomo che cavalca in un deserto qualsiasi, purché americano, diciamo un deserto notturno su cui pende una luna piena. Voi-là. Il cavaliere, che dall’alto non appare poi molto diverso da una falena che striscia sbrindellandosi contro una pietra, dominato dalla stessa ostinata lentezza priva ovvero e questo è già il punto apparentemente priva di alcunché di umano, il cavaliere si sta dirigendo verso il luogo in cui si coronerà finalmente una lunga, contorta, lentissima vendetta ovvero, che stringi stringi in fondo è un po’ la stessa cosa se si tiene conto della distanza da coprire e della notte sempre giovane, un amore. Galoppa galoppa, accompagnato da una lentissima sarabanda del più rarefatto barocco francese verso una vendetta o un amore che nella lentezza e nella distanza, sia nello spazio che nel tempo, nell’arabesco e nella contorsione, sia nello spazio che nel tempo, gli si rivela sempre più come qualcosa di obliabile ma nello stesso tempo (e anzi forse proprio perché obliabile) consustanziale quanto un osso o un organo interno. Buffo quanto poco uno pensi alle proprie ossa, tenuto conto di come sarebbe essere senza ossa o con le ossa tutte fratturate. E anche il cavaliere dimentica a volte la sua vendetta così come talvolta ci capita di dimenticare la persona amata, smascherando per un momento il vuoto che sbriciola le sue ali di falena dietro le cupole dei nostri occhi, o almeno di quelli del cavaliere. È uguale. Sarà ancora frequente, oggigiorno, imbattersi in cavalieri? È mai stato veramente frequente? Esistono ancora esistenze scusate il bisticcio esistono esistenze realmente votate all’amore e/o alla vendetta? O forse la condizione di ultracatarsi in cui ci getta l’industria dell’intrattenimento ci sta lentamente privando di umori tridimensionali riducendoci come tanti Chisciotte in preda a una specie di zapping tra follia e follia? Se tutti sono Chisciotte come si fa per essere matti? Fiaccando dicevo ogni cavalcatura, prosciugando ogni cervello in modo da privarlo anche dell’ultima gloria, quella del martire psichico. Ma forse l’uomo è dovuto salire su un cavallo perché il luogo del/-la sua/-o vendetta/amore non è altrimenti raggiungibile. Ed ecco tutta una serie di nuovi dubbi. Sarà possibile cavalcare di notte nel deserto? Posto anche che la luna piena lo illumini da dovere –– ma allora la terra sembrerà uno specchio della luna, come l’amore lo è della vendetta? –– tutti abbiamo sentito parlare di quanto possa essere gelida la notte nel deserto. Un cavallo e un cavaliere possono attraversare un deserto notturno? Ad un certo punto una massa scura sul terreno che sulle prime poteva sembrare un cespuglio o un sasso o persino un buco ha uno scatto carnoso e la luna illumina due brevi stelle feroci e una specie di petalo carnivoro si attacca alla zampa posteriore del cavallo… Un coyote? Appollaiato lontano, un uccello notturno spalanca gli occhi. Ecco. Un buon sinetron non ha bisogno d’altro.]

“My friends… With peace… with peace: I am old…”

“Ok. Ok. Go. Go.”

“Go? With peace… with–”

“Yes, yes. You go. We wait. Go. The sea. You go.”

“No, no. With you! We go!”

With youuuuuuu… sentendosi improvvisamente vecchissima, intrappolata in una carne che solo la visione dei coralli avrebbe finalmente potuto salvare.

Camminavano verso l’acqua, Kecilja con in mano solo un asciugamano, la guida con una sacca di tela marrone bruciata dalla sabbia. Da uno strappo sbucava il gambo nero e arancione di un boccaglio e si indovinava il lucore maligno della maschera subacquea, ed era come se la guida avesse arrotolato nella sacca un qualche spirito, un gigantesco djinn acquatico che poi avrebbe liberato sul bagnasciuga per trascinare tutta l’Arabia in fondo all’oceano.

Le aveva piantato le due ultime graffette (era stato quasi superfluo il lampo morbido negli occhi di lei quando le aveva appoggiato la pistola all’attaccatura superiore, come una goccia di lavandino notturna) a altezze leggermente differenti, per darle l’aspetto di una bambola rattoppata. Il sangue le colava a lato da una parte, scendeva intorno al capezzolo dall’altra, e aveva lasciato sulla camicia di Loujs la veronica di un fiore morente.

Si liberarono dei vestiti e entrarono in acqua. La guida indossava delle pinne. Dato che le mani di Kecilja tremavano, la guida le spostò con cura i capelli dalla fronte, poi le mise la maschera. Kecilja aprì la bocca e si sistemò il boccaglio tra i denti. La guida le prese una mano e la trascinò nuotando verso il largo.

“…ma in fin dei conti l’importante era ovvero sarà ovvero è scoparti e farti a pezzi, cioè non fraintendermi, parlo del gusto e se vogliamo perfino della grazia della scena, quanto al profresso volevo dire progresso scientifico, be’, una vittima vale l’altra, no? e nessuna, con rispetto parlando e come dire vittime presenti escluse, nessuna ha valore in senso assoluto, ma scoparti sì che ha valore, farti a pezzi sì che ha valore, dico bene? Ma ripeto per lo scienziato è la serie a dare la certezza, ovvero l’illusione della certezza, e la serie significa sempre una serie di morti, o in ogni caso una serie di fatti senza vita che è come dire del tutto prevedibili, prevedibile o morto è uguale, mi segui? No, non piangere, non–– Poi lo scienziato può anche scoparti e strapparti il cuore durante ovvero tramite l’orgasmo, per esempio, ma non ti ho nemmeno chiesto se posso darti del tu. Dicevo più la serie è perfetta, priva di privazioni cioè priva di variazioni, più la certezza… Ecco perché nessuno, presenti esclusi possiamo dire anzi ripetere, nessuno ha valore in senso assoluto: anche perché qui non esiste nessun senso assoluto, senza contare poi che qui vogliamo andare al di là dell’uomo nonché perché no un domani anche della donna, per cui in effetti per noi queste scoperte non hanno valore, anzi, sono altrettanti passi che ci avvicinano all’estinzione, e allora scoparti e farti a pezzi è se possibile ancora più gustoso che se tu fossi uno scienziato o meglio un assistente, forse aiutante è la parola giusta, insomma se tu fossi un uomo diciamo così normale. Scoparti per la scoperta, scusa il bisticcio, ma hai capito?”

Pinnando la guida a volte stringeva un po’ più forte la mano di Kecilja, poi le indicava nuove creature che tremolavano sotto di loro come coriandoli di una città fantasma.

“Bene. Raccogliete tutto e buttate via. Com’era l’audio?”

“Ho passato mezz’ora in paradiso”, raccontò la sera Kecilja al telefono, al marito e al figlio lontani.

Non ti ho nemmeno chiesto se potevo darti del tu.

Ho passato mezz’ora in

[continua l’11 novembre]