La grande rinuncia alla grandezza

A proposito di Ritratti di scrittori di Robert Walser di Mattia Mantovani

Robert Walser a Berlino nel 1905

Il pensiero che potrei aver successo nel mondo mi fa inorridire, aveva fatto dire Robert Walser al Franz Moor dei Masnadieri di Schiller, uno dei tanti alter ego che popolano le pagine delle sue opere. Era il 1907, Walser aveva ventinove anni e lo scritto – una breve prosa in forma di monologo – si intitolava significativamente Una celebre entrata in scena. Il destino, in effetti, lo ha accontentato, perché Walser ha vissuto una vita povera ed appartata, lontana dalla fiera letteraria delle vanità, e il successo e la fama internazionale sono arrivati soltanto dopo la morte, avvenuta nel 1956, e soprattutto in occasione del centenario della nascita, quando nel 1978 il grande editore tedesco Suhrkamp pubblicò la prima edizione critica completa delle sue opere.

Nel frattempo, lo scrittore svizzero tedesco – era nato a Bienne, nel Cantone di Berna, ed era morto a Herisau, nel Cantone di Appenzell, dopo quasi un quarto di secolo trascorso in una clinica psichiatrica e senza più scrivere nulla – era stato scoperto anche in Italia grazie a Una cena elegante, una scelta di brevi prose tradotte da Aloisio Rendi e pubblicate nel 1960 dal piccolo editore Lerici di Roma, grazie a L’assistente, tradotto da Ervino Pocar e pubblicato nel 1961 da Einaudi, e soprattutto grazie alle opere proposte da Adelphi a partire dai primi anni settanta: i romanzi Jakob von Gunten e I fratelli Tanner, le raccolte di brevi prose Storie e Vita di Poeta, e soprattutto il lungo racconto La passeggiata, uno dei grandi capolavori della letteratura del novecento.

Dopo gli entusiasmi, in molti casi superficiali o modaioli, che accompagnarono queste pubblicazioni, l’interesse per Walser andò via via scemando, e le traduzioni si fecero sempre più rare. L’editore “ufficiale” di Walser, Adelphi, lasciò infatti passare sette anni tra la pubblicazione di Vita di poeta e quella di La Rosa, un volume di brevi prose apparso nel 1992, e da quel momento si è dovuto attendere per un lasso di tempo ancora più lungo, quasi dodici anni, per vedere un nuovo libro di Walser pubblicato da Adelphi. Del resto, in un panorama librario ormai dominato da scrittori di stagione che scrivono libri che recano già impressa la data di scadenza, è veramente difficile proporre uno scrittore assolutamente demodé come Robert Walser.

E che Walser sia davvero uno scrittore demodé lo si nota proprio leggendo un nuovo volume proposto da Adelphi nella collana della Piccola Biblioteca. Il volume, curato da Eugenio Bernardi, si intitola Ritratti di scrittori e presenta una scelta di trentadue testi, pubblicati originariamente tra il 1902 e il 1936, nei quali Walser ha appunto ritratto e descritto scrittori e poeti che gli erano particolarmente affini. Se si eccettuano un testo piuttosto malevolo nei confronti del drammaturgo tedesco August von Kotzebue ed un breve scritto dedicato ad un ironico e disinvolto raffronto tra Tolstoj e il riformatore svizzero Hutten, tutti gli altri testi si presentano come altrettanti esercizi di mimetismo, perché Walser parla di altri scrittori ma in realtà parla di sé stesso, racconta la propria vita, come se questi ritratti fossero i tanti capitoli di quello che lo stesso Walser, in un altro suo scritto, aveva definito il proprio “romanzo dell’io”.

I protagonisti – alter ego, proiezioni, rispecchiamenti, identificazioni – di questo “romanzo dell’io” sono stati a loro volta protagonisti, spesso incompresi, della letteratura: c’è ad esempio il poeta tedesco Clemens Brentano, immortalato in ben quattro ritratti di epoche successive, c’è un altro grande poeta di lingua tedesca, poco conosciuto in Italia, l’ungherese Nikolaus Lenau, al quale sono dedicati due splendidi scritti, e poi ci sono gli svizzeri Gottfried Keller e Jeremias Gotthelf, e ancora Heinrich von Kleist, Georg Büchner, Jean Paul, Friedrich Schiller e Friedrich Hölderlin, solo per citare alcuni degli esempi più significativi. Brentano viene descritto con una chitarra in mano, intento ad intonare canzoni romantiche in un’atmosfera falsamente idillica (“Questa è la storia, la romanza, la ballata, la commedia del poeta Brentano” – osserva Walser in chiusura del primo dei suoi ritratti. “Chi la credesse frutto di invenzione, non si affanni oltre, può senz’altro considerarla tale”); Lenau viene invece definito “il prediletto dell’infelicità, l’amico del dolore”, un poeta “innamorato delle delusioni, dello sconforto, dell’imperscrutabilità della vita, della sua dura ineluttabilità”; Georg Büchner viene fissato in un momento di fuga, quando, con in tasca il manoscritto della Morte di Danton, evade dalla Germania diventata per lui un carcere insopportabile; Kleist viene letteralmente inseguito un po’ dappertutto nei suoi pellegrinaggi, da Parigi alla cittadina svizzera di Thun, sempre in cerca di una felicità impossibile, fino alla morte prematura a soli trentaquattro anni nelle acque del Wannsee. C’è inoltre lo splendido “ritratto di un poeta”, nel quale si dice che “si è in vita anzitutto per non dar peso eccessivo né alla stima né alla mancanza di stima degli altri”.

Tutti questi ritratti, compreso quello di un Goethe che, in procinto di intraprendere il celeberrimo viaggio in Italia, si rende conto che “primeggiare non è davvero indispensabile”, sono autoritratti dello stesso Walser, che descrive i propri dubbi, le proprie incertezze e la propria inadeguatezza attraverso i dubbi, le incertezze e le inadeguatezze altrui. In questo totale mimetismo che non ha paragoni nella storia della letteratura, in questo svelarsi che è insieme un nascondersi, e viceversa, è racchiuso forse uno dei tanti segreti dell’opera di Walser, del suo fascino ma anche del suo carattere eternamente sfuggente, vitale, non riconducibile alle solite polverose ed esangui categorie interpretative della critica letteraria. Da questo punto di vista, lo scritto maggiormente rivelatore è forse quello dedicato a Friedrich Hölderlin, lo scrittore che Walser più di ogni altro sentiva affine e che, non a caso, lo ha idealmente preceduto nel cammino verso la follia e il silenzio.

Dopo aver descritto Hölderlin in tutta la sua terrificante ed avvilente incapacità di vivere e di scendere a patti con le miserie dello stare al mondo, Walser si congeda infatti con una domanda sulla quale, in questi tempi di protagonismo sfrenato e di cialtrone ed ipocrite certezze dell’anima, varrebbe davvero la pena di riflettere: “Non potrebbe essere grandezza anche il rinunciare alla grandezza?”.