Ettore Frani: verso l’esperienza del mistero e delle sue intuizioni

di in: Bazar

Ettore Frani, Comunicanda II

Una delle interrogazioni che ricorrono di fronte alla pittura di Ettore Frani, dentro al cuore della sua rivelazione, è se l’opera sia, nella sua essenza, una manifestazione simbolica o, al contrario, una pura concentrazione ermetica. Se, cioè, la sua proliferazione immaginale agisca come un rinvio a questioni che affondano nel mito secondo costellazioni già sperimentate o, per converso, rappresenti una prova colloquiale, un brano intrinseco al mistero dell’essere, alla sua esperienza cogente, vivissima, insondabile.

Il motivo per cui la prima ipotesi si mostra da subito come incongrua o, con ogni evidenza, insufficiente, è legato al fatto che nelle opere di un’artista come Frani, il più antico tra i moderni, si concentra tutta la potenza di una visione parziale e incondizionata. Un lacerto o brano rivelato sin dal suo nascondimento, a partire dalla negazione della sintassi, del procedere per premesse e conseguenze. Un metodo ellittico, il suo, capace di proiettare dentro l’ambulacro di un edificio immaginale una luce che permea i soggetti, li illumina e ne scaturisce intimamente. Un quadro-camera oscura dove la visione si compone come parte di un tutto. Ricettacolo di vita geologica, risultato di movimenti nello spazio e nel tempo in vista di un segreto sub-naturale all’incrocio tra mistero ed esperienza, cornice di irrealtà capace di renderlo immortale.

 

E l’assunto, allora, è questo: vive, in ogni opera di Ettore Frani, un’intuizione e non una profezia. La sua arte non parla del mistero o per il mistero, ma sgorga direttamente dall’intuizione della sua esperienza. C’è, in queste opere, tutte, dalla prima fase tra specchio e velo, alla seconda dei panneggi, sprofondata oltre il nascondimento, alle ultime di Terra, latte, luce e di Attrazione celeste, un furore e un movente profondo che conduce all’esperienza del mistero e delle sue intuizioni. Tanto che lo spazio in cui si apre per soddisfarne l’attesa non è una struttura vuota o, ancor peggio, astratta ma, semmai, l’estensione metafisica della sua intuizione, la sua dilatazione in profondità, regione interiore in cui viene calata l’esperienza dell’inesprimibile.

 

Ettore Frani, Fortezza

Ettore Frani, Fortezza

Materia di questa estensione è, fondamentalmente, la luce. C’è infatti una morbidezza, una ariosità, una fusione impalpabile di ombre radiose proprio lì dove il nero è pregno di luce. E l’emozionalità dell’opera non si risolve in un gesto definito, in un moto esatto; semmai nell’immagine dei moventi, delle spinte spirituali profonde.

Per questo siamo ancora all’interno della caverna dell’essere, sebbene in attesa e sulla soglia. Si tratta di una luce senza progetto, è ovvio, tutta interna allo sviluppo dell’esecuzione. Come se la velatura vincesse sulla prospettiva. Ma è una luce fattasi aria, densità luministica, atmosfera e corpo, intransigenza di forme. Perché spazio, tempo e luce raggiungano uno stadio di fusione paragonabile a un assoluto relativo, punto d’arrivo di un percorso artistico ed esperienziale insito in ogni opera.

La prospettiva, in questo contesto, non si risolve in una geometria delle linee ma, semmai, nel prodotto dei rapporti di luce dati dalle sue velature. Lo testimoniano gli orizzonti alti, mai concepiti come panoramiche distese, prospettiche. E che rappresentano una materia nobile, vicina alla sostanza interiore dello spazio e della luce. Formando un piano che non ha spessore di superficie e non si oppone alla concentrazione della luce, ma la trattiene solo quanto basta per restituirle una sottile frequenza di vibrazione. Uno spazio profondo e aperto dentro la caverna del sub-naturale in cui si è immersi senza riparo dentro l’esperienza della visione.

L’antitesi di profondità e superficie non si dà come tale, ma come proporzione di valori non oppositivi. La luce è spazio senza intenzioni. Mentre le figure, testimoni di una visione annunciata e in fieri, capaci di imprigionarne le risonanze, ne sono attraversate, riempite; materia opaca, energia accumulata e compressa che si disperde nel gioco di superficie e profondità.

È la dimensione dell’essere a rappresentarne l’essenza fondamentale; l’ombra un piano inclinato di irradiazione. Figure illuminate dall’interno che danno il senso della loro verità, della loro essenza. E che, in questo spazio e in questa luce dalla medesima natura profonda, si comportano allo stesso modo. Figure che non occupano lo spazio, che non lo colonizzano ma, semmai, vi sbocciano come escrescenze colme di estensione. E il cui motore è una luce più piena, più insondabile. Così che il loro mistero chiama a farsi sperimentare nelle forme stesse dell’essere.

 

Il colore, altresì, o l’assenza del colore, si costituisce nelle opere di Frani come una media interiore tra due tonalità, tra due timbri. Vi si gioca la proliferazione delle intensità luminose atte a descriverne i fenomeni per una rivelazione di unità assoluta, immutabile.

Il tempo si fa spazio, fino ad escludere ogni successione. Le zone d’ombra vere e proprie macchie d’aria, lo spazio aperto un fondale immerso e, persino, sprofondato nell’opera, caverna dell’essere. Opera che a volte si pone sulla soglia, sul limite estremo oltre il quale rischia la negazione di se stessa. Linea oltre la quale la luce si spiegherebbe come elemento puramente naturale. Quando è invece in questa caverna dell’essere, in questo ventre metafisico, che le due tonalità sprigionano il loro senso più profondo. Universo senza colore, dove persino le sfumature più sottili, estensione delle verità intrinseche all’essere, incarnano un’origine fervida, cupa, inquieta.

 

Ettore Frani, Attrazione celeste

Ettore Frani, Attrazione celeste

Ma è proprio nel tempo e nello spazio che prende corpo il senso musicale dell’opera di Frani, a partire dal silenzio e dal tono interiore. Un rumore di preghiera e di trionfo, un’armonia condotta sulla traccia della caduta e dell’elevazione. Esattamente ciò che accade in Terra Latte Luce III, dove a una predella assorta nel silenzio e nella lontananza, si impone il fragore della resurrezione, cateratta d’acqua risorgente. E, con impatto visivo ancora più assordante, l’Attrazione celeste, vero paradigma dell’esperienza artistica dell’ultimo Frani, punto d’arrivo tra i più riusciti nella sintesi tra sguardo, luce e suono.

Tutto ciò secondo due direttrici essenziali, nel tempo e nello spazio. Perché è proprio questo movimento impalpabile a tradurre musicalmente il discorso pittorico di Ettore Frani in ritmo e in altezza. La pioggia come caduta ed elevazione, dai toni gravi del basso a quelli acutissimi dell’alto, per arrivare al ciglio di tenebra e luce, nota caparbia e lunga sotto il contrappunto della stellata, vero e proprio sciame sonoro e cristallino. Mentre il ritmo rilancia da profondità aeree, dal vicino al lontano perfettamente intersecantesi nell’alto e nel basso. Tanto che ogni particolare risuona nell’alternarsi di prossimità e distanza.

Così La fortezza, montagne imperiose risorgenti dalle tenebre della coscienza, tra nebbie risalenti: la grande Torre del Pakistan. E al suo fianco le due Comunicande, donne dopo il bagliore. La prima svuotata, adusta, folgorata; l’altra spirante verso l’alto.

E ancora Sorgente: tela di bianco, bagnata, unta dal basso, nel centro. Corpo su coronamento, o predella nera, con acqua che cade e risorge; mentre nell’alto precipita una luce irreale. Emanata dall’acqua stessa. Radiosa.

Quindi Palpebre, quadri dipinti ad occhi chiusi. Ombre umane nel bianco. Sul retro, chiusi alla visione, nascosti allo sguardo, due cieli stellati, visti con gli occhi della mente, secondo un vero e proprio rovesciamento della prospettiva. Cieli senza occhi, da cigli erbosi, da ciglia interiori. Che sprofondano, catapultano nelle trincee dell’essere durante la notte, prima del lancio dei traccianti, prima dell’incursione, della raffica, dell’abbattimento. Ascensione di luce verso l’alto. Stellata fittissima. Moltitudine squillante, argentina.

Ettore Frani, Sorgente

Ettore Frani, Sorgente

Per arrivare, infine, all’atanor, origine ultima, principio e fine, quadro circolare. Il barattolo del pittore visto dall’alto, come vaso alchemico, colore nero stemperato in acqua-resina, in gomma-ragia, vero luogo, per ogni artista, di tutti i nascondimenti, di tutte le rivelazioni.