Le fate tragiche di Robert Walser

di in: Con Robert Walser

Tutti cadiamo. Questa mano cade.

Guardati intorno e tutto intorno cade.1

“Ci vogliono proprio le umiliazioni per sollevarmi alla pura gioia di Dio?”, si chiede il giovane Giuseppe Marti, impiegato tuttofare di casa Tobler, nel libro di Robert Walser, L’assistente.
Una domanda, questa, che con grazia fulminea rivela Walser molto più di quanto non facciano i curricula  che lui  scriveva per necessità e per gioco.

Commesso di banca, impiegato, assistente perfino valletto in un castello, questi alcuni dei mestieri che egli descrisse e che di volta in volta fuggì, colto da insopprimibile angoscia.

Come altri assistenti, impiegati, valletti, subì umiliazioni, ferite dell’anima che fanno incrudelire alla svelta. Lui non incrudelì. Le umiliazioni piegarono il suo sguardo verso il basso,
il piccolo , l’insignificante. Divennero il passaggio segreto alle “regioni inferiori”, luoghi dove poter respirare e guarire.

I personaggi che popolano i suoi racconti e romanzi sembrano giovarsi di questa guarigione e così pure i suoi lettori.

A ben vedere questi personaggi  hanno poco l’aria di esserlo; si mostrano riluttanti ad assumere forme definitive, rifuggono con garbo  approcci troppo pensosi. Amano la vita ma vi si appigliano giusto per un lembo della veste: una posizione  scomoda e rischiosa che però sembra divertirli.

Più che figure nate sulla carta  sono creature viventi migrate sulla pagina scritta. La migrazione non li ha mutati, non li ha corrotti, sembrano, al contrario, aver salvato per intero la loro integrità. Respirano, come scrive Benjamin, “l’aria pura e forte della vita che guarisce”.2 Quanto al luogo dove sono migrati non ha nulla di remoto. Il luogo è qui,  è la terra.  I personaggi di Walser sono creature terrestri.

Una caratteristica che accomuna questa specie di migranti è la sventura. Essi sono sventurati, non tristi. La sventura si mostra in mezzo a loro con il suo corredo di veli e misteri che nessuno  si sogna di strapparle di dosso.

“La sventura è una compagna così delicata, che viene adagio, senza annunciarsi, e ci sorprende sempre, come se fossimo dei tonti che è sempre possibile sorprendere”, dice il giovane Simon in un passo de I fratelli Tanner. E aggiunge: “… Sì, il destino, la sventura è bella. È buona; perché comprende anche la fortuna, il suo contrario. Risveglia a nuova vita, quando ha distrutto quella vecchia che non le piaceva…”.3

Dal luogo della loro guarigione i personaggi di Walser non si stancano di ripetere che la vita è meravigliosa, per quello che è, beninteso.

Questa franca dichiarazione d’amore alla vita disarma e consola allo stesso tempo. Walser non indugia, non si pone domande filosofiche. Filosofia e religione non godono tra l’altro la sua simpatia: sprigionano un sentore di muffa, un gelo cimiteriale che è meglio rifuggire alla svelta.

“Solo nelle regioni inferiori riesco a respirare”,4 dice il giovane Jakob von Gunten. Ed è verso quelle regioni che egli si ostina ad avventurarsi. Un insolito vagabondo che cammina con il sole che tramonta alle spalle, giù, dove la notte si fa profonda, dove il pellegrino arresta il passo in attesa del nuovo giorno.

Lo segue a breve distanza il corteo dei suoi amati personaggi: perdigiorno, visionari, buffoni, sognatori, fate.

Nei romanzi Jakob von Gunten e  I fratelli Tanner , i nomi delle fate sono Lisa Benjamenta, Hedwig, Klara e la direttrice di una casa di cura per il popolo. S’incaricano di svelargli il destino o la sventura ma lo fanno con una certa noncuranza. Destino o non destino, c’è tutta la vita da godere.
Le fate di Robert Walser non sono ondine, appartengono alla terra o vogliono ardentemente appartenerle. Quanto alla sventura, la vedono benissimo. Essa le avvolge in un velo notturno e le rende belle e distanti:” …Klara si comportava in quel locale popolare, quasi le riuscisse spontaneo, come un essere superiore, lontano, volato lì da altre regioni, da un’altra sfera, da un altro mondo”, dice Simon, nel romanzo I fratelli Tanner , a  proposito della donna innamorata di suo fratello Kaspar, che li ospita nella sua casa.

E in  Jakob von Gunten, così l’adolescente Jakob descrive Lisa, la venerata educatrice dell’Istituto Benjamenta: “ A volte, mentre ce ne stiamo lì seduti o in piedi, si apre la porta e la signorina attraversa lentamente l’aula guardandoci in modo strano. Quando entra così, mi fa l’impressione di uno spirito: come se qualcuno arrivasse da molto molto lontano”.

Come tutte le fate degne di questo  sanno fare magie senza tuttavia attribuirvi grande importanza: “Mi credi una maga?”, chiede Lisa al giovane Jakob mentre lo conduce in profondi sotterranei. “No, non sono una maga. Certo una piccola pratica di magia, di seduzione, questa sì, come ce l’ha ogni fanciulla, ce l’ho anch’io. Ma adesso vieni…”.5

E Klara che appare in sogno a Simon , dice al giovane amico:
“Ora sono diventata una maga”. Grazie alla sua bacchetta magica apre una porta e, distesa su un giaciglio, Simon scorge sua sorella Hedwig. “E’ morta”, gli dice Klara. “La vita le faceva troppo male. Sai cosa vuol dire essere una fanciulla e soffrire? Se ne va senza aver risposto alla domanda del mondo: “Perché non vieni?”.6

La domanda è molto seducente ma nasconde insidie. Hedwig vorrebbe correre a braccia aperte verso la felicità che è implicita in quell’invito. Ma ci sono ostacoli, tenebre da attraversare.
Hedwig, maestra di scuola assai stimata, confessa a Simon “di essere separata dalla vita come da un diaframma sottile ma impenetrabile allo sguardo” e più avanti aggiunge: “ Io sono infelice nonostante il rispetto di cui godo, dunque di fronte a me non merito questo rispetto giacché ai miei occhi è degna di rispetto soltanto la felicità”.7

La mano che invita a godere della gioia del mondo è la stessa che spinge fuori, nell’acqua, nel sonno, nel delirio: “… La Klara! Dov’è ora? Cercala, cercala. Ma dovresti andare nell’acqua. Uh, rabbrividisci, vero? Io non rabbrividisco più…”.8

Scrive  Benjamin che Walser inizia dove finiscono le fiabe. Le fate che popolano i suoi romanzi sembrano rispondere in pieno a questa definizione trovandosi  sul margine di quel confine.

Creature di rango, possiedono audacia e sapienza, qualità rare che ne svelano la natura magica ma che allo stesso tempo segnano il confine che le separa dal mondo al quale aspirano appartenere.

“Perché non vieni?”, è pure la domanda che Walser rivolge loro. L’invito, questa volta, non nasconde insidie, il luogo dove egli le invita a migrare è, come per tutti gli altri suoi personaggi, la pagina scritta. Ma il passo che le fate devono compiere per approdarvi è sul limite dell’abisso.

Bisogna saltare per colmare la distanza che le separa dal mondo, per guadagnare un’anima mortale.

Loro vi acconsentono perché nella voce che le chiama riconoscono la parentela che unisce  il fratello alla sorella:

“Dimmi”, chiede Lisa  all’adolescente Jakob, “mi vuoi bene come un giovane fratello vuol bene a una sorella? Non ti chiedo altro…”.9 E Klara abbracciando Simon  esclama: “ Ti voglio bene come a un fratello. Ora tu sei mio fratello…”.10

Hedwig non sembra dover attraversare alcun confine. La sua dimora è la terra,  dalle sue mani non
spunta una bacchetta magica. La somiglianza con le altre due figure femminili si rivela  nel suo disadattamento, nel radicale rifiuto ad essere accomodanti che lei oppone a chiunque cerchi di  suggerirglielo.

Hedwig  vuole essere felice perché questa è l’unica cosa che conta. Poiché non ottiene questo diritto che è naturale ai suoi occhi,  vuole guardare in faccia l’ostacolo che vi si oppone: “…Nessuno”, dice al fratello Simon, “mi ha mai detto che ero una fanciulla. Nessuno mi ha lusingato con un’osservazione di questo genere. Nessuno ha pensato a me con quel tanto di riflessione che sarebbe stata necessaria per fare un’osservazione così semplice, alla quale io avrei dato ascolto anche se al primo momento avrei finto d’indignarmi”.

Hedwig non si rivolge a qualcuno in particolare;  dice  “nessuno” e lo ripete tre volte. L’ostacolo  è  nella disattenzione dei gesti quotidiani, nella paura di esigere la felicità dipinta sui volti fiacchi di coloro che la circondano. Nessuno aspira ad amare e tantomeno ad essere amato. Questo è il diaframma sottile che la separa dalla vita e sul quale lei leva il suo sguardo di limpido  disincanto.  Quanto alla professione di maestra, che altri, con parole superficiali, le indicano come valore da tenere in alta considerazione, obietta: “Strano onore essere una fanciulla infelice, interiormente povera, e che si strugge di desideri, come sono io adesso, con tutto l’onore della professione…”.11

Onore, prestigio, intelligenza,  non sembrano far breccia nel cuore di questa fanciulla audace.  Tanta temerarietà porta inesorabilmente all’esilio dal mondo, al giaciglio di lino bianco dove Simon, guidato da Klara,  la vede distesa.
“È morta”, dice la fata, “la vita le faceva troppo male”.

L’incontro tra i personaggi  di Walser e le fate può avvenire in modo del tutto casuale, dunque ancor più carico di sorpresa e d’incanto. Simon suona timidamente il campanello di una casa elegante. La signora che apre la porta lo guarda con i suoi grandi occhi neri,  “veri occhi di donna”.
I due hanno l’aria di essersi già incontrati,  in un’altra sfera, forse in un altro mondo.
Simon cerca una camera per sé e per suo fratello Kaspar.

Klara lo osserva: da dove spunta il giovane che ha davanti? E’ reale, sì, ma ha pure l’aria di essere piovuto dal cielo. Un’apparizione. Reale o fantastico che sia, poco importa. Lo sconosciuto porta doni. Klara lo vede benissimo dunque deve cogliere all’istante l’occasione che le si presenta.

“Quanto vorrebbe per la stanza?”, chiede Simon. “Così tanto?”, e fa per andarsene. Il prezzo é troppo alto,  la dimora troppo elegante.   Ma lei,  d’impulso, lo rincorre: “Cosa le viene in mente di andarsene così in fretta?”, gli chiede, “Capisce, io voglio, io desidero tenervi tutti e due…”.12

L’ultimo incontro tra Simon e Klara è  un cerchio che si chiude. Di nuovo, del tutto casualmente, il giovane Simon si trova a passeggiare per i vicoli di un quartiere povero.  Da tempo lui e Klara si sono persi di vista. Ed ecco che i suoi passi lo conducono fino alla cara amica. Simon solleva lo sguardo su una delle case che si affacciano sul vicolo e  la vede  alla finestra.

“Oh, Simon, sei tu! Vieni su! “, gli dice Klara.

Simon fa di  corsa le scale, apre la porta, si arresta sulla soglia.

Seduta accanto alla finestra  vede una persona che è Klara e allo stesso tempo non lo è .

Il suo aspetto regale coincide con il mutamento che è avvenuto in lei.  Indossa un pesante abito rosso cupo, il viso è più pallido di un tempo, gli occhi ardono di un fuoco più profondo.

“La regina dei poveri! Sì, questo sono”, gli dice . “Non vedi come
la tua Klara è vestita in modo principesco? È ancora un capo del mio guardaroba da ballo. La mia condizione di principessa m’impone un poco di sfarzo. La mia gente ne è contenta, hanno il senso della grandezza”.13

Nel capitolo che chiude I fratelli Tanner , Simon incontra una  nuova figura femminile  che si discosta dalle altre incontrate nei due romanzi: la direttrice di una casa di cura per il popolo.

È una gelida notte d’inverno. Il giovane vagabondo  camminando come sempre senza una meta precisa ritrova la casa vicina al bosco che era appartenuta a Klara.  Al posto dell’elegante chalet di legno dove tante volte Simon era stato ospitato insieme a Kaspar c’è una casa grande, “non brutta”. E’ una casa  dalla quale entrano ed escono persone di ogni genere. Simon ha molto freddo e decide di entrare. Lo accoglie un ampio salone ben riscaldato che profuma di rami d’abete. I rami  rivestono interamente le pareti del locale e gli danno una festosa aria natalizia. Egli si siede ad un tavolo e osserva le cameriere, “graziose ragazze che sbrigano il servizio come se fosse un piacevole gioco”. Mentre Simon si gusta queste immagini e si scalda le ossa, una figura snella si avvicina al suo tavolo.

“Mangi e beva tutto quello che vuole”, gli dice la misteriosa signora, “non deve pagare nulla”.14

Simon domanda se quel privilegio riguardi soltanto lui. “Naturalmente”, risponde
la direttrice.

Walser non dà una descrizione precisa della direttrice. Dice soltanto che è snella. Non sappiamo se è giovane, bella, se ha occhi che incantano, non conosciamo il suo nome.
A ben vedere, quest’ultimo capitolo del libro sembra scritto in modo un po’ affrettato quasi che Walser stesse per soccombere all’angoscia che lo incalzava e che poteva raggelare l’atto della sua scrittura.  Simon ha lasciato dietro di sé diversi impieghi, i volti cari di persone amate come Klara, Hedwig o il fratello Kaspar. Ognuno ha trovato una strada. E  la strada di Simon, qual é? Quale, il suo futuro?

Nell’ultimo capitolo del romanzo Walser affida alla misteriosa direttrice la risposta alla domanda angosciante. Lei è seduta al tavolo del giovane vagabondo e conversa con lui. È una donna d’affari che sa giudicare le persone. Questo fatto è piuttosto tranquillizzante.
Il segreto della buona gestione dei suoi affari è molto semplice: “Trattare tutti con gentilezza! Noi uomini”, dice, “non siamo forse, su questo solitario sperduto pianeta, tutti quanti fratelli? Fratelli e sorelle? Fratelli per le sorelle, sorelle per le sorelle, e di nuovo sorelle per i fratelli?”15.
Le parole che ella pronuncia sono prima di tutto una voce che calma. Simon ne trae aiuto e conforto. Il salone accogliente dove tutti sembrano amici e parenti è il luogo della fratellanza, l’utopia terrena di Robert Walser.

Simon si affida alla direttrice perché  lo conduca  fuori, nel futuro del quale egli  ha paura.
Il futuro, dice la direttrice, è “questo arco audace sopra acque scure, questo bosco pieno di alberi, questo bambino dagli occhi splendenti…”. E più avanti aggiunge:” Il presente è il futuro. Non trova che qui intorno tutto respiri soltanto presente?”.16
Poi lo invita a parlarle di sé e Simon rende una confessione ampia e completa: “Mi chiamo Tanner”, dice , “Simon Tanner”.  E racconta della sua vita, dei suoi fratelli, di come essi siano tutti migliori di lui. Poi arriva al punto: “Non ho nessuna paura”,  dice, “ di prendere anche io una forma, ma formarmi definitivamente è una cosa che desidero fare il più tardi possibile”.17
Simon si sforza di celare l’angoscia dietro l’allegria e lo scherzo. Ma essa vi  traspare, cresce a mano a mano che egli parla : “Io sono quello che ha offeso il mondo”, dice.  “La terra sta di fronte a me come una madre in collera, offesa: un volto meraviglioso del quale sono infatuato, il volto della terra madre che richiede espiazione! Io ripago quello che ho trascurato, che ho perduto giocando e sognando…”.

In effetti la terra  sta di fronte a lui perché altri non è la direttrice della casa di cura per il popolo. Ma il suo volto non esprime collera, la sua voce non ha accenti d’ira.

A lei, il vagabondo Simon, figlio prediletto, si rivolge perché lo guidi verso “l’arco audace sopra acque scure”,  nel bosco buio dove  potrebbe smarrirsi.

“No, lei non si perderà”, gli dice la direttrice. “Io le insegnerò”. E aggiunge, in chiusura del romanzo:

“Venga. Andiamo fuori nella notte d’inverno. Nel bosco dove il vento rumoreggia. Devo dirle tante cose. Sa che io sono la sua povera, felice prigioniera? Non una parola di più, non una. Ora venga…”.18

Il passo di Lisa Benjamenta risuona lieve e distante lungo il romanzo Jakob von Gunten. Questo modo di procedere sfiorando appena il terreno ricorda la leggerezza e la grazia delle creature artificiali magnificamente descritte da Heinrich von Kleist nel breve saggio Sul teatro delle marionette.

Lisa sembra essere uscita dall’officina di un artigiano fanciullo che ha rovistato in ogni angolo della sua  immaginazione per trarne le figure più belle e misteriose, le memorie infantili più seducenti al fine di assemblarle in un perfetto simulacro di bellezza femminile.
“Com’è bella!”, esclama il fanciullo davanti alla sua creazione. “Che massa opulenta di chiome corvine!” E gli occhi! E le guance!  E i  denti! È davvero perfetta.
Rapito dal suo gioco crudele egli  intreccia tra le dita fili sottili e getta la sua creatura nella danza.
Lisa Benjamenta si muove, ibrido bizzarro, marionetta-fanciulla dai molti insondabili segreti.
Come gli altri fantocci meccanici descritti dal signor C., primo ballerino dell’Opera nel saggio di Kleist, possiede “mobilità, armonia, leggerezza”, ma tutte in misura superiore rispetto ai ballerini vivi”.19

“Oltre a ciò”, dice ancora il signor C., “i fantocci hanno un altro vantaggio: sono antigravi. Non conoscono l’inerzia della materia, tra tutte le qualità la più contraria alla danza, perché la forza che li solleva in aria è maggiore di quella che li inchioda sulla terra…”.
Lisa  non tocca le persone e le cose che incontra sul suo cammino, le sfiora soltanto.
In questo stesso modo si muovono le marionette che “come gli elfi, hanno bisogno del terreno solo per sfiorarlo e per rianimare, con il momentaneo arresto lo slancio delle membra…”.20

La grazia perfetta di Lisa  testimonia la sua distanza dal mondo ma non rivela il luogo della sua provenienza. Da dove viene la marionetta-fanciulla? Come gli altri personaggi di Robert Walser  “proviene dalla notte , dove essa è più nera, da
una notte veneziana, se si vuole , illuminata dai deboli lampioni della speranza…”.21

A mano a mano che si procede nella lettura del romanzo il passo di Lisa si fa più greve. Ella arranca, si affatica come se le molle del suo perfetto meccanismo stessero per saltare sotto il peso della creatura umana che aspira a divenire.

“Perché non vieni?” è l’invito al quale anche Lisa vuole  ardentemente acconsentire.   Per farlo deve rinunciare alla leggerezza propria della sua natura artificiale, sottostare alla legge terrestre di gravità che impone agli oggetti di cadere:
“Sì, Jakob”, dice  Lisa al suo giovane confidente, “la morte (oh che parola!) è qui, alle mie spalle. E vedi, come adesso io respiro, così lei respira dietro di me il suo freddo, terribile soffio, e io cado giù, giù, sotto quel soffio”.22

L’alito freddo della morte sotto il quale cade è il soffio che muta la marionetta in fanciulla. I fili che animavano i suoi movimenti sono recisi. Lisa ha oltrepassato l’oscuro territorio della fiaba, si è liberata dai lacci dell’immortalità.

Il luogo dove  discende è il territorio dei dormienti,  il luogo “più vicino a Dio”, come dice il giovane Jakob.

Intorno alla fanciulla esanime si raccolgono gli allievi dell’Istituto Benjamenta per officiare la cerimonia funebre in suo onore.

“Dormi”, dice Kraus a nome di tutti , “riposa in pace amata signorina”. E  Jakob che ne contempla il volto nella veglia  vede che ella acquista nuova bellezza:

“Il viso della morta era sempre più bello, sembrava anzi essersi fatto più avvenente; dirò di più, di minuto in minuto pareva acquistare in  bellezza, in commozione, in grazia”.23

L’amore di Robert Walser per le sue fate tragiche è una fredda passione invernale. Freddo è l’invito che le chiama nel mondo. Freddo il paesaggio che le accoglie. Grossi fiocchi di neve cadono su quel paesaggio,  e sempre si trattava di buie albe invernali24.

Sulla neve ancora soffice si possono scorgere a malapena le  tracce del percorso che  hanno fatto per raggiungere i luoghi della loro guarigione. Da quei luoghi non si stancano di ripetere insieme agli altri migranti  che la vita è meravigliosa, per quello che è, beninteso.

  1. R.M.Rilke Autunno; Libro delle Immagini – Ed. Cederna  
  2. Walter Benjamin – tratto dalla prefazione al romanzo di R. Walser L’assistente – Ed. Einaudi p. XVIII  
  3. I fratelli Tanner – Adelhpi, p. 201  
  4. Jakob von Gunten – Adelphi, p. 149  
  5. ibidem, p. 186  
  6. I fratelli Tanner , p. 186  
  7. ibidem, p. 186  
  8. ibidem, p.80  
  9. Jakob von Gunten, p. 150  
  10. I fratelli Tanner ,p.49  
  11. ibidem, p. 139  
  12. ibidem, p. 26  
  13. ibidem, p. 248  
  14. ibidem, p.260  
  15. ibidem, p.261  
  16. ibidem, p. 263  
  17. ibidem, p. 276  
  18. ibidem, p. 277  
  19. H. von Kleist – Sul teatro delle marionette – Ed. Guanda, p. 34  
  20. H. von Kleist op.cit.  
  21. Walter Benjamin, op. cit.  
  22. Jakob von Gunten, p. 139  
  23. ibidem, p.162  
  24. ibidem, p.137